L’organizzatore Luca Ricci (associazione CapoTrave): «Non bisogna avere un’attitudine populista che giudica se un festival funziona perché vende tanti biglietti. E per far entrare i giovani devono aumentare i fondi pubblici»
Quasi 7mila biglietti acquistati, per l’esattezza 6.938, almeno altre 7mila presenze conteggiate tra omaggi e partecipazioni a eventi gratuiti, 45 spettacoli, nove concerti, tre laboratori residenziali, quattro incontri pubblici. Ma anche un incasso di oltre 60 mila euro per gli esercizi della ristorazione e oltre 28 mila euro per le strutture ricettive pagati direttamente per le ospitalità, a cui si aggiunge il fatturato generato dagli spettatori che hanno prenotato in autonomia. E poi l’indotto indiretto generato tra bar, ristoranti e altri tipi di negozi. L’associazione CapoTrave, che da anni organizza e porta Kilowatt Festival a Sansepolcro (Arezzo), nel comunicato di chiusura dell’evento ha voluto sottolineare l’importanza della manifestazione di teatro, danza e musica non soltanto dal punto di vista culturale ma anche da quello economico: presenze e spettatori, ma anche cifre che raccontano l’indotto che ha mosso Kilowatt Festival nelle date in cui si è svolto quest’anno, dall’11 al 19 luglio, nelle 23esima edizione.
«Un festival come Kilowatt – dichiarano i direttori Lucia Franchi e Luca Ricci nel comunicato – è prima di tutto un esercizio di democrazia e partecipazione popolare, un esperimento di comunità temporanee che si auto-organizzano e un laboratorio di bellezza e pensiero. Dopodiché il festival è anche un propulsore economico del territorio, sia nell’immediato perché genera commercio, ma anche in prospettiva perché contribuisce alla reputazione del luogo che, soprattutto in una cittadina molto bella come Sansepolcro, genera flussi turistici anche per il futuro».
Il punteggio e i fondi pubblici
Sansepolcro, come molti altri festival, vive soprattutto di finnaziamenti pubblici, in particolare quelli del governo. Per Kilowatt è stata una «annata» in calo dal punto di vista del punteggio attribuito da parte del ministero della Cultura, anche se poi in termini di fondi ricevuti il saldo è stato positivo di 500 euro rispetto al 2024. «In queste settimane di mobilitazione collettiva del settore dello spettacolo dal vivo, successive ai punteggi di qualità assegnati dalle commissioni del ministero della Cultura per la concessione dei contributi del Fondo Nazionale dello Spettacolo dal Vivo – commenta Luca Ricci – non abbiamo detto nulla sugli 8 punti ponderati in meno che ci sono stati assegnati, perché credevamo e crediamo ancora che lo spazio di visibilità vada lasciato soprattutto ai festival e alle compagnie ingiustamente esclusi. Però, alla luce dei risultati qualitativi che abbiamo ottenuto con questa edizione, ci prendiamo lo spazio per una breve nota: una commissione che depotenzia un progetto come quello che abbiamo nuovamente dimostrato di saper realizzare dovrebbe farsi delle domande sulla propria capacità di leggere il contesto del teatro e della danza contemporanei in Italia».
Luca Ricci, si parla di tagli alla cultura: ci sono?
«Comincio con il dire che l’attuale governo, o gli enti come la Regione Toscana in cui operiamo – che è governata dal centro-sinistra per cui non ne faccio una questione politica – non hanno diminuito l’ammontare complessivo del fondo unico per lo spettacolo, ma la questione è più complessa. Posto che i fondi pubblici servono per la sopravvivenza di che fa cultura e per mantenere la qualità, il meccanismo in atto sin dai governi precedenti si basa su un sistema di competizione interna fra i soggetti che chiedono i fondi, spinto sempre di più. Dal basso ci sono pressioni di nuovi ingressi, perché arrivano nuove generazioni, che giustamente vogliono entrare. Il sistema starebbe in piedi bene soltanto se le risorse aumentassero progressivamente. Ma se restano invariate si alimenta una sorta di competizione primordiale quasi fratricida nel settore, una sorta di mors tua vita mea. La contrazione delle risorse è determinata da questo, non dal fatto che sono tagliate le risorse, ma dal fatto che si è creato un sistema autocompetitivo».
Oltre all’aumento delle risorse, quali altri interventi potrebbero migliorare l’assegnazione dei fondi pubblici?
«Non avere un’attitudine populista che giudica se un festival funziona perché vende tanti biglietti. La quantità premia chi riesce a fare più risultati e quindi ci si mette in una dinamica di mercato. Se posso capire che questo fattore possa avere un peso, comunque bisogna considerare anche la qualità. Le commissioni servono anche a dire che magari quel progetto fa meno numeri, però ha una qualità che è importante difendere. Gli errori che hanno fatto alcune commissioni è di equiparare le due cose, dare voti di qualità alti perché un evento fa tanti numeri. Ed è anche un paradosso: chi riesce a vendere tanti biglietti a prezzi non proprio popolari forse non avrebbe bisogno di finanziamenti pubblici. E a volte accade l’opposto: la qualità attrae meno pubblico e per questo non viene finanziata».
Come si risolve questo tema della qualità che non arriva al pubblico perché non trova finanziamenti?
«Andrebbe cambiato il funzionamento della commissione ministeriale nominata dal ministro della Cultura, che ha il compito di dare i voti di qualità e che però appunto secondo me ha un po’ confuso la qualità e la quantità. La questione è: quanto è possibile, per chi valuta, conoscere approfonditamente il sistema? Ebbene, in Italia i sette commissari non ricevono un compenso per la loro attività e invece secondo dovrebbero essere pagati per il lavoro che fanno perché dovrebbero avere la possibilità di girare per l’Italia e di andare a vedere che cosa accade ad Aosta o a Reggio Calabria e poter esprimere delle valutazioni e condividerle, dire se ha visto un bel lavoro oppure no. Certo, un festival o un artista hanno una reputazione, basata sui premi che vince, sull’attenzione che riceve e i commissari hanno modo di farsi un’idea anche senza muoversi, ma non è la stessa cosa. Il sistema francese è diverso. Il territorio è suddiviso in macro-aree, saranno sette o otto, dove c’è un’osservazione continua e attenta. E questo è curioso perché la Francia, che è un Paese super centralista, ha capito l’importanza di questa declinazione plurale. L’Italia, che invece è un Paese regionalista, nato da una pluralità, invece concentra tutto a Roma».
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