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Pwc: l’AI passa all’azione! Ora è il cuore delle operations industriali. Di tutta la manifattura insomma!


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Non si tratta più di tecnologia, ma di metodo. Il vero vantaggio competitivo oggi non è sapere se adottare l’intelligenza artificiale, ma come farlo in modo strutturato, con una governance chiara e una visione scalabile. Il tempo della sperimentazione è finito: chi non ha una strategia rischia di restare fuori dal gioco. «Il discrimine non è tecnico, ma organizzativo – ci racconta Ivan Lavatelli, partner di Pwc che guida progetti sulle operations a cavallo di tutti i settori manifatturieri, dalle macchine utensili all’automotive, e che si occupa di intelligenza artificiale come driver abilitante per l’industria – La tecnologia è disponibile, ma senza struttura, competenze e direzione, resta un potenziale inespresso». L’AI non è più una leva per pochi, ma un fattore abilitante per l’intero ecosistema manifatturiero.

È questo il messaggio emerso dall’incontroAI in Operations”, organizzato da Pwc con la partecipazione di Microsoft, dove sono stati presentati i risultati di una ricerca condotta su oltre 400 executive del mondo manufacturing in area Emea. La fotografia è nitida: solo le aziende con una regia centralizzata e un approccio scalabile stanno già raccogliendo benefici tangibili. E il modello di successo presentato, ZF, racconta una trasformazione industriale profonda, dove l’AI diventa un’infrastruttura critica, non più un progetto a latere.

«La prima lezione è questa: conosci il tuo nemico. E per chi fa industria, il nemico è la competizione. Chi non si muove ora, rischia di perdere posizioni che non recupererà più», prosegue Lavatelli. L’Italia paga ancora un prezzo alto in termini di processo, cultura e governance. E rischia di rimanere ai margini se non affronta la trasformazione come un progetto industriale, non solo tecnologico.

 

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La nuova soglia dell’adattamento

Ivan Lavatelli, partner di PwC Italia e responsabile dell’area Operations.

«La vera svolta non è nella tecnologia in sé, ma nel fatto che oggi è democratica: questo cambia tutto», osserva Lavatelli. L’AI non è più confinata nei laboratori delle big tech: oggi entra nei reparti, nei flussi decisionali, nei processi operativi. «Parliamo di strumenti che permettono anche alle medie imprese di generare use case concreti, con tempi e costi prima inimmaginabili». Il risultato è un’accelerazione generale: chi parte ora non può più permettersi di esplorare lentamente. «La manifattura è un settore dove non esistono zone franche: o ti muovi o perdi terreno. Il ciclo di reazione si è accorciato. E serve una strategia, non una rincorsa».

 

Il paradosso italiano: talento sì, processo no

«In Italia abbiamo eccellenze incredibili, ma spesso manca una cultura di processo strutturata», dice Lavatelli. I dati lo confermano: «Nella nostra ricerca con oltre 400 aziende manifatturiere Emea, quasi il 70% degli executive ritiene che l’AI potrà aumentare i profitti operativi di almeno tre punti percentuali entro il 2030. Ma solo l’8% la sta già usando in modo strutturato per generare ritorni misurabili». Il problema, quindi, non è tanto tecnologico quanto culturale. «Serve operatività, serve metodo. L’estro non basta più: l’AI valorizza la capacità di replicare, scalare, standardizzare. E questo implica disciplina. L’unico errore oggi è stare fermi».

 

AI in Operations: la nuova leva competitiva per l’industria Emea

Il settore manifatturiero sta attraversando una trasformazione profonda, alimentata da macro-tendenze globali che stanno ridisegnando i paradigmi industriali: cambiamento climatico, transizione digitale, instabilità geopolitica, tensioni sociali, mutamenti demografici. Le conseguenze sono già evidenti: una spinta crescente verso pratiche sostenibili, la ridefinizione delle catene produttive, normative più stringenti, difficoltà nell’accesso a competenze specializzate. A tutto questo si sommano pressioni economiche crescenti, tra inflazione e rincari energetici. In questo contesto, l’intelligenza artificiale si sta imponendo come una leva strategica per affrontare le enormi complessità generate da tutte queste variabili. Non solo nella sua declinazione tradizionale – il machine learning – ma anche nelle evoluzioni più recenti: AI generativa e agentica. Tecnologie che stanno rivoluzionando la gestione della supply chain, della produzione, del procurement e dell’R&D, con un impatto diretto sull’efficienza e sulla redditività.

