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Gen Z e neurodivergenza sul lavoro


CAPITALE UMANO. La neuropsicologa Bocchiccio: «Pensare che tutti debbano funzionare nello stesso modo non è solo irrealistico: è pericoloso». I team inclusivi registrano +20% in innovazione e +30% in produttività

Senza la diversità di pensiero siamo destinati all’estinzione. Come accade per la biodiversità in natura, anche nella specie umana la varietà è ciò che ci tiene in vita. Non è solo una questione di differenze: è una questione di sopravvivenza. Quando un’azienda esclude, volontariamente o per ignoranza, le menti che funzionano in modo non convenzionale, si auto-condanna all’inefficienza, all’appiattimento, alla crisi. Perché ogni innovazione nasce da uno scarto, da uno scarto nasce un’idea, e da un’idea nasce il cambiamento. «Le neurodivergenze non sono un problema da correggere, ma una risorsa da integrare. afferma Sara Bocchicchio, neuropsicologa, psicoterapeuta Cbt e co-fondatrice di AnotherWayTo il cui motto è “Non esiste un solo modo giusto di”. Senza prospettive diverse, qualsiasi sistema, che sia biologico, sociale, aziendale, si impoverisce, si irrigidisce e alla fine si spegne».

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I numeri: il vantaggio competitivo

«I dati parlano chiaro: i team neurodiversi migliorano l’innovazione fino al 20%, aumentano la sicurezza psicologica del 40% e hanno una produttività fino al 30% più alta. Non è solo una questione etica: la neuroinclusione è una strategia vincente». Sara Bocchicchio non lascia spazio a fraintendimenti. L’obiettivo preciso: cambiare il modo in cui pensiamo la diversità neurocognitiva.

Due termini non sinonimi

Per farlo, parte da un chiarimento fondamentale. «Attenzione a non confondere i due termini», spiega. «Neurodiversità è un concetto collettivo e una verità scientifica: descrive la naturale variabilità dei funzionamenti neurocognitivi nella specie umana. Neurodivergenza, invece, è un termine relazionale che si riferisce a chi si discosta dalle aspettative sociali e culturali prevalenti, ad esempio persone autistiche, con ADHD o dislessia». Una distinzione non solo semantica, ma politica, culturale e organizzativa.

Il mito del modello neurotipico

Se la neurodiversità è la norma – come la biodiversità in natura – allora il “modello neurotipico” con cui leggiamo comportamenti, prestazioni, modalità di comunicazione e apprendimento, risulta parziale, talvolta tossico. «Pensare che tutti debbano funzionare nello stesso modo non è solo irrealistico: è pericoloso», incalza Bocchicchio. «Significa escludere menti con un differente cablaggio cerebrale solo perché divergono dalla media .E questo, in ambito lavorativo, ha un costo altissimo».

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La società, dice Bocchicchio, è progettata su misura per chi rientra nel gruppo più numeroso – i neurotipici – ma non necessariamente più adatto e desiderabile. «Il problema non è nelle persone neurodivergenti, ma negli strumenti, nei sistemi, nei contesti pensati per un unico modello cognitivo», spiega. Pensiamo al mondo del lavoro: colloqui a tempo, test logico-matematici, comunicazioni solo scritte. «Tutte modalità che escludono senza volerlo chi ragiona in modo non lineare, chi incontra sfide nella lettura, o chi gestisce l’attenzione in modo diverso».

Realtà di milioni di persone

Eppure, parliamo di un numero elevatissimo di persone: tra il 15 e il 20% della popolazione mondiale potrebbe rientrare nello spettro della neurodivergenza. Dati confermati anche da Harvard Business Review, Deloitte e Cornell University. Negli ultimi anni, si registra un aumento delle diagnosi tardive: dislessia, ADHD, autismo ad alto funzionamento. Spesso avviene in concomitanza con la diagnosi di un figlio o per effetto della crescente sensibilizzazione. «Ricevere una diagnosi in età adulta può essere uno shock – racconta Bocchicchio – ma anche una chiave per rileggere tutta la propria vita. Si smette di pensarsi sbagliati e si inizia a costruire una modalità di funzionamento sostenibile e autentica».

