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Il lato oscuro della transizione energetica del porto di Rotterdam


Le compagnie petrolifere e del gas, insieme alla Commissione europea e ad alcuni Stati membri, stanno investendo ingenti risorse nella tecnologia di cattura e stoccaggio della CO2 (CCS). Una tecnologia presentata come una soluzione fondamentale alla crisi climatica. L’idea, a prima vista, è allettante. La CCS permetterebbe di catturare e immagazzinare nel sottosuolo l’anidride carbonica (CO2) prodotta dalle attività industriali, evitando così che venga rilasciata in atmosfera. I sostenitori affermano che questo consenta di evitare nuove emissioni. Tuttavia, accademici, organizzazioni della società civile e giornalisti ne hanno messo in luce problemi strutturali. Avvertendo dei pericoli legati ai suoi fallimenti tecnici ed economici e ai rischi enormi che comporta.

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Perché la CCS è al centro della transizione energetica del porto di Rotterdam

La popolarità della CCS potrebbe dipendere dal fatto che offre ai grandi inquinatori un modo per evitare reali riduzioni delle emissioni. O cambiamenti strutturali nelle proprie attività. Inoltre, l’industria dei combustibili fossili promuove attivamente questa tecnologia, facendo pressioni affinché venga inclusa nei piani climatici nazionali e regionali.

Per implementare la CCS su larga scala sono necessari enormi investimenti infrastrutturali. Ogni impianto industriale dovrebbe dotarsi di filtri collegati a una vasta rete di gasdotti che portano la CO2 catturata verso terminali di stoccaggio nei porti. Da qui verrebbe iniettata nel sottosuolo, in giacimenti offshore esausti di petrolio e gas. Sarebbero inoltre necessarie navi appositamente adattate per il trasporto della CO2 verso questi siti di stoccaggio.

Il porto di Rotterdam come caso emblematico di transizione guidata dalle aziende

Il porto di Rotterdam (PoR) è un esempio emblematico del ruolo strategico che i porti possono avere nella diffusione della tecnologia CCS. Il PoR è il porto più grande d’Europa e uno dei maggiori inquinatori dei Paesi Bassi. Le attività logistiche e industriali che vi si svolgono hanno generato nel 2021 un valore di 63 miliardi di euro. Pari all’8,2% del Pil olandese di quell’anno.

Il porto ha un ruolo cruciale nelle infrastrutture commerciali ed energetiche dei Paesi Bassi, fungendo da hub per l’industria fossile del Nord Europa e non solo. Shell, ExxonMobil e BP figurano tra le 120 aziende insediate nel complesso portuale. Ciascuna con raffinerie e impianti petrolchimici che trattano centinaia di migliaia di barili di petrolio al giorno. Queste aziende sfruttano la posizione strategica del porto per importare, raffinare e distribuire petrolio, prodotti chimici e derivati attraverso oltre mille chilometri di oleodotti che si diramano nel Nord Europa.

Un’economia fossile ad alto impatto: il vero volto del porto di Rotterdam

L’economia fossile del porto ha un impatto pesantissimo sul clima. Secondo il gruppo di ricerca CE Delft, nel 2023 le emissioni indirette della filiera energetica che transita o viene trattata nel porto sono state stimate in circa 604 milioni di tonnellate di CO2. Un valore tre volte e mezzo superiore alle emissioni complessive dei Paesi Bassi nello stesso anno.

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Anche i cittadini di Rotterdam sono preoccupati per l’impatto ambientale del porto. L’inquinamento atmosferico causato dalle aziende petrolchimiche sembra compromettere i raccolti agricoli e la salute della popolazione. Con costi sociali ed economici stimati in miliardi di euro ogni anno.

La Port of Rotterdam Authority, società che gestisce il porto e di cui lo Stato olandese e il Comune di Rotterdam detengono rispettivamente il 30% e il 70%, riconosce l’impatto ambientale delle sue attività e si è impegnata a ridurre del 55% le emissioni di CO2 entro il 2030. L’obiettivo dichiarato è quello di diventare un “porto climaticamente neutro” entro il 2050, in linea con le politiche climatiche nazionali.

