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I diktat alle imprese, i pericoli per la Fed (mentre Wall Street tocca nuovi record): cosa sta facendo Trump e perché riguarda anche noi

I diktat alle imprese, i pericoli per la Fed (mentre Wall Street tocca nuovi record): cosa sta facendo Trump e perché riguarda anche noi


di
Federico Fubini

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Un elenco di sei fatti dalla cronaca di questi giorni: che tipo di governo dell’economia è quello di Trump? È l’America che avete in mente?

Questo articolo in origine è stato pubblicato sulla newsletter di Federico Fubini «Whatever it takes», clicca qui per iscriverti.

In un tempo non troppo lontano un altro presidente dello stesso partito dell’attuale, Ronald Reagan, descriveva gli Stati Uniti d’America così: una «shining city upon a hill», una città lucente sulla collina, esempio unico per gli altri popoli del mondo. La frase viene da un sermone del 1630 del predicatore John Winthrop alla colonia puritana della baia del Massachusetts. Winthrop pensava a un modello di carità cristiana, Reagan al modello americano di libertà, opportunità, imparzialità e certezza della legge per tutti. Se questa è l’America che avete in mente, confrontatela con la cronaca economica di questi giorni. 
Vediamo un breve elenco di fatti.




















































Il «modello» Bessent

1) Nvidia e Amd, due aziende poderose, di immenso valore e vasti e crescenti ricavi e profitti, hanno accettato di esportare semiconduttori e microprocessori in Cina sulla base di una “licenza all’esportazione” concessa dal governo americano. Essa prevede il versamento del 15% dei loro ricavi realizzati in quel Paese allo stesso governo americano. Scott Bessent, il segretario al Tesoro, ha indicato questo prelievo obbligatorio in cambio di una licenza di esportazione come di un modello per altre aziende in altri settori in futuro. Pagateci per poter fare il vostro lavoro. Fino a questo momento, in oltre due secoli e mezzo di storia, mai nessuna azienda americana aveva dovuto condividere le proprie entrate con il governo per il privilegio di poter vendere i propri prodotti all’estero. 

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L’assalto alla Fed

2) Il presidente Donald Trump ha nominato nell’organo di vertice della Federal Reserve (il “Board of Governors”) un suo stretto collaboratore alla Casa Bianca, Stephen Miran. Il mandato di Miran dura solo fino alla fine dell’anno, in sostituzione della dimissionaria Adriana Kugler. Miran in un documento recente propone che il presidente stesso possa licenziare a propria discrezione il capo e gli altri esponenti di vertice della banca centrale americana. Sarebbe la fine dell’indipendenza della Federal Reserve dal potere politico. Peraltro non esiste precedente moderno di un governatore della Fed nominato per un tempo così breve, quasi a dargli libertà di contestare con più virulenza il lavoro della banca centrale dall’interno. Se ora il Senato a maggioranza repubblicana confermasse Miran – sulla base delle sue posizioni – di fatto segnerebbe l’avvio concreto dell’erosione dell’indipendenza della Fed. Il prossimo passo sarà la nomina di un presidente della banca centrale leale a Trump, al più tardi entro nove mesi. In questo la Fed finirà per somigliare alla Corte Suprema, un’istituzione potente, venerabile ma colonizzata dalla politica

