La condanna a morte con sospensione della pena inflitta nel maggio 2025 a Zhao Weiguo, ex presidente di Tsinghua Unigroup, ha smascherato il declino di un progetto centrale nel settore dei semiconduttori cinesi. La vicenda rappresenta un monito per le imprese occidentali attratte dal mercato cinese, mettendo in luce un sistema che erode tecnologie e competitività straniere. Da oltre trent’anni, la Repubblica Popolare Cinese attira aziende straniere con la promessa di accedere al secondo mercato mondiale, per poi sfruttarle attraverso joint venture obbligatorie, sentenze pilotate sui brevetti e generosi sussidi statali. Settori come automotive, semiconduttori e terre rare vedono svanire vantaggi competitivi costruiti in anni di ricerca e sviluppo.
Fondata nel 1988 come collaborazione tra l’Università Tsinghua di Pechino e l’industria, Unigroup si è affermata sotto la guida di Zhao Weiguo, al timone dal 2009, come pilastro della strategia cinese per l’autosufficienza nei semiconduttori. Nel 2014, il regime cinese ha istituito il Fondo nazionale per l’industria dei circuiti integrati con un investimento iniziale di 138 miliardi e 700 milioni di yuan (circa 17 miliardi e 850 milioni di euro), seguito da ulteriori 204 miliardi di yuan cinque anni dopo. Con i soldi pubblici, Zhao ha lanciato una campagna di acquisizioni, rilevando la francese Linxens, le cinesi Spreadtrum e Rda Microelectronics e partecipazioni in altre aziende del settore.
Unigroup è un vero e proprio “caso di studio”, come spiega l’ex dirigente Hsueh Tsung Chih – passato dalla Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (cioè la famosa Tsmc) all’azienda cinese – perché rivela il metodo standard del regime comunista: garantire alle aziende l’accesso al mercato in cambio delle loro tecnologie, lasciando che gli intermediari (tutti con agganci politici, ovviamente) si riempiano le tasche. Hsueh Tsung Chih, nel 2016 viene assunto con uno stipendio da un milione di dollari all’anno, autista, assistente personale e viaggi in business class. Ma il sogno svanisce presto, e dopo due anni abbandona Unigroup denunciandone la corruzione sistemica. Il suo capo, Zhao Weiguo (allora presidente di Tsinghua Unigroup) pur avendo licenziato un responsabile degli acquisti per corruzione, si era circondato di un entourage altrettanto “problematico”, e i fornitori venivano scelti dalla compagna del presidente e dai suoi sodali, in barba a ogni regola di efficienza, serietà e trasparenza. Ad esempio: un macchinario per la produzione di chip proposto a prezzi esorbitanti, viene acquistato a vari milioni in meno dopo un intervento diretto di Hsueh; in un’altra operazione, Unigroup ha pagato due miliardi e 100 milioni di yuan per un’azienda valutata meno della metà, senza che nessuno avesse indagato sul perché della differenza; e ancora: per ottenere i contratti, certi fornitori dovevano acquistare appartamenti in un complesso residenziale gestito dalla compagna di Zhao.
E i prestiti contratti con lo Stato ad alto interesse per Zhao non erano un problema, visto che l’intenzione di restituirli era inesistente: i sussidi pubblici erano un’opportunità unica, da cogliere prima degli altri. Questo cinismo ha spinto Hsueh a dimettersi. La parabola di Unigroup si è chiusa con il default: nel 2020 l’azienda non ha onorato le obbligazioni, nel 2021 ha dichiarato bancarotta e nel 2022 è stata rilevata da Zhiguangxin, controllata statale. Anche il Big Fund è collassato, con gli arresti dei manager Lu Jun e Ding Wenwu nel 2022. A maggio 2025, il tribunale ha accertato che Zhao aveva sottratto oltre 470 milioni di yuan, causando perdite al regime per 890 milioni di yuan.