Nonostante la portata apparente di questi impegni, i piani di transizione energetica dell’Autorità Portuale vanno letti come una resa agli interessi degli inquilini fossili del porto. L’eccessiva dipendenza dalla CCS nei piani di transizione suggerisce infatti che questi siano costruiti per tutelare le aziende, evitando al contempo le azioni reali e urgenti necessarie per affrontare la crisi climatica.

Chi controlla davvero la transizione energetica del porto?

Prima di entrare nei dettagli dei piani di transizione energetica dell’Autorità Portuale di Rotterdam, è importante comprendere i vincoli fondamentali con cui essa – e, per estensione, lo Stato olandese e il Comune di Rotterdam, suoi azionisti – si confronta nello sviluppo di questi piani.

Il vincolo più rilevante è la mancanza di spazio. L’elevata densità abitativa dell’area metropolitana di Rotterdam, che circonda il porto, limita fortemente la possibilità di espansione geografica, mentre i piani per la transizione energetica – che includono grandi progetti di CCS – richiedono nuova infrastruttura fisica. Il porto potrebbe proseguire la propria espansione verso il mare con un nuovo progetto di bonifica a lungo termine, ma questo non fornirebbe lo spazio necessario in tempi utili. Per questo motivo, l’Autorità Portuale e gli stakeholder pubblici sanno bene che le nuove infrastrutture per la transizione energetica dovranno essere costruite quasi esclusivamente all’interno dello spazio già esistente del complesso portuale.

Contratti e concessioni: così le aziende fossili dominano lo spazio portuale

Ciò evidenzia un vincolo ancora più serio: il dominio dello spazio da parte delle compagnie fossili. Praticamente tutto lo spazio nel porto è occupato da aziende con contratti di locazione a lungo termine, che conferiscono loro potere di ostacolare per generazioni l’attuazione di una reale transizione energetica.

I contratti di locazione tra l’Autorità Portuale e i suoi inquilini possono essere strutturati legalmente in due modi, con conseguenze pratiche leggermente diverse. Alcuni contratti assumono la forma di erfpacht (diritto reale di godimento del suolo), una categoria specifica prevista dalla legge olandese, i cui atti sono pubblicamente consultabili presso il catasto. Un vantaggio dell’erfpacht è che può essere usato come garanzia per ottenere prestiti. Nel contesto del porto, ciò consente agli inquilini di finanziare la costruzione di nuovi impianti. Altri contratti di locazione tra l’Autorità Portuale di Rotterdam e i suoi inquilini sono stipulati semplicemente su base contrattuale. Questi non possono essere usati come garanzia per ottenere prestiti, ma offrono il vantaggio della riservatezza, rendendoli particolarmente interessanti per le aziende che dispongono di capitali sufficienti e desiderano tenere lontani sguardi indiscreti dalle loro attività redditizie.

Le due facce dei contratti di locazione nel porto di Rotterdam

SOMO ha analizzato un campione di otto atti di erfpacht stipulati da inquilini del porto di Rotterdam (insieme alle relative condizioni generali, la cui versione più recente risale al 2015).

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SOMO ha rilevato che gli atti di erfpacht (diritto di godimento del suolo) hanno una durata compresa tra i 30 e i 100 anni e impongono restrizioni vaghe e limitate sull’impatto ambientale delle attività degli inquilini. Ognuno degli atti esaminati in questa ricerca prevede l’applicazione delle condizioni generali d’uso del porto. L’ultima versione disponibile, risalente al 2015 (così come quella precedente del 2004), contiene solo una clausola che disciplina gli obblighi ambientali generali degli inquilini (Articolo 24.1(e)). In essa si afferma che gli inquilini devono «prevenire l’inquinamento o il danneggiamento dell’ambiente», insieme ad altri obblighi non direttamente legati all’inquinamento ambientale. Per quanto ne sa SOMO, non esiste alcuna indicazione su cosa questa clausola implichi concretamente in relazione alle emissioni di CO2, né risulta che l’Autorità Portuale di Rotterdam abbia mai fatto valere tale obbligo nei confronti degli inquilini per quanto riguarda la riduzione delle emissioni.