Contro i dati ufficiali

3) Lo stesso Trump di recente ha licenziato la capa del Bureau of Labor Statistics, Erika McEntarfer, dopo la pubblicazione di dati deludenti sui nuovi posti di lavoro fra maggio e luglio. L’accusa a lei, senza alcun supporto, è di aver manipolato le statistiche per interessi politici. Il presidente ha sostituito McEntarfer con un economista della Heritage Foundation di nome EJ Antoni. Cosa sappiamo di lui? La Heritage Foundation, certo, è il think tank di destra che ha stilato un piano di trasformazione autoritaria dell’America sotto Trump (il famoso “Project 2025” che l’attuale presidente ha ignorato in campagna elettorale, per poi attuarlo una volta in carica: il think tank stima che già metà del programma sia realizzato nei primi otto mesi). Quanto ad Antoni, quel che colpisce di più non è tanto che sia fotografato qui sopra nella folla da cui partirà l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Era ovvio che Trump scegliesse un uomo a lui fedele, anche se questi ha preso parte a un tentativo di colpo di stato basato sulla menzogna secondo cui Joe Biden avrebbe rubato le elezioni del 2020. Mi colpisce di più che Antoni sembri del tutto impreparato al ruolo di capo del Bureau of Labor Statistics (questa agenzia, lo ricordo, pubblica dati fondamentali per l’economia mondiale come l’inflazione e l’occupazione in America). In un recente articolo Antoni sostiene che gli Stati Uniti sarebbero stati in recessione negli anni di Biden, dall’inizio del 2022 a metà del 2024; poco importa se ciò sia coinciso con la piena occupazione, l’esplosione dell’industria digitale e con continui record di Wall Street. Ora Antoni parla già di sospendere la pubblicazione dei dati sui posti di lavoro, in vista di una revisione del metodo per elaborarli; qualcosa del genere aveva fatto nel 2023 anche il governo di Pechino sui dati della disoccupazione giovanile in Cina, quando essa superò il 21%. 

Il portatore d’oro

4) Il sette agosto Tim Cook, CEO di Apple, ha presentato un dono in oro massiccio a 24 carati a Trump, con iscritto sopra il nome del presidente, visitandolo nello Studio Ovale per annunciare un investimento negli Stati Uniti.

I diktat alle imprese e le mire (pericolose) di Donald contro la Fed e le statistiche Usa. Perché Wall Street tocca nuovi record?

5) Bessent, il segretario al Tesoro, sostiene che l’«accordo» commerciale con il Giappone permetterebbe alla Casa Bianca di ricevere 550 miliardi di dollari da Tokyo da investire in America a discrezione di Trump e del suo governo. In pratica, una forma moderna di taglieggio o saccheggio di un alleato in cambio dell’accesso del Giappone al mercato americano. Bessent ha aggiunto che questo è il “modello” per nuovi futuri accordi, benché non sia chiaro se pensasse anche all’Unione europea. 

Nazionalizzare Intel?

6) Trump accusa – anche qui, senza indizi – l’amministratore delegato del gruppo americano di chip Intel di essere in conflitto d’interessi. L’8 agosto ne ha chiesto le dimissioni. Il sospetto del presidente sembra essere che Lip-Bu Tan lavori in segreto per la Cina (il manager, che vive negli Stati Uniti da quarant’anni, è nato in Malesia ed è cresciuto a Singapore). Massimo Gaggi sul Corriere racconta bene l’intera vicenda. A seguito delle accuse di Trump, l’amministrazione americana si starebbe ora preparando ad entrare nel capitale in Intel con una partecipazione rilevante. 

Ciascuno dei sei episodi che ho appena ricordato non ha sostanzialmente precedenti nella storia americana

Trump non ha portato solo il ritorno dei dazi ai livelli più alti degli ultimi novant’anni. Ha fatto molto altro nel suo governo dell’economia. La «shining city on a hill» di Ronald Reagan si sta trasformando in qualcosa di profondamente diverso. Si profila un modello basato su estorsioni tentate o riuscite nei confronti delle aziende nazionali e dei governi esteri formalmente alleati degli Stati Uniti; sull’azzeramento di fatto dell’indipendenza delle agenzie incaricate di assicurare la credibilità e l’imparzialità delle statistiche, il controllo dell’inflazione o la vigilanza bancaria. 

Il modello verso cui Trump avanza a grandi passi prevede anche l’intervento diretto del governo in aziende strategiche, sulla base di accuse mai circostanziate ma con l’obiettivo di tutelare una certa idea arbitrariamente definita di sicurezza nazionale. 

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In ciascuna di queste vicende il Congresso, aldilà dei passaggi formali, resta ai margini. Sarà sì chiamato a votare sulle nomine di Miran e Antoni, ma quanti nella maggioranza repubblicana oseranno contraddire il presidente? 

