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Morire di Esg – Economy Magazine


C’erano una volta i fattori Esg. Tutti se ne riempivano la bocca, declinandoli come diligenti scolaretti in Environmental, Social, Governance. Tutti, soprattutto, se ne riempivano i bilanci: imprese, banche, investitori. Poi è arrivato Donald Trump. E i temi Esg hanno cessato di essere tanto cool. Così, i diligenti scolaretti, da Goldman Sachs a JPMorgan Chase, da Morgan Stanley a Vanguard a Wells Fargo, fino a BlackRock, hanno diligentemente marcato visita muovendo un passo indietro dalla Net Zero Asset Managers Initiative (Nzami). E anche il Board della Fed ha annunciato di essersi ritirato dal Network delle banche centrali e dei supervisori per la finanza verde (Ngfs). Poi è stata la volta dell’ordine esecutivo del 21 febbraio, che descrive le politiche De&I come “discriminazione illegale, pericolose, degradanti e immorali”, vietandole nella PA e sconsigliandole nel privato.

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Il battito d’ali della farfalla Trump non ha tardato a scatenare un tornado anche nel Vecchio Continente. Non solo perché le filiali delle imprese americane si sono affrettate ad adeguarsi ai nuovi diktat, ma anche perché in quello che è il più grande mercato di fondi Esg al mondo, con l’84% del patrimonio gestito, banche e fondi sono costrette a ridurre gli investimenti nelle società, statunitensi e non, che non soddisfano gli standard Esg dell’Unione Europea.

I rilievi di Morningstar parlano chiaro: nel primo trimestre di quest’anno, il patrimonio complessivo dei fondi degli Articoli 8 e 9 è sceso del 4,7%, attestandosi a quota 6.000 miliardi di euro. Per capirci, secondo il regolamento Sfdr i fondi articolo 9 – che hanno visto un ritiro record di 7,9 miliardi di euro, che si aggiunge ai 7,7 miliardi del trimestre precedente – hanno un obiettivo di investimento sostenibile, mentre i fondi articolo 8 lo promuovono, ma non lo hanno come obiettivo principale. E poi ci sono i fondi articolo 6: sono quelli non sostenibili e nel primo trimestre 2025 hanno consolidato il loro predominio sui flussi, attirando 112 miliardi di euro in sottoscrizioni nette nel primo trimestre… «In termini di patrimonio, la quota di mercato dei fondi articolo 8 è diminuita leggermente, passando dal 56,8% al 55,2%. Calcolato come flusso netto in rapporto al patrimonio totale all’inizio del periodo, il tasso di crescita organica dell’universo dei fondi articolo 8 ha registrato un leggero aumento allo 0,9% negli ultimi tre mesi», osservano gli analisti di Morningstar. «Tuttavia, questo valore resta ben al di sotto del nuovo record superiore al 2,6% raggiunto dai fondi articolo 6. I fondi articolo 9, invece, hanno visto il loro tasso di crescita organica scendere ulteriormente in territorio negativo, attestandosi al -2,4%».
A certificare la fine dell’imbonimento green, basti considerare che nel primo trimestre dell’anno le attività di rebranding dei fondi hanno accelerato, con almeno 262 fondi art. 8 e 9 con termini legati all’Esg nei loro nomi che sono stati rinominati, inclusi 185 che hanno sostituito i termini e 75 che li hanno rimossi completamente.

I “pagellini”

Anche Bruxelles ci mette del suo, con l’Omnibus Package della Commissione Europea che sta allargando le maglie. Peccato che escludere dalla disclosure obbligatoria l’80% delle imprese attualmente coinvolte (scendendo dalle attuali 50.000 a 10.000), oltre a una pesante asimmetria informativa (tra le imprese obbligate a rispettare standard elevati e quelle escluse che invece potranno ricorrere a standard volontari, senza alcuna assurance da parte di soggetti terzi qualificati), si tradurrà in dati non standardizzati e non comparabili. E gli operatori finanziari si troveranno davanti a un gap informativo che paralizzerà gli investimenti.