Erfpacht: vincoli e limiti alla transizione energetica del porto

Inoltre, questo tipo di contratto può essere risolto dall’Autorità Portuale solo in caso di grave inadempienza da parte degli inquilini o attraverso procedure di esproprio estremamente costose. L’articolo 28.1(b)(iv) delle condizioni generali del 2015 conferisce all’Autorità Portuale il diritto di revocare i diritti d’uso degli inquilini se lo ritiene «opportuno nell’ambito di un’organizzazione efficiente o di una riorganizzazione delle attività economiche nell’area portuale».

Tuttavia, l’articolo 31.3 stabilisce che, qualora si scelga di esercitare questo diritto, l’Autorità Portuale è tenuta a risarcire l’inquilino con un importo determinato in base alla Legge sulle Espropriazioni, che dal 2024 è stata incorporata nella nuova Omgevingswet (Legge sull’Ambiente e la Pianificazione del Territorio). Le disposizioni pertinenti di tale legge prevedono che un collegio di esperti nominati dal tribunale determini l’ammontare del risarcimento, tenendo conto sia del valore dei beni da espropriare sia di una stima dei guadagni futuri che verrebbero persi a seguito dell’esproprio. Per le grandi industrie presenti nel porto, questa cifra potrebbe ammontare a miliardi di euro.

Queste condizioni sono estremamente favorevoli per gli inquilini, lasciando all’Autorità Portuale di Rotterdam margini contrattuali molto limitati per intervenire contro chi, anziché sostenere concretamente la transizione energetica, continua a tergiversare.

La trasparenza che manca nei contratti della Port Authority

Shell, ExxonMobil, BP e altri grandi gruppi industriali attivi nel porto hanno accordi di locazione contrattuali con l’Autorità Portuale, i cui termini sono riservati. Questa mancanza di trasparenza è particolarmente preoccupante, considerando l’importanza di tali accordi per la politica energetica nazionale. Nonostante la segretezza, è possibile formulare ipotesi fondate sulle clausole di questi contratti, basandosi sull’analisi degli atti di erfpacht. Sebbene erfpacht e contratti di locazione siano regolati da normative diverse, svolgono di fatto la stessa funzione: assegnare e regolare il diritto d’uso di un terreno nel porto. Inoltre, da un punto di vista commerciale, e considerando che le compagnie petrolifere conoscono i termini degli atti di erfpacht degli altri inquilini del porto, è ragionevole supporre che non accetterebbero condizioni meno favorevoli. Questo è tanto più vero vista la posizione di forza di cui godono rispetto all’Autorità Portuale, grazie alle loro ingenti risorse finanziarie.

Quando SOMO ha chiesto chiarimenti all’Autorità Portuale in merito ai termini contrattuali favorevoli concessi agli inquilini più inquinanti, l’ente ha spiegato che i contratti con i 20 maggiori emettitori del porto non includono obblighi di riduzione delle emissioni perché risalgono a decenni fa, prima che i cambiamenti climatici diventassero una priorità pubblica. L’Autorità ha anche dichiarato che oggi cerca di inserire obiettivi di riduzione delle emissioni nelle trattative per i nuovi contratti o per il rinnovo di quelli esistenti, e che mira a elaborare «piani d’azione su misura» per i 20 principali emettitori. Tuttavia, né le dichiarazioni dell’Autorità a SOMO né il suo Rapporto Annuale 2024 chiariscono se tali clausole siano state effettivamente incluse in contratti vincolanti o se i piani d’azione abbiano prodotto cambiamenti concreti nei comportamenti (e nelle emissioni) delle aziende coinvolte.