Per comprendere il reale stato dell’adozione dell’AI nel comparto industriale, Pwc ha condotto una survey su oltre 400 executive del mondo operations in 30 Paesi dell’area Emea. I partecipanti provengono da settori eterogenei, tra cui manifattura, logistica e distribuzione. I risultati parlano chiaro: quasi il 70% degli intervistati prevede un aumento della redditività operativa di almeno tre punti percentuali entro il 2030. E oltre il 40% si aspetta un incremento superiore ai cinque punti. Segnali inequivocabili che l’AI non è più un’opzione, ma una direzione obbligata per restare competitivi.

Per comprendere il reale stato dell’adozione dell’AI nel comparto industriale, Pwc ha condotto una survey su oltre 400 executive del mondo operations in 30 Paesi dell’area Emea. I partecipanti provengono da settori eterogenei, tra cui manifattura, logistica e distribuzione.

L’Europa del Sud investe meno, e si vede

La distanza tra le promesse dell’AI e la sua reale implementazione si misura anche – e forse soprattutto – nei budget. «In Emea il 41% delle aziende ha investito tra i 6 e i 21 milioni di euro in intelligenza artificiale negli ultimi cinque anni, mentre il 18% ha superato la soglia dei 21 milioni», ha spiegato Lavatelli. Ma se si restringe il perimetro al Sud Europa, lo scenario cambia radicalmente: solo il 18% ha investito tra 6 e 21 milioni, appena il 7% oltre i 21, mentre la quota restante – la grande maggioranza – non ha superato i 6 milioni, con moltissime imprese ferme sotto al milione.

Un impegno marginale nei budget complessivi

Per compensare la variabilità dimensionale, la survey ha analizzato il rapporto tra investimenti in AI e fatturato. Anche in questo caso, il gap è evidente: «In media, le aziende Emea investono lo 0,26% delle proprie revenue nell’intelligenza artificiale. Nel Sud Europa questa quota scende allo 0,11%». Numeri che restituiscono una fotografia chiara di quanto l’AI, al di là delle dichiarazioni, sia ancora considerata in molte realtà una voce marginale del budget.

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I risultati parlano chiaro: quasi il 70% degli intervistati prevede un aumento della redditività operativa di almeno tre punti percentuali entro il 2030.

Pochi i veri campioni, e pochi i ritorni significativi

Tra i soggetti intervistati, solo una minoranza si è spinta oltre le fasi sperimentali: «I Champions, ovvero le aziende che hanno scalato l’AI nel business, investono una quota significativamente più alta rispetto alla media». Eppure, anche tra chi ha avviato progetti concreti, i ritorni finanziari restano contenuti. In Emea, solo il 42% ha dichiarato di aver osservato qualche beneficio economico diretto; nel Sud Europa la percentuale cala al 29%. Ancora più esigua la quota di chi ha raggiunto risultati “perceived as given”: appena il 16% in Emea, 13% nell’Europa meridionale.

 

Efficienza sì, ma spesso senza impatto a bilancio

Quali benefici vengono realmente generati? «Nella maggior parte dei casi – spiega Lavatelli – si tratta di soft efficiency gains, cioè miglioramenti marginali che non impattano in modo chiaro sul conto economico». Tuttavia, c’è un’altra dimensione da considerare: il supporto alle decisioni. «Anche senza benefici finanziari immediati, molte aziende segnalano un netto miglioramento nella qualità delle decisioni prese. L’AI diventa una lente che rafforza la consapevolezza manageriale». Il problema, osserva, è che «non potremo mai sapere con certezza quale decisione avremmo preso senza il supporto dell’AI, ed è per questo che monetizzarne l’effetto resta complicato».

quasi il 70% degli executive ritiene che l’AI potrà aumentare i profitti operativi di almeno tre punti percentuali entro il 2030. Ma solo l’8% la sta già usando in modo strutturato per generare ritorni misurabili.

