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Brand activism sociopolitico: il caso Gillette


Un’impresa come la nostra non può avere successo in un’economia in declino, in un ambiente degradato o in un contesto in cui il sistema scolastico non funziona. Dobbiamo assumerci la responsabilità di tutto questo.

Questa dichiarazione di Marc Benioff, CEO di Salesforce, ben evidenzia la crescente consapevolezza che si è diffusa in questi ultimi anni, di come le imprese possano essere un importante fattore dello sviluppo della società. La fase più recente dell’evoluzione dell’impresa consiste nell’affermare le sue responsabilità sociali, rendendosi conto che il purpose sociale è importante quanto il purpose economico: da qui nasce il paradigma del brand activism, portatore di implicazioni molto profonde, sia per le imprese stesse che per la società in cui operano.

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Il brand activism si focalizza su cause sociali e problemi che spesso si trovano al centro di accesi dibattiti pubblici, come l’uguaglianza di genere e il razzismo, e quindi prendere una determinata posizione a riguardo può determinare anche l’assunzione di rischi da parte dell’impresa stessa. In questa dimensione, non conta tanto quello che si dice, ma soprattutto quello che si fa.

È facilmente intuibile come il “prendere posizione” possa anche portare a essere divisivi e possa anche suscitare critiche: ed è proprio quello che è successo a Gillette, quando, nel 2019, ha lanciato la campagna “We Believe: The Best Men Can Be“, modificando il suo storico slogan “The Best a Man Can Get” in “The Best a Man Can Be“. Tradotto in italiano, quindi, da “Il meglio di un uomo” a “Al migliore degli uomini“. Un invito, più che una promessa, rivolto a tutti i consumatori: uscite dalle gabbie cristallizzate della mascolinità tossica, autogiustificativa (Boys will be boys – Sono solo ragazzi) e date un esempio ai vostri figli. Perché i ragazzi di oggi sono gli uomini di domani, e gli uomini di domani devono essere migliori dei maschi di oggi. Questa iniziativa mirava quindi a ridefinire l’identità maschile, affrontando questioni come il bullismo, le molestie sessuali e la mascolinità tossica, ispirandosi al movimento #MeToo.

Per capire la portata di questo cambiamento, facciamo un passo indietro, ripercorrendo la storia del brand in oggetto. La mission di Gillette è sempre stata quella di “aiutare gli uomini a sentirsi e ad apparire al meglio ogni giorno”. Fin dall’inizio, il marchio ha voluto essere un vero e proprio simbolo di mascolinità: questo posizionamento ha rappresentato per decenni un punto di forza, ma al tempo stesso è emerso come un limite nel momento in cui ha provato a riposizionarsi in termini di significati.

Per descrivere lo stile comunicativo storico di Gillette, è opportuno riavvolgere il nastro fino al 1989, anno in cui viene pubblicato lo spot dal titolo “The Best A Man Can Get”, mandato in onda durante il Super Bowl, ovvero la vetrina più importante per gli spot pubblicitari, essendo l’evento sportivo più seguito dell’anno. Nel video, della durata di poco più di 1 minuto, viene proposto uno schema tipico dell’uomo dominante all’interno della società occidentale. Tutte le scene trasudano mascolinità, ritraendo uomini in attimi di vita quotidiana nello svolgimento di diverse attività, dipingendoli come uomini in carriera, padri esemplari, mariti con mogli fedeli, atleti dall’aspetto fisico invidiabile derivante dal duro lavoro.

Nello spot sopracitato le figure femminili appaiono come spettatrici passive o come un supporto alle vite di successo dei propri uomini, come rimarcato nella scena in cui viene raffigurata una donna che aiuta il proprio marito a sistemarsi la cravatta prima di andare al lavoro.

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Nel 2019 il brand statunitense decide di riposizionarsi culturalmente ridefinendo il proprio claim da “The Best A Man Can Get”, modificandolo in “The Best A Man Can Be”. Il 13 gennaio viene pubblicato un cortometraggio intitolato “We Believe: The Best A Man Can Be”, pieno di riferimenti alla mascolinità tossica dal bullismo, alle molestie sessuali, alla disparità di genere, con cui Gillette esce dalla sua comfort zone e prende una posizione che rappresenta uno stacco netto rispetto alle comunicazioni passate, nonché un punto di non ritorno.