Il peso delle aziende nella politica energetica olandese

Con pochissimo spazio disponibile per nuove infrastrutture e costi elevatissimi legati alla rescissione dei contratti, le aziende già presenti nel porto con contratti di locazione hanno un potere significativo nel determinare gli orientamenti della politica energetica olandese per i decenni a venire. Di conseguenza, l’Autorità Portuale ha preferito rendere la transizione energetica appetibile dal punto di vista commerciale per gli inquilini, invece di perseguire una strategia climatica solida e ambiziosa.

Tuttavia, la responsabilità di questa dinamica di potere non ricade esclusivamente sugli inquilini. Anche l’Autorità Portuale e i suoi azionisti pubblici sono complici della propria debolezza negoziale. Le condizioni favorevoli concesse agli inquilini sono state giustificate con la necessità di mantenere la competitività commerciale internazionale del porto e, più in generale, dei Paesi Bassi. Proprio come avviene con le clausole arbitrali presenti negli accordi commerciali internazionali firmati dai Paesi Bassi – che compromettono la sovranità nazionale – l’adesione dell’Autorità Portuale a contratti a lungo termine fortemente sbilanciati a favore delle imprese si è rivelata un patto col diavolo. Ha barattato il controllo sulla politica energetica e sulla salute ambientale del Paese e dei suoi vicini con i presunti benefici economici derivanti dagli interessi privati delle compagnie petrolifere.

Transizione energetica o business as usual? I progetti del porto di Rotterdam

Alla luce di questi vincoli, diventa evidente come nei piani di transizione energetica dell’Autorità Portuale di Rotterdam venga data priorità agli interessi delle grandi compagnie petrolifere. Sebbene l’Autorità dichiari di puntare alla neutralità entro il 2050 per le proprie operazioni, lascia in gran parte fuori dal proprio raggio d’azione le emissioni generate dagli inquilini del porto. La realtà, piuttosto cinica, che sta alla base di questi piani è che nessuno dei principali progetti di transizione energetica è pensato per ridurre la produzione o il consumo complessivo di energia. Né all’interno delle attività gestite direttamente dall’Autorità, né rispetto all’enorme flusso di energia fossile che transita nel porto. Inoltre, il ritmo con cui viene costruita la nuova infrastruttura non è dettato dall’urgenza della crisi climatica, ma dai tempi in cui diventa economicamente vantaggiosa per le aziende energetiche, anche a costo di pesare sulle finanze pubbliche attraverso ingenti sussidi statali.

L’Autorità Portuale ha raggruppato numerosi progetti in quattro pilastri strategici per la sua transizione energetica. Questa analisi si concentrerà sui due pilastri direttamente legati all’implementazione della tecnologia CCS: “Energia e infrastrutture” e “Un nuovo sistema energetico”.

1. “Efficienza e infrastrutture”

Questo pilastro comprende nuove infrastrutture pensate sia per compensare le emissioni, sia per facilitare l’introduzione dell’idrogeno come nuova fonte primaria di energia. I due progetti di punta inseriti in questo ambito sono il progetto di CCS Porthos e il Delta Rhine Corridor.

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Il progetto Porthos si basa sulla cattura di parte della CO2 emessa dai camini industriali attraverso un processo chimico, al fine di trasportarla verso siti di stoccaggio sotterranei, come giacimenti esausti di gas o petrolio. I clienti attuali di Porthos – Shell, ExxonMobil e i produttori di idrogeno Air Liquide e Air Products – hanno già stipulato contratti per fornire la CO2 generata dalle loro attività nel porto a una rete di gasdotti che la trasporterà fino a una piattaforma situata 20 chilometri al largo, nel Mare del Nord, dove sarà pompata in un giacimento di gas esaurito sotto il fondale marino. Insieme alle aziende statali del gas Gasunie e Energie Beheer Nederland (EBN), l’Autorità Portuale di Rotterdam prevede di realizzare una capacità di stoccaggio di circa 2,5 milioni di tonnellate di CO2 all’anno per un periodo di 15 anni, a partire dal 2026.