A questo punto, ciascuno può valutare da sé un simile modello di governo dell’economia. Lo si può definire autocrazia, autoritarismo arbitrario, culto della personalità del capo, socialismo reale sul Potomac, autarchia. Altri potranno definirlo un modello fondato sul legittimo primato della politica e dei suoi obiettivi strategici; un modello centralizzato per ragioni di sicurezza nazionale; l’inevitabile superamento dei tabù dell’era liberale fondata sul laissez-faire e la separazione fra loro dei poteri dello Stato. 

La rottura rivoluzionaria

Il trumpismo lo si può chiamare come si vuole, secondo le proprie inclinazioni. E certo il modello di prima aveva già dato segni di incrinarsi, sotto presidenti democratici così come repubblicani. Ma non si può fingere che siamo in sostanziale continuità con gli ultimi settanta o ottanta anni di storia americana o con gli ultimi quaranta di storia europea. Non è così. Siamo in una rottura rivoluzionaria. E ho già parlato prima in questo spazio dell’arricchimento e della corruzione alla luce del sole della famiglia del presidente con le criptovalute e gli stablecoin: tutte pratiche che i regolatori dei mercati finanziari della Securities and Exchange Commission fingono di non vedere perché anche il capo della Sec, Paul Atkins, è una pedina del presidente.

 Gli unici per i quali non è cambiato nulla sono i mercati finanziari. Passano da un record all’altro. La borsa (S&P500) sostanzialmente ai massimi storici, i premi di rischio sulle emissioni di debito societario ai minimi. Com’è possibile? Eppure la storia economica – dalla Cina, alla Turchia, alla Russia – mostra che sugli investitori l’arbitrarietà del potere, l’opacità dei dati, l’incertezza del diritto agiscono come un diserbante per l’ottimismo. Sono tossine che producono sfiducia e bloccano la voglia di rischiare. 

I diktat alle imprese e le mire (pericolose) di Donald contro la Fed e le statistiche Usa. Perché Wall Street tocca nuovi record?

Uomini e mercati

Quando Trump nel “Liberation Day” del 2 aprile annunciò dazi medi al 22%, i mercati reagirono come ci si aspetterebbe dai libri di teoria economica: decine di migliaia di miliardi di valore bruciati in pochi giorni, una rivolta degli investitori che costrinse la Casa Bianca alla marcia indietro. Ma guardate il grafico qui sopra sul livello medio dei dazi americani da quanto Trump è tornato al potere: passo dopo passo il presidente riportato i prelievi medi al 18,6%, poco sotto i livelli del “Liberation Day”; eppure dai minimi i mercati hanno scalato nuovi record, un aumento del S&P500 del 31%. 

Com’è stato possibile? 

Certo, è in atto la rivoluzione parallela dell’intelligenza artificiale. Nel merito Trump è riuscito anche a spostare la percezione della normalità in una massa enorme di persone, in modo che ciò appariva estremo in marzo oggi sembra accettabile. Poi il suo continuo ondeggiare permette a chi investe di dirsi che forse presto il presidente cambierà di nuovo idea sulla Fed o sul Bureau of Labor Statistics, dunque tutto resterà com’era. Ma la sostanza è che i mercati sono soprattutto un meccanismo per allocare denaro nel breve periodo, non un sistema di previsione e controllo delle rivoluzioni politico-istituzionali. Ad esse reagiscono solo dopo, a volte molto dopo. 

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Tocca agli uomini capirle quando accadono. Non ho idea se quella in corso in America prevarrà o sarà seguita presto da un’oscillazione del pendolo in senso opposto. Quello di cui sono certo è che l’America continuerà a essere una “city upon a hill” anche quando non è “shining”, lucente. Il suo modello continuerà a cambiarci, nel bene e nel male. Renderà accettabile ciò che prima non era, e viceversa. Per questo ogni azione di Trump riguarda direttamente anche noi, in Italia e in Europa.


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18 agosto 2025

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