Aspettative al 2030: l’AI cambierà il modo di lavorare

Il consenso tra le aziende è ampio: l’intelligenza artificiale modificherà in profondità il modo di lavorare da qui al 2030. «Non parliamo solo di benefici sul conto economico – ha spiegato Ivan Lavatelli – ma di un impatto strutturale sui modelli operativi». La visione tipica del Cfo, centrata sul legame diretto tra investimento e risultato nel P&L, non è più sufficiente per leggere la trasformazione in corso. «Non sempre si può cercare una correlazione uno a uno tra investimento e beneficio immediato – ha chiarito – perché i cambiamenti generati dall’AI vanno oltre il breve termine».

 

Investimenti in crescita: +7% sopra i 20 milioni

Un dato su tutti segnala il cambio di passo. Nei prossimi tre anni, il 25% delle aziende Emea prevede di investire oltre 20 milioni di dollari in AI, contro il 18% registrato nei cinque anni precedenti. Nel Sud Europa la quota resta più bassa (10%), ma il trend è comunque in accelerazione. «Questa crescita – ha osservato Lavatelli – è il segnale che molte imprese stanno passando dalla sperimentazione a una fase di implementazione sistemica».

In Emea il 41% delle aziende ha investito tra i 6 e i 21 milioni di euro in intelligenza artificiale negli ultimi cinque anni, mentre il 18% ha superato la soglia dei 21 milioni.

Impatto atteso sui margini: +1 punto percentuale all’anno

La survey ha chiesto alle imprese anche quali ritorni si aspettano nei prossimi cinque anni. Il 42% delle aziende Emea prevede un impatto positivo di almeno un punto percentuale annuo sui margini. La quota sale al 59% tra i cosiddetti “Champions”, ovvero le aziende che hanno già una strategia AI scalata e matura. «È una visione futura – ha commentato Lavatelli – ma si basa su quanto è stato già osservato oggi. Chi ha già investito seriamente, vede l’AI come un driver strutturale di valore».

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Use case: tra ambizione e realtà

La survey ha analizzato in profondità dove le aziende stanno già implementando soluzioni di intelligenza artificiale e dove intendono farlo nei prossimi anni. «Se confrontiamo i Champions e gli Innovators con i Novice e i Followers, vediamo differenze importanti nei punti di partenza», ha spiegato Ivan Lavatelli. Un caso emblematico è il design di prodotto generativo e l’ottimizzazione ingegneristica, un ambito molto sentito in settori avanzati e già ben sviluppato tra i player più maturi. «Tuttavia, alcuni Novice e Followers dichiarano di voler coprire questi use case nel giro di due o tre anni. È una proiezione ambiziosa – ha osservato Lavatelli – forse anche troppo ottimistica, considerando i livelli attuali di maturità».

L’intelligenza artificiale modificherà in profondità il modo di lavorare da qui al 2030. «Non parliamo solo di benefici sul conto economico – ha spiegato Ivan Lavatelli – ma di un impatto strutturale sui modelli operativi».

 

Il Quality Control come punto d’ingresso all’AI industriale

Tra i use case più diffusi – e in qualche modo “iniziali” – spicca il controllo qualità. «È il numero uno in assoluto, senza distinzione tra Champions e Novice. I sistemi di visione e controllo degli scarti rappresentano l’ingresso più naturale all’AI per le aziende manifatturiere», ha detto Lavatelli. Un ambito in cui la tecnologia è ormai matura, facilmente adottabile e a basso impatto trasformativo. Chi ha già acquisito competenze di base, tende poi a differenziarsi su fronti più complessi: ad esempio nella gestione avanzata dei fornitori (Supplier Selection & Management) o nell’ottimizzazione delle istruzioni operative e della pianificazione logistica.

