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le aziende difendono le norme di sostenibilità


C’è chi dice no alla revisione delle politiche sulla sostenibilità dell’Unione europea. Un gruppo di 198 aziende e investitori ha preso parola pubblicamente in difesa delle direttive sulla rendicontazione di sostenibilità e sulla due diligence, fortemente indebolite dal pacchetto Omnibus. Testi che sono il frutto di anni di lavoro e negoziati e che rischiano di essere vanificati in pochi mesi in nome della semplificazione e della competitività. L’appello, lanciato lo scorso 8 luglio, chiede ai decisori politici europei di salvaguardare l’essenza delle due direttive e, in particolare, di non ridurre il numero di aziende coinvolte.

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Il pacchetto Omnibus vuole annacquare le norme sulla sostenibilità delle aziende

Il pacchetto Omnibus infatti prevede un’ampia serie di modifiche alla due diligence, alla rendicontazione di sostenibilità, alla tassonomia delle attività economiche eco-compatibili e al meccanismo di adeguamento della CO2 alle frontiere (Cbam). Tra le principali, c’è una netta riduzione del numero delle aziende tenute a pubblicare il reporting di sostenibilità: spostando la soglia dai 250 ai mille dipendenti, resterebbe fuori circa l’80% della platea iniziale. Ma in realtà c’è la possibilità che il taglio sia ancora più netto, visto che in Parlamento c’è chi chiede di limitarsi alle aziende con oltre 3mila dipendenti.

E se la Commissione non sembrava intenzionata a modificare l’ambito di applicazione della direttiva sulla due diligence, a leggere la posizione del Consiglio dell’Unione europea si scopre che l’obiettivo è rivolgerla solo alle aziende con più di 5mila dipendenti. Solo dunque quelle più grandi, che sono poco meno di mille. Il pacchetto Omnibus, inoltre, alleggerisce i piani di transizione climatica richiesti alle aziende. E, in generale, limita di molto la quantità e qualità di informazioni che i grandi gruppi possono chiedere agli attori più piccoli delle loro catene del valore. Non è un “liberi tutti”, ma quasi.

Le aziende europee che si schierano contro la proposta Omnibus

I promotori dell’appello guardano con preoccupazione a queste proposte. Le norme sulla responsabilità delle imprese nei confronti dell’ambiente e dei diritti umani, avvertono, sono essenziali per raggiungere gli obiettivi economici e di sostenibilità dell’Unione europea. E servono anche alle aziende, perché sono «favorevoli alla competitività e alla crescita, nonché alla creazione di valore a lungo termine e ai conseguenti ritorni per gli investitori».

Il testo chiede ai decisori politici di applicare la direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità (Csrd) alle imprese con più di 500 dipendenti e di prevedere un periodo di introduzione graduale dai due ai quattro anni, cominciando con le imprese con più di mille dipendenti. I firmatari concordano sulla necessità di semplificare gli standard Esrs (European Sustainability Reporting Standards). La due diligence, sostengono, deve essere esercitata sulla base del rischio: limitarla ai fornitori diretti, come prevede la proposta Omnibus, rischia di trasformarla in un esercizio puramente compilativo senza conseguenze reali.

Tra le adesioni ci sono la multinazionale dell’energia Edf, il colosso dell’arredamento Ikea (Ingka Group), l’azienda energetica europea Vattenfall, la società di telecomunicazioni Nokia, l’assicuratore e gestore patrimoniale Allianz, il gestore patrimoniale La Banque Postale Asset Management e la società di servizi finanziari Nordea.

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La falsa narrazione del contrasto tra sostenibilità e competitività

Che non tutte le imprese siano favorevoli ad alleggerire le regole è chiaro anche da uno studio prodotto lo scorso maggio da InfluenceMap. Secondo le analisi della piattaforma LobbyMap, infatti, le aziende europee hanno fatto della sostenibilità un obiettivo a prescindere dalle politiche comunitarie. Se all’inizio del 2019, quando è stato presentato il Green Deal europeo, solo il 24% del campione si era dotato di impegni climatici allineati alla scienza, nel 2025 si è arrivati al 52%.

Questo vuol dire anche che gli obiettivi di sostenibilità non sono necessariamente un pericolo per la competitività. Almeno, non tutte le imprese la pensano così. Eppure quella narrazione ha influenzato molto il dibattito precedente alle ultime elezioni europee, e ha avuto un ruolo diretto anche nell’agenda della Commissione.

L’effetto “minimo comun denominatore” che amplifica le resistenze di una minoranza

Secondo lo studio, le posizioni espresse dalle associazioni industriali della chimica, dell’edilizia e dell’automotive rappresentavano solo una quota – di minoranza – delle imprese. Lo stesso vale per le associazioni intersettoriali a livello europeo (BusinessEurope) e degli Stati membri. In altre parole, Mouvement des Entreprises de France (Francia), Confederazione spagnola delle organizzazioni imprenditoriali (Spagna), Confindustria (Italia) e Federazione delle industrie tedesche (Germania), che sono tra le voci più negative sulle politiche climatiche, sono la punta di un iceberg in cui la base, ben più ampia, mostra posizioni decisamente più morbide e favorevoli.

In questi anni le associazioni di categoria e intersettoriali hanno denunciato a gran voce l’impatto negativo delle iniziative di sostenibilità sulla competitività europea. Hanno chiesto e sostenuto approcci basati sugli incentivi. Hanno sollevato barricate contro qualsivoglia regolamento vincolante e utilizzato termini ambigui per poter lasciare aperta la porta alle fonti fossili. Nel frattempo, però, la platea di imprese che rappresentano, in gran parte dei casi, applicava già quelle iniziative. O almeno ci provava. Secondo i ricercatori di LobbyMap, questi risultati mostrano un effetto “minimo comun denominatore”. Le associazioni industriali si fanno portavoce delle posizioni di una piccola parte dei loro membri, tendenzialmente legati ai combustibili fossili, e le rendono posizioni comuni.

Le imprese europee hanno già iniziato a investire nella transizione ecologica

Il fatto che una parte sempre più consistente delle imprese sia già impegnata in politiche climatiche, secondo gli studiosi, è legato ai loro cicli di investimento. Questi ultimi si snodano un orizzonte pluriennale e, quindi, non possono essere stravolti a ogni cambio di orientamento politico.

Un recente sondaggio condotto tra i dirigenti di aziende in Europa conferma questo dato. Il 97% degli intervistati si è dichiarato favorevole alla transizione dai combustibili fossili all’elettrico rinnovabile. Anzi, i sistemi basati sulle energie pulite sono ormai un fattore chiave nelle decisioni di investimento a lungo termine e nella scelta delle aree geografiche un cui localizzare la propria attività. Checché ne dica la retroguardia fossile, e chi se ne fa portavoce.

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