Tale capacità è però ben lontana dalle stime di emissioni generate dalle attività del porto: si calcola infatti che nel 2023 siano state emesse circa 20,3 milioni di tonnellate di CO2. Il progetto, inoltre, non prevede alcun intervento per incentivare l’abbandono progressivo delle attività legate ai combustibili fossili nel porto.

Panoramica delle infrastrutture e dei serbatoi di Porthos, ©PorthosCO2

CCS: una tecnologia non testata su larga scala

Molti scienziati e organizzazioni hanno messo in discussione la promessa dello stoccaggio permanente della CO2, i processi di monitoraggio a lungo termine dei gasdotti e dei siti di stoccaggio, e il rischio di perdite. La CCS è una tecnologia non ancora collaudata su larga scala, con risultati deludenti e rischi significativi per la salute e per l’ambiente.

Uno studio dell’IEEFA ha analizzato la capacità e le prestazioni di 13 progetti di punta di CCS a livello mondiale e ha rilevato che 10 su 13 sono falliti o hanno avuto prestazioni nettamente inferiori rispetto a quanto progettato. I gasdotti possono perdere, e la CO2 compressa è altamente pericolosa in caso di rilascio, potenzialmente in grado di provocare asfissia a persone e animali. Anche lo stoccaggio sotterraneo comporta rischi, come fughe di gas, contaminazione delle falde acquifere e attivazione di fenomeni sismici. Per questo motivo, la tecnologia CCS risulta profondamente inadeguata per raggiungere gli obiettivi climatici del porto (e dei Paesi Bassi).

Nonostante i rischi, miliardi pubblici alla CCS

Nonostante questi problemi noti, miliardi di fondi pubblici vengono investiti nella CCS, con Porthos come progetto pilota e perno centrale della politica energetica nazionale olandese. Ancora più grave, una parte significativa di questi fondi non viene destinata allo sviluppo o al miglioramento della tecnologia, ma serve invece a rendere l’operazione più appetibile per le aziende inquinanti, proteggendole dai costi aggiuntivi legati all’utilizzo della CCS.

L’Autorità Portuale di Rotterdam, EBN e Gasunie – le società pubbliche che possiedono Porthos – sostengono la stragrande maggioranza dei costi di sviluppo del progetto, stimati in circa 1,3 miliardi di euro. Inoltre, lo Stato olandese ha concesso ai quattro clienti industriali di Porthos un totale di 2,1 miliardi di euro in sussidi, per coprire la differenza di costo tra la CCS e l’acquisto di certificati di CO2 nel sistema di scambio delle emissioni dell’Ue (ETS). L’Autorità Portuale ha dichiarato a SOMO che «le politiche e la visione del governo nazionale sono la guida», e che il governo centrale è direttamente coinvolto nell’implementazione della CCS nei Paesi Bassi.

Porthos: il primo tassello della rete CCS europea

I sostenitori della CCS vedono in Porthos il primo nodo di una futura rete paneuropea di infrastrutture per la cattura e lo stoccaggio del carbonio. Altri progetti sono già in costruzione nel porto, come Aramis, sviluppato da EBN, Gasunie, Shell e dalla compagnia francese TotalEnergies, la cui entrata in funzione è prevista per il 2029.

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Il progetto Delta Rhine Corridor è collegato a questa rete, poiché prevede la costruzione di un’infrastruttura transfrontaliera di gasdotti per il trasporto di CO₂, idrogeno e altri composti chimici tra i Paesi Bassi e la Germania. I gasdotti sarebbero accessibili a vari utenti con differenti processi di combustione, il che solleva preoccupazioni sui rischi di perdite e sull’impiego di tecnologie ancora non collaudate.

