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Senza immigrati l’Italia muore: servono 400 mila extra-UE all’anno o non ci saranno i soldi per pagare le pensioni


L’Italia è un Paese che invecchia e si svuota, ma fa di tutto per non ammetterlo. Se vogliamo evitare di scivolare in serie B, il punto è semplice: servono molti più lavoratori extra-UE, in modo regolare e programmato, ogni singolo anno, per i prossimi vent’anni. Non lo dicono gli “ideologi dell’accoglienza”, lo dicono i numeri.

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Nel giro di 25 anni la popolazione in età lavorativa (15-64 anni) crollerà di oltre un quinto: da 37,4 milioni nel 2024 a circa 29,7 nel 2050, stima Istat. Significa una forza lavoro sempre più esigua e un Paese che rischia di non riuscire a sostenere pensioni, sanità, scuola, industria. In parallelo la quota di over-65 salirà dal 24% a quasi il 35%. È un’inversione demografica già in corso, non uno scenario futuribile.

Quanto “serve” davvero? Secondo il Dossier Statistico Immigrazione IDOS, per compensare il buco in arrivo l’Italia avrebbe bisogno di almeno 280 mila ingressi l’anno fino al 2050. È una stima prudente, centrata sul mantenimento della base occupazionale. E già così siamo ben oltre l’attuale programmazione

Un altro calcolo, dell’Osservatorio Conti Pubblici Italiani (Università Cattolica), è ancora più crudo: per mantenere costante la popolazione servirebbero circa 10 milioni di immigrati netti entro il 2050, cioè una media di circa 400 mila l’anno. Se prendiamo sul serio demografia e Pil potenziale, il fabbisogno sta lì: fra 300 e 400 mila persone l’anno, non “una tantum”, ma stabilmente. 

Come risponde il governo? Con numeri da comunicato e pratica da sportello in tilt. A fine giugno 2025 l’esecutivo ha annunciato quasi 500 mila visti di lavoro non-UE nel triennio 2026-2028: fa circa 165 mila l’anno. È meglio di ieri, ma è la metà di quanto servirebbe per tenere in piedi piramide demografica e fabbisogni delle imprese.

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Intanto il termometro del mercato del lavoro segna febbre alta. Il sistema Unioncamere-ANPAL registra mismatchstrutturale: nel 2024 il 48% delle assunzioni programmate era di difficile reperimento, e nei bollettini 2025 la criticità resta inchiodata attorno al 45-48%. Non è solo “mancano i saldatori”: scarseggiano tecnici, addetti alla produzione, profili dell’edilizia e della metallurgia, fino ai tecnici della salute. E senza immigrazione mirata, queste caselle rimangono vuote.

Poi c’è la realtà che non entra nei grafici: l’Italia perde giovani e trattiene anziani. Istat certifica l’esplosione degli espatri italiani: 156 mila connazionali nel 2024, in netta crescita sul 2023. È capitale umano che se ne va, spesso nella fascia 25-34 anni, mentre dentro i confini crescono fabbisogni di manodopera qualificata e non. 

Eppure, sul piano operativo, continuiamo a inciampare sulle stesse pietre. Il “click day” dei decreti flussi resta una lotteria informatica: quote bruciate in minuti, istanze respinte o ferme, redistribuzioni a posteriori perché migliaia di posti restano non assegnati. È un meccanismo che non programma ma imbroglia la programmazione, scaricando su famiglie e imprese l’incertezza di chi aspetta mesi per un nulla osta.

Sulla regolarizzazione 2020 – quella che doveva far emergere il lavoro nero – siamo al paradosso burocratico: dopo quattro anni migliaia di pratiche sono ancora bloccate, con lavoratori e datori sospesi in un limbo che alimenta irregolarità e contenziosi.

Nel frattempo, l’assistenza familiare (colf e badanti) – spina dorsale silenziosa del welfare – perde pezzi: nel 2024 i lavoratori domestici con almeno un contributo INPS sono scesi a 817.403 (-3%). Il settore resta ampiamente esposto all’irregolarità: le stime di osservatori di settore indicano oltre un milione e mezzo di addetti complessivi, con una quota “grigia” molto elevata. E la domanda crescerà ancora con l’invecchiamento. INPSorigamiproject.it

Anche sulla sanità balliamo fra deroghe e ritardi: si proroga l’esercizio temporaneo in deroga per personale sanitario formato all’estero, segno che i fabbisogni sono reali, ma la riconoscenza dei titoli resta un percorso a ostacoli. Così le corsie cercano personale e il Paese perde mesi preziosi in procedure farraginose.

E la lotta allo sfruttamento? Gli ultimi report dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro segnalano un livello di irregolarità enorme e blitz continui nel settore agricolo; i Carabinieri parlano di oltre metà delle aziende irregolari nei controlli straordinari. Se non si alzano standard di ispezione e tutele, più flussi rischiano di tradursi in più vulnerabilità, non in sviluppo. 