 

Use case “democratizzati”: il nuovo minimo competitivo

Alcuni use case, ormai considerati “commodity”, si stanno rapidamente diffondendo a ogni livello di maturità: pianificazione della supply chain, ottimizzazione dei percorsi logistici, schedulazione della produzione, assistenti alle istruzioni di lavoro. «Queste sono le aree su cui si concentreranno tutti – ha chiarito Lavatelli –. E questo significa che il nuovo livello minimo per essere competitivi sarà proprio la padronanza di queste soluzioni». In altre parole, non saranno più elementi differenzianti, ma precondizioni per giocare la partita.

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I veri freni: costi e competenze, soprattutto in Italia

Nel Sud Europa – e in Italia in particolare – permangono ostacoli rilevanti all’adozione. Il primo è il costo: «Le aziende italiane, spesso più piccole, riportano una sensibilità al costo tra le più alte del campione. Per l’Italia il valore è del 33%, in linea con il dato dell’area Southern Europe». Ma il freno principale riguarda le competenze: «Circa il 50% delle aziende italiane dichiara di non riuscire a trovare esperti di AI. Un valore sensibilmente più alto rispetto al resto dell’Emea». Un segnale chiaro di una carenza strutturale che rischia di rallentare la scalabilità dei progetti.

 

Governance dei progetti: il divario tra Champions e Sud Europa

Uno degli aspetti più rilevanti emersi dalla survey riguarda il modello organizzativo con cui le aziende gestiscono i progetti di intelligenza artificiale. «I Champions Emea mostrano una maturità operativa superiore – ha spiegato Ivan Lavatelli –: circa il 75% ha adottato strutture centralizzate o modelli ibridi hub & spoke, in cui esiste un coordinamento strategico pur lasciando autonomia operativa». Questa impostazione consente maggiore coerenza nelle scelte tecnologiche, maggiore controllo dei rischi e un’accelerazione nella scalabilità dei progetti.

 

Sud Europa: progetti sparsi e governance debole

Il panorama cambia sensibilmente quando si analizza l’Europa del Sud. «Nel cluster Southern Europe – ha continuato Lavatelli – è ancora diffuso un approccio frammentato, dove ogni dipartimento gestisce in autonomia i propri progetti AI». In molti casi si tratta di iniziative “sparpagliate”, nate dal momento e non inserite in una strategia unitaria. Il risultato è una governance debole, con il rischio di sovrapposizioni, scarsa condivisione delle competenze e un impatto complessivo ridotto. «Questo è uno dei principali ostacoli alla crescita – ha concluso – e rappresenta un fronte su cui le imprese italiane devono intervenire con urgenza, se vogliono scalare davvero».

 

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ZF: digitalizzazione globale con PwC e Microsoft. La piattaforma Dmp al centro della trasformazione di 188 impianti

Nel 2020, ZF ha intrapreso un ambizioso percorso di digitalizzazione industriale con un obiettivo preciso: ridurre i costi controllabili di fabbrica, migliorare la qualità e l’efficienza, e aumentare la produzione a livello globale. Con 188 siti produttivi in 31 Paesi e 157.500 dipendenti, il gruppo tedesco – uno dei principali fornitori Tier 1 per l’automotive mondiale – ha deciso di adottare una strategia di scala basata su una piattaforma digitale comune. È nata così la Digital Manufacturing Platform (Dmo), sviluppata in collaborazione con Pwc e Microsoft, come infrastruttura portante della nuova organizzazione operativa.

Nel 2020, ZF ha intrapreso un ambizioso percorso di digitalizzazione industriale con un obiettivo preciso: ridurre i costi controllabili di fabbrica, migliorare la qualità e l’efficienza, e aumentare la produzione a livello globale.