Tracciato del Delta Rhine Corridor. Immagine: Rijksdienst voor Ondernemend Nederland
Tracciato del Delta Rhine Corridor © Rijksdienst voor Ondernemend Nederland

CCS e compensazione delle emissioni

Nel 2021, TotalEnergies, Occidental Petroleum (tramite una controllata), Oxy Low Carbon Ventures e la società di servizi CCS Northern Lights si sono alleate con il broker di crediti di carbonio South Pole, il consulente per i mercati del carbonio Perspectives Climate Group e Carbon Finance Labs per lanciare la coalizione CCS+ Initiative. L’obiettivo dell’iniziativa è creare un sistema di contabilità delle emissioni che permetta a sviluppatori e utilizzatori della tecnologia CCS di vendere crediti di carbonio ad altri grandi inquinatori. La coalizione è attiva nel promuovere il riconoscimento delle tecnologie legate alla CCS all’interno del meccanismo di mercato delle emissioni previsto dall’Accordo di Parigi e nei sistemi di certificazione dei mercati volontari.

Infine, l’espansione della tecnologia CCS rappresenta una deviazione pericolosa, poiché di fatto rafforza la dipendenza dall’estrazione e produzione di combustibili fossili per i decenni a venire, minando l’urgenza di abbandonare tali fonti. I rischi associati alla CCS la rendono una distrazione pericolosa rispetto alle trasformazioni reali e immediate di cui il nostro sistema energetico ha bisogno. Consentire agli attori della CCS di generare crediti di compensazione non farebbe altro che facilitare l’espansione e la legittimazione dei veri responsabili della crisi climatica.

2. “Un nuovo sistema energetico”

Il secondo pilastro del piano di transizione energetica dell’Autorità Portuale di Rotterdam riguarda il passaggio a fonti energetiche basate sull’elettricità e sull’idrogeno. Sebbene l’Autorità affermi di puntare sull’“idrogeno verde”, prodotto tramite energie rinnovabili come il solare e l’eolico, la tecnologia CCS viene presentata come soluzione transitoria per compensare le emissioni derivanti dall’uso di gas naturale nei processi di produzione. Attualmente, però, la produzione di vero “idrogeno verde” rimane un obiettivo ancora lontano, poiché la maggior parte dei metodi di produzione si basa su fonti non rinnovabili come il gas o il carbone.

L’Autorità prevede sia la produzione di idrogeno all’interno del porto, sia l’importazione (e il relativo stoccaggio) di idrogeno prodotto all’estero per soddisfare la domanda. Per raggiungere questo obiettivo, sta sviluppando dei “corridoi dell’idrogeno”, con gasdotti in Europa settentrionale e partenariati con altri porti del mondo. Collegando i Paesi Bassi, tra gli altri, con Portogallo e Sudafrica. Sta inoltre costruendo terminali di importazione, impianti di cracking dell’idrogeno e gasdotti tra Belgio, Germania e Paesi Bassi. La società Air Products, attiva nei settori del gas e della chimica, sta realizzando proprio nel porto di Rotterdam il più grande impianto europeo per la produzione di idrogeno con tecnologia CCS. L’impianto fornirà idrogeno alla raffineria di ExxonMobil a Rotterdam e ad altri clienti, collegandosi al sistema Porthos per trasportare la CO2 catturata verso i siti di stoccaggio nel Mare del Nord.

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La spinta all’idrogeno nel porto di Rotterdam: promesse e criticità

Il sostegno dei governi europei, tra cui Germania e Paesi Bassi, insieme all’appoggio delle grandi aziende petrolifere e del gas, sta accelerando la crescita del settore dell’idrogeno. Tuttavia, l’idrogeno è estremamente inefficiente dal punto di vista energetico, il che lo rende inadatto a molte delle applicazioni oggi proposte. L’impronta dell’idrogeno prodotto con CCS – considerando sia la CO2 non catturata sia le emissioni di metano legate all’uso di gas – risulta superiore di oltre il 20% rispetto a quella prodotta bruciando direttamente gas o carbone per generare calore.