Lo spot affronta quindi delle questioni sociali che hanno la figura maschile al centro dell’attenzione, non più come uomo perfetto e divinizzato, ma rappresentato nella sua fragilità. L’obiettivo dello spot non era quello di screditare gli uomini, ma di incitare il proprio target a prendere una posizione netta, così come stava facendo il brand, contro una mascolinità tossica, ancorata ad una concezione ormai superata di uomo attribuita dalla società.

Un cambiamento sostanziale di significato e riferimenti, di quelli che impattano direttamente sulla brand equity guardando a nuovi orizzonti sociali e a una diversa identità. L’uomo proposto risponde ai valori dell’impegno verso il prossimo, della presa di responsabilità, di sensibilità e volontà di progressione personale. Il tutto in risposta a “mali” attuali quali la violenza sulle donne e il bullismo.

La campagna è stata accompagnata da un impegno concreto preso dal marchio nella donazione di 1 milione di dollari per i tre anni successivi, a organizzazioni senza scopo di lucro che presentano programmi per ispirare, educare ed aiutare gli uomini di tutte le età a raggiungere i loro obiettivi di miglioramento personale, per diventare un esempio per le generazioni future. Il video pubblicato sugli account ufficiali di Gillette Global ha generato da subito numeri che ne testimoniano l’incredibile risonanza ottenuta: oltre 23 milioni di visualizzazioni sul canale YouTube e 9 milioni su Facebook in una sola settimana.

La campagna ha generato accesi dibattiti attorno alla questione della mascolinità tossica e della riduzione del gender gap, creando due vere e proprie fazioni contrastanti: da un lato tutti quei consumatori che, sentendosi traditi dal brand, hanno espresso il loro dissenso con commenti negativi, facendo circolare l’hashtag #boycottgillette, diventato in poche ore virale su Twitter, che unito all’elevato numero di dislikes (oltre 1,1 milioni, con un dislike ratio del 63%) su YouTube ha portato alla disattivazione dei commenti sotto il post pubblicato dal brand. Dall’altro lato, però, c’è stato un insieme altrettanto corposo di uomini e donne che ne avevano compreso l’intento, apprezzando il coraggio di aver preso una posizione su un tema così dibattuto e delicato, portando ad un supporto attivo del brand tramite una difesa operata dagli utenti stessi che si sono imbattuti in discussioni accese con l’altra fazione.

Dal punto di vista economico, le vendite del marchio hanno subito un brusco calo nel breve periodo, registrando perdite per 350 milioni di dollari nei mesi successivi che hanno portato nel luglio 2019 alla chiusura dell’anno fiscale 2018-2019, con una svalutazione del marchio adoperata da P&G di 8 miliardi di dollari. Nonostante i risultati negativi nel breve periodo, il management aziendale ha confermato la propria strategia, con il Brand Director del Nord America, Pankaj Bhalla, che si è espresso affermando:

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Ci aspettavamo il dibattito. Attualmente una discussione è necessaria. Se non discutiamo e non parliamo dell’argomento, non penso che possa avvenire un cambiamento.

Scelta strategica che è andata in una direzione ben precisa, di cui l’azienda non si è affatto pentita, e che si è rivelata vincente, in quanto già a partire dal 2021 ha ripreso ad aumentare i profitti, registrando un +10% rispetto all’anno fiscale precedente, per un totale di 1,6 miliardi di dollari.

Il caso Gillette è un perfetto esempio di come il Brand Activism possa essere una strategia potente ma rischiosa. Prendere posizione su temi sociali può rafforzare la connessione con determinati segmenti di pubblico, ma comporta anche il rischio di alienare altri consumatori. La chiave del successo risiede nella coerenza tra i valori promossi e le azioni concrete del marchio, nonché nella capacità di gestire le reazioni del pubblico in modo autentico e trasparente.

Di certo Gillette, con questa campagna, ha dimostrato di aver capito ha capito la più importante, seppur semplice, delle verità: l’evoluzione dell’umanità non è un processo inevitabile ma va perseguita con fatica, energia, coraggio e una punta di spregiudicatezza.



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