Tre principi guida per una piattaforma scalabile

Fin dall’inizio, come si legge nel case study sul sito di Pwc, ZF ha adottato tre principi guida: la piattaforma doveva essere progettata per scalare su scala globale; le soluzioni applicative dovevano essere rilevanti per la maggior parte degli impianti, e accessibili anche ai siti meno maturi digitalmente. Le aree su cui si è focalizzata l’iniziativa sono tre: la production control tower, la tracciabilità end-to-end e la manutenzione intelligente.

Il pilot di Diepholz: visibilità in tempo reale e manutenzione predittiva

Il primo impianto a testare la Dmp è stato quello di Diepholz, nella Germania settentrionale, scelto per la sua predisposizione al cambiamento e per la solidità digitale già presente nella divisione Car Chassis Technology. La prima fase ha visto l’introduzione di soluzioni di monitoraggio Kpi automatizzate e use case di performance analytics, che hanno permesso di ottenere visibilità immediata sui processi produttivi e di rispondere in tempo reale a eventuali deviazioni. Il secondo ambito di intervento ha riguardato la tracciabilità completa del processo produttivo, consentendo di seguire ogni prodotto o lotto in modo puntuale e individuare con precisione l’origine degli errori. Il terzo focus, infine, si è concentrato sul monitoraggio delle condizioni degli asset industriali, con l’obiettivo di massimizzare l’uptime e ottimizzare i costi di manutenzione.

Un’infrastruttura integrata e non invasiva

La Dmp integra dati da più fonti – dal livello macchina fino agli Erp aziendali – senza necessità di duplicare sistemi esistenti. Si tratta di una data platform con servizi e applicazioni condivisi, capace di raccogliere insight, automatizzare attività e abilitare decisioni basate su dati in modo trasversale.

Con 188 siti produttivi in 31 Paesi e 157.500 dipendenti, il gruppo tedesco – uno dei principali fornitori Tier 1 per l’automotive mondiale – ha deciso di adottare una strategia di scala basata su una piattaforma digitale comune. È nata così la Digital Manufacturing Platform (Dmo), sviluppata in collaborazione con Pwc e Microsoft, come infrastruttura portante della nuova organizzazione operativa.

Governance agile e onboarding rapido

ZF ha trasformato anche il proprio modello di governance, passando da una classica struttura IT a una organizzazione agile e orientata al prodotto. Il lavoro è suddiviso in product increment trimestrali con sprint settimanali, permettendo di adattare le soluzioni man mano che la piattaforma evolverà. Dopo il successo del pilot, la Dmp è diventata il fulcro della strategia digitale globale dell’azienda. A differenza del passato, non sono più previsti deployment centralizzati: ogni impianto è ora chiamato a auto-onboardarsi sulla piattaforma, seguendo standard, linee guida e checklist definite dalla Dmp organization. L’obiettivo è chiaro: abilitare l’onboarding di ogni nuovo sito in una sola settimana, con un team più snello e una logica industrializzata.

Flessibilità per sviluppare use case localizzati

Uno degli elementi distintivi del progetto è l’apertura della piattaforma anche a team esterni: le soluzioni sviluppate al di fuori della Dmp core potranno essere integrate, aumentando il numero di use case disponibili e lasciando libertà agli impianti di creare applicazioni su misura. Questo approccio garantisce scalabilità e adattabilità, caratteristiche fondamentali in un’organizzazione così ampia e articolata.

Obiettivo: centinaia di milioni di dollari di risparmi annui

La proiezione finale è ambiziosa: una volta completamente implementata, la Dmp permetterà a ZF di ottenere risparmi annui per diverse centinaia di milioni di dollari. Oltre a rappresentare un asset strategico interno, la piattaforma costituisce anche un modello di riferimento per l’intera industria manifatturiera. Il framework sviluppato da ZF – in linea con i principi dell’Open Manufacturing Platform – può diventare un acceleratore per tutte le aziende che puntano a una vera smart factory su larga scala.

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(Ripubblicazione dell’articolo del 1° luglio 2025)



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