UN MODELLO PREDATORIO
La premessa generale del comunismo cinese e che, nella Repubblica Popolare Cinese, sono i soldi pubblici – ovviamente controllati dal Partito – ad alimentare il sistema economico. Nel 2019, in rapporto al Pil e secondo l’Istituto Kiel, il regime comunista ha erogato circa 221 miliardi di euro in aiuti. Nel 2022, il 99% delle aziende quotate cinesi ha ricevuto sussidi diretti. I rimborsi fiscali, spesso più consistenti, amplificano l’effetto: BYD, produttore di auto elettriche, ha ottenuto un miliardo e 196 milioni di euro in sussidi e oltre quattro miliardi e 600 milioni di euro in rimborsi Iva tra il 2013 e il 2023; Boe, leader nei display, ha incassato sette miliardi e 544 milioni di euro in cinque anni.
Il tracollo di Unigroup evidenzia una strategia sistemica: Pechino privilegia l’appropriazione tecnologica rispetto all’etica aziendale e alla sostenibilità. Negli anni ’90, le autorità hanno limitato al 50% la proprietà straniera nella lavorazione delle terre rare. Una volta assorbite le tecnologie e conquistato il 70% del mercato mondiale, queste sono state dichiarate segreto di Stato, bloccando nuovi investimenti esteri. Oggi, il meccanismo si è invertito: gli acquirenti stranieri di magneti e terre rare devono rivelare proprietà intellettuali o dettagli commerciali per ottenere permessi di esportazione, secondo quanto riferito dal Wall Street Journal.
I tribunali cinesi invalidano regolarmente brevetti stranieri, mentre le autorità collocano funzionari negli stabilimenti esteri per monitorare i processi. Quando la giapponese Sharp ha denunciato Oppo per violazione di brevetti in Giappone e Germania, il colosso cinese ha risposto con una controcausa a Shenzhen. Nel 2021, un tribunale locale ha imposto un’ingiunzione internazionale, minacciando Sharp di multe settimanali se non avesse ritirato le cause all’estero. La Cina separa le cause per invalidazione dei brevetti da quelle per violazione: nel 2020, oltre 7.100 casi sono stati esaminati, e circa il 60% dei brevetti, spesso stranieri, è stato annullato, secondo stime non ufficiali riportate da Ip Key, piattaforma Ue per la proprietà intellettuale. Le aziende cinesi, spiega Hsueh, ignorano le norme di mercato, replicano tecnologie tramite “retro-ingegneria” e saturano il mercato con copie a basso costo.
Fino al 2022, le case automobilistiche straniere dovevano cedere almeno il 50% della proprietà a partner locali, condividendo progetti e ricerca. Nel 2015, Hewlett Packard è stata costretta a vendere il 51% della propria attività cinese a Tsinghua Holdings per restare nel mercato, incassando due miliardi e 300 milioni di dollari ma perdendo il controllo operativo e tecnologico, secondo un’indagine del 2020 dell’Istituto per la Cina dell’Università dell’Alberta. Cisco, Microsoft e altre aziende hanno accettato compromessi simili. Un’indagine del 2019 della Commissione Usa-Cina per l’economia e la sicurezza ha confermato che nei settori strategici – come telecomunicazioni, semiconduttori e aviazione – le imprese occidentali sono obbligate a creare joint venture a maggioranza cinese.
Ormai sempre più analisti concordano sul fatto che la crisi immobiliare e il calo della domanda interna stiano riducendo l’attrattiva del mercato cinese. Ma il sistema (meglio sarebbe dire il racket) di accesso al mercato cinese in cambio di tecnologia ceduta al regime è sempre in funzione. Per le aziende straniere, il dilemma è chiaro: evitare la Cina significa cedere terreno ai concorrenti, ma entrarvi rischia di compromettere il proprio know how. Ciononostante, società leader come Nvidia e Apple continuano a puntare sulla Repubblica Popolare Cinese, evidentemente privilegiando i guadagni immediati rispetto alle strategie di lungo termine. Una scommessa obiettivamente poco saggia.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link