Il confronto europeo è impietoso. La Germania dal 1° giugno 2024 ha introdotto la Chancenkarte – Opportunity Card, un permesso con punteggio che consente a candidati extra-UE di entrare per cercare lavoro, lavorare part-time e fare “trial” in azienda, con prospettiva di residenza. È un disegno coerente: si semplifica l’ingresso prima del contratto, si attraggono competenze e si corre dove c’è domanda. Noi, al contrario, continuiamo a far dipendere la vita di migliaia di persone da un portale che si blocca.

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Il punto politico, al netto degli slogan, è che l’Italia ha bisogno di immigrazione economica stabile, qualificata e protetta. Giorgia Meloni può sbandierare i “mezzo milione di visti in tre anni”, ma numeri e demografia dicono che non basta, e che il disegno normativo è ancora figlio della logica “emergenza-ordine pubblico”, non di un serio piano lavoro-integrazione.

Che fare, dunque, se non vogliamo diventare un Paese di serie B?

  • Primo: programmazione pluriennale vera, non la lotteria del click day. Quote flessibili per settore e territorio, con finestre continue e matching digitale fra imprese e candidati, gestito da un’agenzia nazionale con SLA vincolanti su nulla osta e visti. Una stanza dei bottoni, non un tasto F5. (Le difficoltà di reperimento ce le danno già Unioncamere, usiamole per tarare i flussi).

  • Secondo: corridoi formativi bilaterali con Paesi partner: lingua, sicurezza, basi professionali in partenza, riconoscimento rapido dei titoli in arrivo. Soprattutto in edilizia, meccatronica, agroalimentare e sanità, dove il mismatch è massimo. 

  • Terzo: regole chiare sul lavoro domestico e di cura: incentivi alla regolarità per famiglie e datori, contratti stabili, detrazioni strutturali, controlli veri e sanzioni per chi alimenta il nero. È welfare di base, non un dettaglio statistico. INPS

  • Quarto: integrazione come politica industriale: alloggio, trasporto, scuola e sanità sono infrastrutture del lavoro al pari della banda larga. Ogni assunto extra-UE in settori strategici deve poter contare su percorsi veloci di stabilizzazione e cittadinanza economica.

  • Quinto: ingranare la lotta allo sfruttamento: più ispettori, più coordinamento territoriale, più vie legali per spegnere il caporalato alla radice. Senza questo, la filiera resta inquinata e la concorrenza sleale strangola chi rispetta le regole.

  • Sesto: riattrarre italiani all’estero con politiche serie su salari, formazione e casa. Altrimenti continueremo a sostituire male i giovani che perdiamo con lavoratori sempre più sfruttabili.

Morale della cronaca: oggi i dati dicono che l’Italia che produce ha bisogno di più immigrazione regolare, meglio governata. Invece, le scelte dell’esecutivo tengono insieme due piani che non si parlano: un po’ più di visti quando servono braccia, e una retorica securitaria che continua a trattare ogni flusso come una minaccia. È un gioco a somma negativa. O si cambia paradigma adesso, o fra dieci anni ci ritroveremo con cantieri senza operai, RSA senza OSS, trattori senza stagionali, reparti senza tecnici, e un Pil che non cresce perché non c’è chi lo faccia crescere.

La verità è che o apriamo canali legali credibili e stabili – con diritti, doveri e controlli – oppure ci aprirà gli occhi il declino. E non basterà un decreto-annuncio per fermarlo.

In estrema sintesi: i fabbisogni “strutturali” stanno tra 300 e 400 mila lavoratori extra-UE l’anno per due decenni; l’attuale cornice ne promette circa 165 mila. Il resto è propaganda.

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Tra muri e carte d’ingresso: come Spagna, Francia, Germania e Inghilterra cercano di fermare il declino demografico

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L’Europa è davanti a uno specchio impietoso: popolazioni che invecchiano, tassi di natalità tra i più bassi al mondo, una base di lavoratori che si restringe e sistemi pensionistici sempre più fragili. La domanda, sotto sotto, è la stessa per tutti: chi pagherà le pensioni, chi lavorerà nelle fabbriche, chi curerà gli anziani, chi sosterrà la macchina economica?Eppure, di fronte a un problema comune, le grandi economie europee reagiscono in maniera radicalmente diversa, tracciando traiettorie opposte. Alcune spalancano la porta all’immigrazione regolare come unica via per mantenere viva la popolazione attiva, altre tirano dritto con un approccio difensivo, altre ancora provano a inventarsi meccanismi selettivi che trasformino l’arrivo di stranieri in una leva di sviluppo. E c’è chi, invece, preferisce blindare il Paese e accettare il rischio del declino pur di mantenere intatto un totem politico.

I numeri sono chiari e non lasciano spazio a interpretazioni: l’età mediana europea è oggi attorno ai 44 anni, ma in Germania sfiora i 46, in Italia tocca i 48, in Francia si ferma a 42 e in Spagna a 44. Proiezioni al 2050 parlano di un continente con un terzo della popolazione sopra i 65 anni, con una riduzione del 15-20% della popolazione in età lavorativa. Si tratta di milioni di braccia in meno: la Banca d’Italia ha stimato che entro il 2040 il Paese perderà oltre 5 milioni di lavoratori potenziali, la Germania non è messa meglio e persino la Francia – storicamente più giovane grazie a un tasso di natalità superiore – vede un rallentamento verticale delle nascite. È il destino di una civiltà che vive più a lungo ma fa sempre meno figli, e che senza immigrazione non riesce a tenere in piedi i suoi stessi sistemi di welfare.