Scuola, lavoro e diritti: zona grigia

Tuttavia, la transizione scuola-lavoro resta una zona grigia. «Mancano strumenti, supporto e tutele. Le norme sono frammentarie, e chi dichiara la propria neurodivergenza spesso rischia di essere discriminato o penalizzato». Non tutte le neurodivergenze godono oggi delle stesse tutele. In Italia, ad esempio, la legge 25/2022 offre protezioni specifiche solo per i disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) nel settore privato, lasciando fuori condizioni come l’ADHD o l’autismo ad alto funzionamento, che spesso vengono gestite in modo frammentario ricorrendo alla legge 104 — uno strumento non sempre adeguato. Anche in ambito accademico o nel passaggio dalla scuola al lavoro, mancano normative univoche e strumenti strutturati. È la persona, ancora una volta, a doversi adattare al sistema, scegliendo se e quando dichiarare la propria condizione, con tutto il carico di stigma e incertezza che ne consegue.

Dal deficit alla risorsa

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Questo scenario di disparità affonda le radici in una visione medicalizzante della neurodivergenza, che il concetto di “neurodiversità” ha cercato di scardinare fin dalla sua origine. Il termine è stato coniato alla fine degli anni ’90 da Judy Singer, sociologa australiana autistica, che nella sua tesi di dottorato propose di considerare le differenze neurologiche come varianti naturali dell’essere umano, al pari della biodiversità. Una prospettiva radicale che si opponeva alla narrazione dominante del deficit, restituendo dignità e valore alla complessità cognitiva. Il cuore del discorso è culturale. È la mentalità che va rivoluzionata.

Inclusione è strategia

«La neurodivergenza non è una fragilità da compensare. È una risorsa da valorizzare», afferma. Eppure, la paura del pregiudizio è ancora forte. Pochissimi professionisti decidono di uscire allo scoperto. Alcune aziende, però, stanno cambiando rotta. SAP, Microsoft, JPMorgan Chase, EY: i loro programmi di assunzione mirata mostrano retention superiori al 90%. E i dati confermano un altro fatto cruciale: i benefici della neuroinclusione non riguardano solo le persone neurodivergenti. Coinvolgono tutti.

Un design accessibile conviene

Ma come si crea un ambiente realmente inclusivo? In AnotherWayTo crediamo che la riposta sia il design for all. «L’obiettivo è partire dalle esigenze e dalle caratteristiche di una singola persona offrendo una vasta gamma di opzioni a disposizione di tutte – spiega – L’Universal Design deve diventare un mindset». Il principio è semplice: se progettiamo contesti flessibili, adattabili, accessibili, tutti ne traggono beneficio. «Prendiamo il caso di una persona dislessica: se offriamo l’opzione di ricevere informazioni in formato audio oltre che scritto, quella possibilità sarà utile anche per chi ha poco tempo, o preferisce ascoltare mentre è in movimento o svolge altre attività».

La Gen Z chiede ambienti inclusivi

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E poi c’è la Gen Z. Il 20-25% si riconosce in una neurodivergenza. L’80% preferisce lavorare per un’azienda che supporta attivamente la neurodiversità. «Le nuove generazioni chiedono ambienti sicuri, accoglienti. E fanno bene. Ma non possiamo lasciare che tutto il cambiamento venga dal basso», avverte Bocchicchio.

Serve una governance

«Servono policy aziendali strutturate, investimenti, formazione. Serve una governance dell’inclusione. Non per fare la cosa giusta, ma per fare la cosa più intelligente».
Alla fine, tutto si riduce a una domanda: «La velocità di lettura o il bagaglio di conoscenze? Il tempo di reazione o la qualità della risposta? L’omologazione o la capacità di innovazione?», provoca la neuropsicologa. E conclude: «Dobbiamo smettere di chiedere alle persone di adattarsi a un sistema progettato per pochi. Serve un altro modo. Non per includere “gli altri”, ma per allargare lo sguardo e riconoscere che la variabilità è la norma, non l’eccezione».

Per approfondire il tema del rapporto tra AZIENDE e GENERAZIONE Z collegarsi al sito dell’Osservatorio Delta Index

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