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Italia su Marte: strategia o dipendenza? L’accordo Asi–SpaceX tra visione e calcolo


Quando un Paese annuncia di voler portare il proprio know-how scientifico su Marte, il primo riflesso è l’orgoglio. Non capita tutti i giorni di vedere un’agenzia spaziale nazionale – in questo caso l’Asi – firmare un’intesa con SpaceX per imbarcare esperimenti tricolore sulle prime missioni Starship dirette verso il Pianeta Rosso. La notizia, rimbalzata in conferenza stampa tra sorrisi e dichiarazioni solenni, ha immediatamente diviso: da un lato, l’entusiasmo per un’occasione senza precedenti; dall’altro, i timori di un abbraccio troppo stretto con il colosso privato di Elon Musk

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Carlo Alberto Carnevale Maffè, in un editoriale pubblicato su Il Foglio l’8 agosto 2025, invita a “pensarci tre volte” prima di demonizzare l’accordo. Non perché sia privo di rischi – anzi – ma perché, in un settore come quello spaziale, la linea tra dipendenza e collaborazione virtuosa è sottile. E, aggiungiamo, si misura anche in chilogrammi, dollari e margini industriali.

Un accordo di bandiera… e di calcolo

L’intesa prevede il trasporto di esperimenti italiani a bordo di Starship, con focus su biologia vegetale, monitoraggio ambientale e misurazioni radiologiche. Non parliamo di dimostrazioni simboliche: i dati raccolti durante i sei mesi di viaggio e sulla superficie marziana potrebbero avere un impatto diretto sulla ricerca scientifica e sull’industria aerospaziale nazionale.

Ma, ed è qui che il discorso si fa serio, non sono stati resi pubblici i termini economici dell’accordo. Qual è il costo reale del payload? Quale quota del budget ASI viene destinata a SpaceX invece che a programmi nazionali o europei? Quanto know-how rientrerà davvero in Italia?

L’ago della bilancia: i costi di lancio

In ambito spaziale, la retorica cede rapidamente il passo alla matematica. E i numeri raccontano che il costo per chilogrammo messo in orbita è il vero discrimine tra un’operazione sostenibile e una vetrina di lusso.

Il fronte europeo: Avio e Vega-C

Avio, con il lanciatore Vega e la sua evoluzione Vega-C, rappresenta la spina dorsale dell’accesso indipendente europeo allo spazio. Vega-C può portare in orbita polare circa 2,2 tonnellate, con un costo stimato intorno ai 45 milioni di dollari. Tradotto: circa 20 500 USD/kg. È un prezzo alto, ma include il valore strategico dell’autonomia tecnologica e produttiva. Ogni euro speso resta nel circuito industriale europeo, alimentando filiere e competenze interne.

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L’approccio SpaceX — Falcon 9 e Falcon Heavy

Falcon 9, cavallo di battaglia di Musk, beneficia di un livello di riutilizzabilità oggi irraggiungibile per l’Europa. Fonti di settore stimano un costo operativo di 17–18 milioni di dollari per lancio, con capacità di oltre 10 tonnellate verso LEO. Significa scendere sotto i 2 000 USD/kg, un ordine di grandezza in meno rispetto a Vega-C. Falcon Heavy, nella versione riutilizzabile, porta in orbita 20 tonnellate a meno di 2 400 USD/kg.

Per capire il vantaggio competitivo di SpaceX bisogna guardare a Starlink. La costellazione internet, con oltre 6 000 satelliti già in orbita, ha permesso a Musk di ottimizzare ogni aspetto della logistica spaziale: dai cicli di produzione alla cadenza di lancio, fino alla manutenzione dei booster. Ogni volo Starlink è un banco di prova e un’occasione per ridurre i costi marginali. Questo meccanismo di “autofinanziamento operativo” non esiste in Europa, dove i lanciatori lavorano a un ritmo più lento e con un portafoglio clienti meno diversificato.

L’impatto sul budget ASI

Il bilancio dell’Agenzia Spaziale Italiana per il 2025 è di poco superiore a 1,1 miliardi di euro, con una forte quota vincolata a programmi ESA e obblighi internazionali. Le risorse effettivamente disponibili per iniziative autonome nazionali sono nell’ordine di 250–300 milioni di euro annui.

Se il costo di un imbarco su Starship, anche in configurazione condivisa, dovesse oscillare tra 50 e 100 milioni di dollari, l’impegno assorbirebbe dal 15 al 35% del budget nazionale “libero” dell’ASI per un singolo anno.

Questo significa due cose:

1. Scelta di priorità — Per finanziare l’accordo, altre missioni o programmi potrebbero essere rimandati o ridimensionati.