Davanti a questa sfida, la Spagna ha scelto una via apertamente pragmatica. La riforma entrata in vigore nel maggio 2025 ha semplificato i permessi, allargato le possibilità di regolarizzazione, introdotto nuovi visti per ricerca lavoro e collegato la formazione professionale all’inserimento lavorativo. L’obiettivo dichiarato è semplice: portare centinaia di migliaia di persone dentro il circuito regolare, così da trasformare la pressione migratoria in risorsa economica. Non è un caso che Madrid, nel 2024, abbia registrato una crescita del 3,2%, doppia rispetto alla media europea: certo, ci sono i fondi del Next Generation EU, il turismo, la domanda interna, ma c’è anche un modello che integra forza lavoro straniera invece di respingerla. La scelta spagnola è quella di comprare tempo demografico, usare l’immigrazione per compensare la mancanza di giovani e sostenere al contempo consumi e contributi previdenziali.

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All’opposto, Parigi ha imboccato una direzione opposta. Le leggi varate tra il 2024 e il 2025 hanno inasprito i criteri di regolarizzazione, allungato i tempi di residenza necessari, imposto test di lingua e “contratti di valori repubblicani”, dato più potere ai prefetti per respingere o espellere. Il messaggio politico è chiaro: proteggere l’identità e rassicurare un’opinione pubblica preoccupata. Ma il risultato economico rischia di essere un boomerang: mentre le imprese francesi lamentano difficoltà crescenti a reperire manodopera, lo Stato rallenta i canali d’ingresso e si concentra su quote di talenti altamente qualificati. Il paradosso è evidente: l’economia grida aiuto, la politica risponde con una stretta. È una scelta che rimanda il problema, ma non lo risolve. Perché senza un flusso stabile di lavoratori stranieri, anche la Francia finirà col pagare il prezzo dell’invecchiamento.

La Germania, come spesso accade, ha scelto una via più tecnica e industriale. Di fronte a uno dei peggiori crolli demografici d’Europa, Berlino ha introdotto nel 2024 la Chancenkarte, la carta delle opportunità. È un sistema a punti: più sei giovane, istruito, con esperienza e conoscenza della lingua, più punti accumuli. Con un punteggio minimo puoi entrare, cercare lavoro, lavorare part-time, fare tirocini. È un meccanismo che fotografa bene l’approccio tedesco: trattare l’immigrazione come un processo da gestire con strumenti ingegneristici, calibrati sui bisogni dell’industria e del welfare. È un’ammissione implicita: senza immigrazione di massa, la Germania non regge. Con il 23% della popolazione già oltre i 65 anni e milioni di lavoratori che andranno in pensione entro dieci anni, Berlino ha deciso che il capitale umano si importa, come si importano le materie prime. Non si tratta più di emergenza, ma di politica industriale.

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E poi c’è il Regno Unito, che dopo la Brexit ha fatto della chiusura un vessillo identitario. Il governo Starmer ha archiviato i piani più estremi, come quello dei rimpatri in Ruanda, ma ha mantenuto una linea dura: inglese B2 obbligatorio per i visti di lavoro, dieci anni di residenza per chiedere la cittadinanza, autorizzazioni elettroniche d’ingresso per i cittadini UE, controlli serrati sulle piccole imbarcazioni e persino un accordo con la Francia per rimandare indietro i richiedenti asilo. L’approccio è quello della selettività estrema: accogliere solo profili qualificati, tenere fuori la manodopera meno specializzata, puntare tutto sulla retorica del controllo. Ma i numeri non mentono: oltre 50.000 richieste d’asilo solo nel 2025 e una popolazione invecchiante che rischia di lasciare vuoti interi settori, dalla sanità all’agricoltura. Londra preferisce stringere i visti e alzare i muri, ma il rischio è che il mercato del lavoro resti senza ossigeno, proprio quando ne avrebbe più bisogno.

Quattro Paesi, quattro modelli, quattro risposte alla stessa domanda. La Spagna che integra per crescere, la Francia che chiude e rinvia, la Germania che programma e seleziona, l’Inghilterra che restringe e respinge. Tutti davanti allo stesso dato: una piramide demografica che si rovescia e un’Europa che rischia di diventare un continente di pensionati senza chi li mantenga. La differenza sta nelle scelte politiche: aprire canali regolari e governati, oppure lasciare che la paura dell’identità freni la realtà dei numeri. Il futuro dell’Europa, nel bene e nel male, si giocherà su questa linea sottile: tra chi capisce che l’immigrazione è la chiave per restare vivi e chi, pur di non ammetterlo, preferisce guardare la curva del declino.





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