Persino l’“idrogeno verde” prodotto con fonti rinnovabili è molto impattante in termini di risorse, richiedendo grandi quantità di minerali, terra e acqua. Queste risorse provengono spesso dal Sud globale, con il rischio di perpetuare disuguaglianze storiche. L’Autorità Portuale ha riconosciuto i rischi legati all’importazione di idrogeno verde, ma ha affermato che «data l’entità e l’urgenza del compito di riduzione delle emissioni», il porto «non può permettersi di escludere alcuna opzione». Una posizione che di fatto ignora le possibili conseguenze negative e lascia intatti i modelli attuali di produzione e consumo energetico.

Neutralità climatica? L’Autorità scarica le responsabilità sui suoi inquilini

Contrariamente alle dichiarazioni altisonanti dell’Autorità Portuale di Rotterdam sui propri piani di transizione energetica, i progetti di punta dimostrano come a prevalere siano gli interessi delle grandi aziende. Il denaro dei contribuenti olandesi viene utilizzato per concedere decenni di respiro alle compagnie petrolifere, permettendo loro di continuare indisturbate a emettere gas serra. Inoltre, il sistema energetico basato sull’idrogeno, così come promosso dall’Autorità, è estremamente dispendioso in termini di risorse, irrealistico nella sua portata e problematico per quanto riguarda gli impatti ambientali, sociali e climatici.

Questa contraddizione emerge chiaramente nel modo in cui l’Autorità cerca di sottrarsi alla responsabilità per le emissioni dei propri inquilini. Pur mettendo spesso in risalto la propria partecipazione a iniziative di transizione guidate dagli inquilini, al fine di apparire proattiva e ottenere benefici reputazionali, l’Autorità rifiuta poi ogni responsabilità formale in fase di rendicontazione delle emissioni. Nei suoi calcoli sui progressi verso gli obiettivi di neutralità climatica, l’Autorità esclude le enormi emissioni prodotte dal cluster industriale del porto dal proprio inventario di emissioni Scope 3. Questo avviene nonostante la maggior parte dei ricavi dell’ente derivi proprio dagli affitti pagati da queste aziende inquinanti.

Emissioni Scope 3: il porto di Rotterdam rifiuta di contare i suoi veri impatti

In risposta a SOMO, l’Autorità ha affermato che «esiste margine di interpretazione sul fatto che le emissioni delle aziende presenti nel porto rientrino o meno nelle [sue] emissioni Scope 3». Ciò poiché sarebbe la presenza degli impianti dei clienti – e non il semplice affitto del terreno – a generare le emissioni. Tuttavia, questa posizione contraddice le linee guida ufficiali sulle emissioni Scope 3. Che stabiliscono che le emissioni generate su immobili affittati dall’organizzazione che redige il report debbano essere incluse nei calcoli.

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Emissioni dirette, upstream e downstream © GHG Protocol

L’Autorità ha dichiarato a SOMO che nel 2026 valuterà se includere o meno le emissioni legate agli affitti nel proprio inventario Scope 3 per gli obiettivi di riduzione post-2030. Pur sostenendo di voler influenzare i comportamenti dei propri inquilini, l’Autorità ribadisce che «sono in ultima analisi le aziende nel porto a dover effettuare gli investimenti necessari per convertire i propri impianti produttivi e ridurre le emissioni dirette e indirette». In definitiva, l’approccio opportunistico dell’Autorità Portuale alla rendicontazione delle emissioni dimostra che, al momento decisivo, non intende assumersi la responsabilità di limitare le emissioni dei giganti del petrolio che ospita.

Il timore per possibili danni economici frena la transizione

Se prese alla lettera, le promesse contenute nei piani di transizione energetica dell’Autorità Portuale di Rotterdam affermano di poter “risolvere” l’impatto climatico dell’industria nel porto grazie a nuove tecnologie in grado di compensare o ridurre le emissioni. Presentando al contempo lo sviluppo di tali tecnologie come un’opportunità economica per tutti. Ma il tono tecno-ottimista di questi piani cela una decisione politica ben più dura, presa dall’Autorità e dai suoi azionisti pubblici. Alla luce dei vincoli spaziali insormontabili e della scelta consapevole di legarsi mani e piedi agli interessi dei propri inquilini industriali per i decenni a venire – attraverso condizioni contrattuali estremamente favorevoli – l’attuale strategia di transizione energetica dell’Autorità Portuale privilegia gli interessi delle grandi aziende rispetto a quelli della collettività. In questo contesto, la tecnologia CCS gioca un ruolo cruciale nel prolungare la vita dell’industria dei combustibili fossili.