A complicare (ulteriormente) le cose, c’è la questione dei rating Esg: potrebbero essere tutti da rifare. Standard Ethics, per esempio, oltre ad aver declassato quello degli Stati Uniti a “EE-” dal precedente “EE” con Outlook “Negativo”, ha pianificato un fitto calendario di monitoraggi di aziende sia americane che europee, valutando, per esempio, la perdita di autonomia dei dipartimenti di diversità ed inclusione e il possibile indebolimento (o soppressione) di alcuni programmi De&I. «Abbiamo in calendario casi che richiederanno delle analisi non facili da fare», conferma a Economy Jacopo Schettini Gherardini, Direttore Ufficio Ricerca di Standard Ethics. «In termini generali non è una novità quella del conflitto tra le politiche di sostenibilità di un’azienda (anche in relazione ai diritti individuali) e le legislazioni nazionali. Basti pensare a chi opera in alcune aree del Medio Oriente o in Cina per capire come la gestione della cosa sia complessa. Non di meno, la società virtuosa si tiene il proprio codice etico e le proprie policy, dopodiché cerca di agire nella propria sfera di influenza in modo adeguato e secondo le possibilità. La questione in questo caso è però un po’ diversa per due ragioni. Primo perché ad azionarsi contro le politiche antidiscriminatorie e di sostenibilità indicate dalle organizzazioni internazionali è una democrazia avanzata. La seconda è che l’azienda non verrebbe lasciata libera di perseguire le politiche che desidera in contrasto con dei diritti che reputo fondamentali. Ora, il sottostante di queste politiche trumpiane è piuttosto interessante. L’idea di fondo è che facilitando – ad esempio – l’ingresso di una donna si discrimini un uomo. Detto in altri termini, è un po’ come sostenere che sia una discriminazione se non si consentisse a un pugile peso massimo di salire sul ring contro un peso piuma. È ovvio che si stanno imponendo delle regole, ma è nella dottrina liberale farlo per ridurre squilibri e dare pari opportunità. La dottrina liberale presuppone infatti che tutti abbiano le medesime chance per una competizione equa e corretta. La cosa interessante è che il ragionamento trumpiano confonde l’ecosistema liberale con quello della giungla. Non solo contraddice il pensiero di qualsiasi economista che dice come una società più equa sia meglio, ma non arriva neppure ad offrire delle garanzie in arrivo. Ciò detto, le aziende sono libere di valutare come comportarsi».

«È innegabile che un recente ordine esecutivo dell’amministrazione Trump abbia spinto un certo numero di imprese statunitensi a rivedere le proprie politiche De&I», aggiunge Tiziano Bellemo, docente della scuola di formazione economico-finanziaria Teseo. «Tuttavia, è difficile capire se e in che misura ciò renderà più complicato il loro accesso al mercato dei capitali, riducendo i loro rating Esg. In primo luogo, le policy De&I sono molto diverse tra loro, con gradi di efficacia altrettanto differenti. Sustainalytics stima che oltre il 40% delle imprese abbia pratiche De&I non adeguate e solo il 10% ne abbia invece di molto serie. Inoltre, la valutazione delle procedure di gestione della diversità è solo una delle molte componenti di valutazione dei rischi aziendali in tema di capitale umano che entrano nel rating Esg. Infine, se alcune delle revisioni annunciate sono di sostanza, altre sono sostanzialmente una riformulazione dell’approccio. In sintesi, il fenomeno non è da sottovalutare. Ma il suo impatto sui rating Esg è altamente incerto e ancora da mettere a fuoco. Più preoccupante sarebbe se la revisione delle pratiche De&I fosse solo un primo passo di un processo di presa di distanza da tutto ciò che riguarda la gestione dei rischi di sostenibilità in azienda. In questo caso, l’effetto sui rating Esg sarebbe rilevante».

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E chi investe?