2. Necessità di ritorno misurabile — L’impatto scientifico e industriale dell’operazione dovrà giustificare un investimento così rilevante, evitando che resti un episodio isolato di grande visibilità ma scarsa ricaduta.

Impatto sulla filiera delle PMI italiane dello spazio

Il tessuto industriale spaziale italiano è composto in larga parte da PMI altamente specializzate, spesso fornitrici di nicchia per grandi integratori. Queste aziende vivono di contratti pluriennali e di una pipeline prevedibile di programmi ESA, ASI e, in parte, privati.

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Se l’ASI dirotta una quota significativa di risorse verso SpaceX, il rischio è duplice:

· Discontinuità contrattuale: progetti in fase di sviluppo o pianificati per Vega-C e altre piattaforme europee potrebbero subire ritardi o cancellazioni, con impatti diretti su personale e capacità produttiva.

· Erosione tecnologica: senza carichi da integrare, testare e lanciare in Italia o in Europa, molte PMI perderebbero opportunità di innovazione “hands-on”, restando spettatrici di missioni chiave.

D’altro canto, se ben negoziata, la collaborazione potrebbe trasformarsi in opportunità di filiera:

· Parte della sensoristica, dei sistemi di controllo ambientale e degli esperimenti potrebbe essere sviluppata in Italia e poi integrata in payload destinati a Starship.

· Lavorare su un programma di destinazione marziana aprirebbe alle PMI un curriculum di altissimo profilo, utile anche in bandi ESA o in collaborazioni con altre agenzie.

In sostanza, l’impatto dipenderà dalla clausola industriale dell’accordo: se resta un semplice acquisto di “spazio di carico”, il beneficio per la filiera sarà minimo; se invece sarà accompagnato da produzione e test in Italia, potrà rappresentare un acceleratore competitivo.

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Il dilemma italiano: rapidità o autonomia

Affidarsi a SpaceX significa accelerare enormemente l’accesso a missioni di frontiera, beneficiando di prezzi imbattibili e tecnologie di punta. Ma significa anche delegare a un player extra-europeo un pezzo cruciale della nostra presenza spaziale.

Con Vega-C, ogni euro speso resta sotto il cappello industriale europeo, anche se il prezzo è alto. Con Falcon 9 o Starship, il costo si riduce drasticamente, ma la filiera nazionale non cresce in pari misura.

Possibili vie di mezzo

Per non trasformare l’accordo in un esercizio di outsourcing tecnologico, l’Italia potrebbe negoziare clausole di rientro industriale: co-produzione di componenti, test di esperimenti sul territorio

nazionale, formazione di personale ASI in collaborazione con SpaceX. In altre parole, usare Marte come leva per far crescere la capacità industriale italiana, non solo come vetrina.

Allo stesso modo, sarebbe strategico mantenere una quota di payload per lanciatori europei, garantendo che le competenze di Avio e delle filiere collegate non si atrofizzino. Una logica di portafoglio misto – con missioni commerciali affidate a SpaceX e quelle istituzionali a Vega-C – potrebbe bilanciare i due obiettivi: efficienza e autonomia.

Una corsa che è anche geopolitica

Il confronto SpaceX–Avio non è solo industriale: è un capitolo della competizione globale per lo spazio. Gli Stati Uniti hanno costruito, attraverso aziende come SpaceX, un sistema capace di integrare interessi privati e strategie nazionali. L’Europa, frammentata tra agenzie nazionali e l’ESA, fatica a eguagliare la velocità e la capacità di investimento degli americani.

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In questo scenario, l’accordo ASI–SpaceX può essere letto come una scelta pragmatica: se il partner europeo non ha ancora la piattaforma adatta per Marte, meglio allearsi con chi ce l’ha già. Ma il rischio è che, a forza di appoggiarsi a tecnologie altrui, l’Europa resti un cliente e non diventi mai un fornitore globale.

Conclusione: Marte come specchio della Terra

L’intesa ASI–SpaceX non è un matrimonio d’amore, ma un contratto d’interesse reciproco. Per l’Italia è un biglietto di sola andata verso la ribalta spaziale mondiale; per SpaceX, un modo per consolidare il proprio ruolo di partner “quasi istituzionale” delle agenzie spaziali.

La vera domanda non è se sia giusto o sbagliato, ma come trasformare questa collaborazione in un moltiplicatore di competenze e opportunità. Marte è lontano, ma la posta in gioco è tutta qui, sulla Terra: costruire un’industria spaziale italiana capace di correre, non solo di farsi trainare.

Se riusciremo a tornare da questa avventura con più know-how, più filiera e più autonomia di quanta ne abbiamo oggi, allora potremo dire che il nostro viaggio verso Marte sarà stato non solo un traguardo, ma un investimento sul futuro.



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