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La logica che sottende questa scelta politica potrebbe essere dettata dalla paura. Tra le righe di vari documenti strategici, che sottolineano la necessità di conciliare gli obiettivi climatici con il mantenimento di un ambiente favorevole agli investimenti, si intravede il timore dell’Autorità e del governo olandese per i possibili danni economici derivanti da un eventuale scontro con i loro potenti inquilini. Un timore non del tutto infondato. Negli ultimi anni, aziende come ExxonMobil, Shell, Unilever, ASML, RWE e Uniper hanno minacciato o intrapreso azioni aggressive, come il disinvestimento o arbitrati milionari, contro i Paesi Bassi per politiche percepite come contrarie ai loro interessi. Tuttavia, vista l’urgenza della crisi climatica e la responsabilità storica nella riduzione delle emissioni, l’Autorità Portuale e il governo olandese devono affrontare questa paura e cambiare rotta.

Un’altra transizione energetica è possibile

A tal fine, esistono numerose misure che l’Autorità potrebbe realisticamente adottare già nel breve termine, senza arrivare allo scontro diretto con i propri inquilini. Per esempio, potrebbe attivare in modo più incisivo alcune delle clausole ambientali – finora vaghe – presenti nei contratti di locazione. Interpretandole come obblighi vincolanti a ridurre concretamente le emissioni entro un certo numero di anni. Inoltre, potrebbe rafforzare gli incentivi economici. Prevedendo sconti o penalizzazioni sui canoni d’affitto, andando oltre i modesti sconti attualmente offerti a chi si impegna in investimenti per la sostenibilità.

Parallelamente, in qualità di azionista della PoR Authority, il governo olandese potrebbe riallocare parte dei miliardi di euro di sussidi oggi destinati alle imprese per l’uso dell’energia o per tecnologie rischiose come la CCS, investendoli invece in iniziative volte a ridurre le emissioni assolute e a uscire dai combustibili fossili.

Una vera transizione energetica è possibile (ma servono coraggio e scelte politiche)

Alla luce della portata e dell’urgenza della crisi climatica, il governo olandese dovrebbe avere il coraggio di adottare misure ancora più ambiziose e incisive. Questo potrebbe includere una vera strategia di transizione, in cui tutti i sussidi a favore dell’economia fossile vengano convertiti in incentivi alla riduzione della produzione e del consumo energetico. E il ritorno – o addirittura l’aumento – della tassa sulle emissioni prevista dall’Accordo Climatico Olandese. Ciò in modo da esercitare una pressione reale sulle industrie che non ridurranno le proprie emissioni nei prossimi anni. Per questo, la trasformazione delle infrastrutture energetiche del porto in senso post-fossile è indispensabile se i Paesi Bassi e l’Europa vogliono davvero raggiungere i propri obiettivi climatici. Nonostante le tattiche intimidatorie dell’industria, non è ancora chiaro fino a che punto le aziende siano davvero disposte a sostenere i costi della transizione.

Qualunque sia l’approccio scelto, è giunto il momento che l’Autorità Portuale e i suoi azionisti pubblici si oppongano apertamente ai colossi fossili del porto. Le conseguenze economiche derivanti dal penalizzare le industrie che non riducono le emissioni potranno essere dolorose, ma le conseguenze dell’inerzia di fronte alla crisi climatica saranno ben peggiori di quanto possiamo immaginare.


Questo articolo è stato pubblicato da SOMO in lingua inglese e tradotto dalla redazione di Valori.it



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