Il tema, chiaramente, è sul tavolo delle società di gestione del risparmio: «Di recente abbiamo svolto un’analisi empirica volta a valutare se la maggior “robustezza” dei programmi De&I (per esempio caratterizzati da obiettivi quantitativi) possa tradursi in rating Esg migliori», rivela a Economy Federica Calvetti, Esg Coordinator di Eurizon, che ha in panzia qualcosa come 390 miliardi di euro di patrimonio gestito. «Innanzitutto, partiamo da una situazione geografica molto diversa: in generale, gli ambiti di azione delle politiche De&I nel settore corporate Usa sono meno prescrittivi rispetto a quanto fatto in Europa (in cui spesso troviamo anche target quantitativi). Le evidenze raccolte supportano una correlazione positiva tra le società con programmi di De&I più robusti e rating Esg più elevati; partendo da un simile scenario, tuttavia, non è possibile raggiungere la conclusione che l’abbandono di politiche De&I determini a priori l’abbassamento del rating Esg dell’emittente: infatti, non solo i rating Esg tengono conto di molteplici dimensioni, ma la rilevanza relativa degli aspetti ambientali vs. sociali e di governance è conseguenza del settore di appartenenza dell’emittente (per alcuni settori, il peso della dimensione ambientale prevale)». Senza contare che società (di rating) che vai, metodo (di assegnazione) che trovi. E il rating Esg di una società dipende anche da chi lo assegna. «Per Eurizon, il rating Esg è solo una delle variabili all’interno del processo di analisi e selezione degli investimenti: il tema della diversità di genere, per esempio, rientra anche nelle valutazioni per la selezione degli investimenti sostenibili, per cui ci attendiamo che per essere tale, una società debba, tra l’altro, avere una soglia minima di esponenti appartenenti al genere meno rappresentato. In questo senso, esercitiamo anche i diritti di voto in assemblea per quanto riguarda l’elezione degli organi societari». Ancge perché c’è l’annosa questione del “agenzia che vai, rating che trovi”: «La copertura dei servizi di rating varia in termini di asset class, criteri, rigore e risultati», conferma Jeremy Taylor, portfolio manager value equities di AllianceBernstein. «Non vi sono standard settoriali o normativi per quanto concerne algoritmi, metriche, fonti di dati o risultati. Ogni provider ha di fatto una propria scatola nera, che distilla enormi quantità di dati in un unico rating per ciascuna azienda. Il risultato è che i rating Esg possono variare enormemente da un fornitore all’altro».

La De&I non è più così cool

di Gabriel Debach, market analyst di eToro

Da inizio anno i temi Esg stanno perdendo trazione tra gli investitori, complice una situazione geopolitica in divenire che sta mettendo in secondo piano il tema della sostenibilità. Il risultato? Una ritirata documentata delle iniziative De&I nel mondo corporate: secondo Bloomberg, almeno 37 grandi aziende Usa hanno eliminato dipartimenti De&i, abbandonato obiettivi di assunzione inclusiva o interrotto programmi di supplier diversity. «I documenti regolamentari aziendali che menzionano il De&I sono crollati ai minimi dal 2018. Solo il 75% delle società S&P 500 nel 2025 dichiara oggi una metrica quantitativa sulla diversity nei board, rispetto al 100% del 2024. Le proposte degli azionisti su tematiche Esg sono diminuite del 34% in un solo anno. Non solo. I dati di Revelio Labs mostrano che anche la spesa per ruoli De&I è in calo nei bilanci delle aziende S&P 100, mentre le menzioni della parola “diversità” vengono progressivamente rimosse dai siti corporate. È il fenomeno del cosiddetto diversity hushing. Fin qui, tutto sembrerebbe indicare un impatto significativo. Ma c’è un paradosso: i rating Esg delle aziende non stanno crollando. Anzi, secondo Sustainalytics, l’impatto dei rollback De&I sui rating è marginale, perché le metriche di diversity pesano solo il 10–15% della componente “Social”, a sua volta una frazione del punteggio totale. E qui nasce il punto centrale: la finanza non segue sempre la morale, o almeno non tutta. Tesla è stata rimossa nel 2022 dall’indice S&P 500 Esg per problematiche legate al capitale umano. Eppure, ha continuato a essere uno dei titoli più capitalizzati, acquistati e performanti in borsa. Lo stesso vale per aziende della difesa, cresciute a doppia cifra nel 2024-2025 pur operando in settori eticamente controversi. Il mercato non premia solo i “buoni”, ma chi genera margini e crescita. I rating Esg restano un riferimento importante, ma l’evidenza empirica più recente mostra che la loro influenza sui mercati è meno determinante di quanto si pensasse. Le aziende si adattano più alle pressioni regolatorie e reputazionali che a quelle etiche. E forse, anche gli investitori iniziano a chiedersi se un approccio forzato e meccanico al De&I (per quanto animato da buone intenzioni) non rischi di diventare, alla lunga, una metrica sterile».



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