La proposta divide: attrattiva per i lavoratori, costosa per lo Stato. Numeri, scenari e contraddizioni di un’Italia che invecchia senza riforme vere.
(Foto: il sottosegretario al Lavoro, Claudio Durigon).
Un Paese che invecchia e lavora meno a lungo
Quando si parla di pensioni, il divario tra teoria e realtà in Italia emerge con una chiarezza imbarazzante. Sulla carta, l’età per il pensionamento resta fissata a 67 anni, con l’automatismo che la aggancia all’aspettativa di vita. Nella pratica, però, i cittadini italiani lavorano in media appena 32,8 anni, uno dei dati peggiori d’Europa: solo la Romania fa peggio. La distanza con i partner comunitari è clamorosa: in Olanda, Svezia e Danimarca si superano i 42 anni di attività, in Germania si arriva a 40, mentre la Francia si attesta a 37,2, praticamente in linea con la media europea.
A complicare il quadro c’è la demografia. L’Italia è il Paese più vecchio d’Europa: età media 48,7 anni nel 2024, con una natalità in calo costante e un indice di dipendenza che fotografa bene la tendenza. Oggi ci sono 38,4 over 64 ogni 100 persone in età lavorativa. Secondo una proiezione, nel 2050 il rapporto sarà praticamente di un pensionato per ogni lavoratore attivo. Un equilibrio instabile, che già oggi pesa: la spesa previdenziale assorbe il 15,5% del Pil, il livello più alto dell’intera Unione europea.
La proposta Durigon: pensione a 64 anni per tutti
In questo scenario si inserisce la proposta del sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon, che il 6 agosto ha dichiarato: “I 64 anni possono diventare la vera soglia di libertà pensionistica”. L’idea è quella di consentire l’uscita a tutti, anche a chi ha carriere miste, bloccando nel contempo il meccanismo Fornero che dal 2027 dovrebbe far scattare l’adeguamento all’aspettativa di vita.
Non si tratta solo di abbassare l’età, ma anche di integrare il sistema con strumenti paralleli: tra questi l’uso del Tfr a fini previdenziali e nuove forme di flessibilità. Durigon parla di “misura equa e realistica”, ma l’equità rischia di essere un concetto più evocato che reale.
Il conto salato: fino a 180 miliardi entro il 2045
Le stime sulle conseguenze di un’uscita generalizzata a 64 anni sono pesantissime. Ogni anno si aggiungerebbero tra 120 e 160 mila pensionati in più, con un costo immediato di 0,3 punti di Pil già dal primo anno. Nei primi cinque anni (2025-2029) la spesa aggiuntiva ammonterebbe a 40 miliardi, mentre l’impatto cumulato fino al 2045 potrebbe toccare i 180 miliardi.
La curva non si arresterebbe: l’effetto strutturale comporterebbe un aggravio di circa 0,5 punti di Pil ogni anno fino al 2070, mantenendo così l’Italia su livelli di spesa pensionistica fuori scala rispetto ai partner europei.
Un meccanismo già fragile: requisiti e ostacoli
A oggi la pensione a 64 anni non è impossibile, ma resta una possibilità riservata a pochi. Occorrono almeno 20 anni di contributi e un assegno non inferiore a tre volte l’assegno sociale (1.616 euro lordi mensili nel 2025). Per le donne con figli la soglia è leggermente più bassa, ma dal 2030 si irrigidirà ulteriormente, salendo a 3,2 volte l’assegno sociale.
Il risultato è che la flessibilità resta spesso un miraggio. Lo dimostra il flop di Quota 103, che consentiva l’uscita con 62 anni di età e 41 di contributi, ma calcolando tutto col sistema contributivo. Nel 2024 hanno aderito appena 1.153 lavoratori: numeri insignificanti rispetto alle attese.
Giovani e lavoro: la vera frattura del sistema
Il nodo non è soltanto fissare una nuova età anagrafica, ma affrontare la questione strutturale: la durata della vita lavorativa. L’Italia ha uno dei peggiori tassi di occupazione giovanile d’Europa: appena 19%, contro il 51% della Germania. L’ingresso stabile nel mondo del lavoro arriva spesso oltre i 30 anni, riducendo di fatto la capacità contributiva e comprimendo la possibilità di accumulare pensioni dignitose.
Non è un caso che i sindacati abbiano accolto la proposta con freddezza. La Cgil ha parlato di “scorciatoia illusoria” che rischia di aggravare i conti pubblici senza risolvere il problema di fondo. In una nota si legge: “Si discute di abbassare l’età di uscita, ma non si affronta il tema dell’occupazione stabile e della precarietà che falcidia i giovani” (Cgil).
Piccole imprese e chance di rinnovamento
Una chiave possibile è rappresentata dalle micro e piccole imprese, che assorbono oltre il 40% dell’occupazione privata. In questi settori, più di un dipendente su cinque ha meno di 30 anni. Un dato che potrebbe trasformarsi in risorsa se accompagnato da politiche mirate di incentivi alle assunzioni e alla stabilizzazione dei contratti. Senza queste misure, ogni riforma rischia di diventare un semplice maquillage, incapace di garantire sostenibilità di lungo periodo.
Europa a confronto: modelli possibili
L’Italia non è sola in questa sfida. La Francia, dopo le proteste di piazza del 2023, ha alzato gradualmente l’età pensionabile a 64 anni, ma con un percorso di accompagnamento, sconti per chi ha carriere lunghe e sistemi di tutela per i lavori usuranti. In Germania il sistema rimane ancorato ai 67 anni, ma con un tasso di occupazione più alto e una vita contributiva più lunga, che rendono i conti più sostenibili. I Paesi nordici, che combinano welfare generoso e alta partecipazione femminile al mercato del lavoro, dimostrano che la vera sostenibilità passa dall’occupazione diffusa e non solo dall’età anagrafica.
Libertà apparente, debito reale
La proposta di Durigon ha un indubbio fascino politico. Parlare di “soglia di libertà” a 64 anni significa promettere sollievo a generazioni che hanno vissuto la riforma Fornero come una gabbia. Ma la politica delle pensioni non può essere solo marketing elettorale. I numeri raccontano un’altra verità: senza un mercato del lavoro più solido, un tasso di occupazione giovanile dignitoso e una natalità meno asfittica, ogni anticipo pensionistico rischia di trasformarsi in una bomba a orologeria sui conti pubblici.
In definitiva, la vera riforma non sarà quella che sposta di qualche anno l’asticella dell’età pensionabile, ma quella che renderà sostenibile il sistema rafforzando le basi contributive. Senza questo salto, la pensione a 64 anni rimarrà un sogno affascinante, ma destinato a infrangersi contro la durezza dei numeri.
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