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Trump minaccia Powell e spinge sul taglio dei tassi: la storica pressione dei presidenti Usa sulla Fed


La storia americana mostra che scontri simili non sono una novità – da Truman a Nixon fino a Reagan, ogni presidente ha tentato di piegare la banca centrale, scoprendo quanto solida sia la sua indipendenza

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Donald Trump non perde occasione per sferrare attacchi a Jerome Powell, presidente della Federal Reserve. Stavolta la minaccia è legale: il tycoon accusa Powell di “lavoro orribile e gravemente incompetente” nella gestione della ristrutturazione degli edifici della Fed, con un conto salato lievitato a 3 miliardi di dollari. Ma l’affondo non si ferma qui: Trump torna a pressare affinché la Fed tagli i tassi di interesse, fermi dall’inizio dell’anno nonostante le sue ripetute pressioni.

Questa escalation si inserisce in una lunga tradizione di scontri tra la Casa Bianca e la banca centrale americana. Da decenni, i presidenti hanno cercato di influenzare la politica monetaria, scoprendo puntualmente quanto solida sia l’indipendenza della Fed.

Trump attacca ancora Powell e minaccia di fare causa

La strategia di Trump è chiara: colpire Powell sul piano personale e politico. In pochi mesi, è passato da soprannomi relativamente “soft” come “Signor troppo tardi” a insulti diretti come “idiota” e “zucca vuota”. Ha persino valutato di destituirlo, salvo rinviare l’azione, affidando al Segretario al Tesoro Scott Bessent il compito di mettere in discussione l’efficacia della Fed.

L’ultimo affondo arriva con l’accusa di essere un “perdente” responsabile di “danni incalcolabili” agli Stati Uniti. La miccia è stata la pubblicazione dei dati sull’inflazione, stabile al 2,7% (in linea con luglio e leggermente sotto le previsioni), che non ha però frenato il tycoon: ora valuta persino una causa legale per la gestione della ristrutturazione della Fed, un progetto da tre miliardi che, secondo lui, avrebbe dovuto costare appena 50 milioni.

Ma l’attacco non si limita al piano legale: Trump continua a spingere per tagli aggressivi dei tassi, fino a tre punti percentuali. Una mossa che, se attuata, potrebbe innescare un quadro di “repressione finanziaria”: tassi reali negativi a breve, più alti a medio-lungo termine e una svalutazione indiretta del debito pubblico. Il tycoon sa bene che la Fed può agire solo sulla parte a breve della curva dei tassi, mentre quella a medio-lungo è guidata dal mercato, con effetti difficilmente prevedibili.

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Di fronte a questa escalation, la domanda che molti si pongono è: Trump può davvero fare causa a Powell? Per rispondere, occorre prima capire il ruolo e l’indipendenza della Federal Reserve.

Trump può davvero fare causa a Powell?

La risposta è più complessa di quanto sembri. La Federal Reserve è un’istituzione indipendente, sancita dal Federal Reserve Act del 1913 da Woodrow Wilson: il presidente e i membri del Board non possono essere rimossi a piacimento, se non “per giusta causa”. I loro mandati – 14 anni per i governatori, 4 per il presidente – sono concepiti per proteggerli dalle oscillazioni politiche che potrebbero portare a tassi artificialmente bassi e deficit insostenibili.

Anche se le crisi recenti hanno dimostrato che le banche centrali non sono infallibili e che le loro decisioni possono risentire indirettamente delle politiche fiscali, Trump non può citare in giudizio Powell per non aver tagliato i tassi o per aver approvato progetti di ristrutturazione più costosi del previsto. Le eventuali azioni legali avrebbero scarso fondamento giuridico e si scontrerebbero con un principio consolidato: la Fed agisce nell’interesse dell’economia e del sistema finanziario, non come organo subordinato alla Casa Bianca.

In sostanza, la minaccia ha più valore politico e mediatico che legale: un modo per mantenere alta la pressione su Powell e sulla banca centrale. 

Presidenti vs Fed: i precedenti storici

La storia americana è ricca di scontri tra Casa Bianca e banca centrale. Uno dei casi più celebri è quello di Richard Nixon e Arthur Burns negli anni ’70. Nixon era ossessionato dalla crescita economica e dalla propria rielezione e spingeva incessantemente la Fed a mantenere i tassi bassi, ignorando l’inflazione crescente. Burns cedette in parte alle pressioni, con il risultato di un boom economico temporaneo che aiutò Nixon a vincere, seguito però da un’inflazione galoppante e da una recessione dolorosa.

Qualche anno prima, nel periodo post-bellico, Harry Truman cercò di costringere la Fed a comprare titoli di stato a lungo termine per finanziare la ripresa economica senza far lievitare i tassi. La Fed resistette, ponendo le basi per il concetto di indipendenza della banca centrale, destinato a diventare un dogma nei decenni successivi.

Nel 1963, subito dopo l’assassinio di Jfk, Lyndon B. Johnson prese le redini del Paese con grandi ambizioni: la Great Society e la guerra in Vietnam richiedevano una politica fiscale molto espansiva. Ma William McChesney Martin, l’allora presidente della Fed, aveva un’altra visione e nel dicembre 1965 decise di alzare i tassi di interesse al 4,5%. Johnson perse le staffe, rimproverando Martin, ma la Fed tenne duro e la guerra continuò a costare cara.

Più tardi, negli anni ’70 e ’80, Jimmy Carter e poi Ronald Reagan dovettero fare i conti con Paul Volcker, a quei tempi presidente della Fed, che decise di aumentare i tassi fino a livelli record per domare l’inflazione. Carter si lamentava dei tassi troppo alti, ostacolando la crescita; Reagan li considerava inizialmente insostenibili per l’economia e la popolarità politica. Ma Volcker non cedette, dimostrando ancora una volta che la banca centrale poteva resistere a forti pressioni politiche. Solo successivamente Reagan nominò Alan Greenspan, più flessibile, per un approccio meno conflittuale.

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In pratica, la sfida Trump-Powell non è nuova nel formato, ma è spettacolare nei toni e nei social media.

Powell non si piega: “La Fed resta indipendente”

Nonostante le bordate di Trump, Powell non arretra. A Sintra ha ribadito la rotta della Federal Reserve: “Siamo concentrati sul nostro lavoro: inflazione sotto controllo, massima occupazione e stabilità finanziaria”. In Congresso, le pressioni non mancano: da un lato deputati repubblicani invocano un cambio di rotta, dall’altro senatori come Thom Tillis e John Kennedy difendono la sua linea e l’indipendenza della Fed, considerata un pilastro della stabilità economica. Con il prossimo meeting fissato per il 16-17 settembre e un mandato da presidente fino al 2026 – oltre a un seggio nel Board blindato fino al 2028 – Powell può permettersi di resistere alle pressioni senza temere per la sua poltrona.



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