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Fusione Nucleare per il futuro, intervista a Milena Roveda


La transizione energetica è una delle sfide più decisive del nostro tempo, perché intreccia sicurezza degli approvvigionamenti, sostenibilità ambientale e sviluppo economico. L’Europa, alle prese con una crescente instabilità geopolitica e con la necessità di rafforzare la propria autonomia strategica, è alla ricerca di tecnologie in grado di garantire un futuro energetico resiliente e competitivo. Tra queste, la fusione nucleare si sta imponendo come una delle soluzioni più promettenti.
A guidare questo percorso c’è Milena Roveda, CEO di Gauss Fusion dal 2023 e attuale presidente dell’Associazione Europea per la Fusione. Con oltre trent’anni di esperienza internazionale in progetti di crescita e trasformazione aziendale, Roveda è alla guida di una GreenTech europea che punta a unire competenze industriali e ricerca scientifica per accelerare lo sviluppo della fusione nucleare su scala industriale. Gauss Fusion, nata con l’obiettivo di portare la fusione dal laboratorio al mercato, si propone come uno degli attori chiave per costruire un sistema energetico europeo autonomo e sostenibile.

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Il settore energetico sta vivendo una trasformazione senza precedenti. Quali sono, secondo lei, le priorità immediate per garantire un equilibrio tra sicurezza degli approvvigionamenti, sostenibilità ambientale e prezzi accessibili?

Viviamo un momento di discontinuità storica. Il sistema energetico globale è sottoposto a una triplice pressione: l’urgenza sempre più evidente di decarbonizzare per contenere l’impatto del cambiamento climatico; la necessità, non più rimandabile, di garantire approvvigionamenti stabili e accessibili in un contesto geopolitico attraversato da crisi ricorrenti, instabilità e nuove dipendenze; e, al tempo stesso, la crescita senza precedenti della domanda di energia elettrica, trainata dall’elettrificazione dei consumi, dalla digitalizzazione dei processi industriali e dalla diffusione accelerata di tecnologie energivore come l’intelligenza artificiale e il calcolo ad alte prestazioni.

Non possiamo più accontentarci di rincorrere compromessi temporanei. Servono scelte chiare, una visione integrata e il coraggio di trasformare la transizione energetica in un vero progetto di sicurezza e di sviluppo per l’Europa.

La priorità assoluta è costruire una sovranità energetica europea che – non dimentichiamoci – è prima di tutto una sovranità politica. Significa ridurre le nostre fragilità strutturali, a partire dalla dipendenza da fonti fossili e materie prime critiche provenienti da aree geopoliticamente instabili. Dobbiamo investire in tecnologie che possiamo produrre, controllare e sviluppare internamente, creando filiere industriali interamente europee. In questo contesto, la fusione nucleare rappresenta un’opportunità cruciale: è pulita, continua, programmabile, non soggetta a volatilità di mercato, e soprattutto libera da vincoli tecnologici e strategici esterni. È un asset di lungo periodo che può rafforzare la nostra autonomia e contribuire alla costruzione di un sistema energetico resiliente.

Serve una cornice normativa e finanziaria chiara e stabile, capace di attrarre capitali verso le tecnologie strategiche senza creare disincentivi o incertezza: le imprese e i territori devono poter contare su orizzonti prevedibili, altrimenti nessuna transizione sarà davvero realizzabile. La transizione non può più essere gestita solo come un obbligo ambientale: deve diventare una leva di autonomia, sviluppo industriale e coesione sociale; in questo senso, energia e politica industriale devono tornare a camminare insieme, solo così costruiremo un futuro all’altezza delle sfide che ci attendono.

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Molti Paesi stanno accelerando sulla transizione energetica, ma le infrastrutture restano spesso inadeguate. Quali investimenti o riforme strutturali ritiene più urgenti per supportare il percorso verso un mix energetico più pulito?

La transizione energetica non può essere costruita su fondamenta obsolete. Abbiamo bisogno di una nuova infrastruttura dell’energia, progettata fin dall’origine per rispondere alle esigenze di un sistema complesso, interconnesso e distribuito: capace di bilanciare domanda e offerta in tempo reale, integrare fonti diverse e abilitare modelli di consumo più dinamici e partecipativi. In questo contesto, lo sviluppo di reti intelligenti – le cosiddette smart grid – rappresenta un elemento chiave: infrastrutture digitali avanzate che permettono di gestire in modo flessibile e reattivo i flussi energetici, ottimizzando la distribuzione, riducendo le perdite e valorizzando anche la generazione distribuita, l’accumulo e l’autoconsumo.

Nel campo dell’energia nucleare, la realizzazione di una first-of-a-kind da 1 GW elettrico – un impianto industriale in grado di produrre energia pulita, continua e programmabile – richiede un

investimento stimato tra i 15 e i 18 miliardi di euro. Un impegno significativo, certo, ma assolutamente sostenibile se inserito in una strategia industriale condivisa a livello europeo.

Per comprendere la portata dell’investimento, basta guardare ad altri ambiti in cui l’Europa e il mondo hanno allocato risorse pubbliche su larga scala: oltre 220 miliardi di dollari per i Mondiali di calcio in Qatar, durati un mese; più di 318 miliardi (in valori attualizzati) per il programma Apollo che ha portato l’uomo sulla Luna; circa 2 trilioni di dollari per il programma F-35, cardine della strategia militare occidentale.

Ogni scelta riflette una priorità. Come l’esplorazione spaziale o la difesa collettiva, anche la costruzione di un’infrastruttura energetica fondata sulla fusione è un atto strategico: significa rafforzare la sovranità economica e politica dell’Europa, costruire sicurezza e stabilità durature, e porre le basi per una sostenibilità reale e intergenerazionale.

L’Unione ha annunciato un piano da 800 miliardi per la difesa. Ma senza autonomia energetica, ogni strategia rischia di poggiare su fondamenta fragili. L’energia è – e resterà – la prima linea di difesa.

La dipendenza dalle importazioni energetiche è tornata centrale nel dibattito europeo. Quali strategie possono ridurre la vulnerabilità dell’Europa senza rallentare gli obiettivi di decarbonizzazione?

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La dipendenza energetica non è solo una questione economica. È una questione di sovranità. E oggi più che mai, la sovranità energetica è anche sovranità politica. Ridurre la vulnerabilità dell’Europa significa costruire un’autonomia industriale in grado di coprire tutte le fasi della catena del valore: dalla ricerca alle materie prime, dalla produzione alla gestione delle infrastrutture. Serve una strategia capace di coniugare decarbonizzazione e indipendenza, sostenibilità ambientale e sicurezza geopolitica.

E qui entra in gioco la fusione.

A differenza delle fonti rinnovabili oggi più diffuse e centrali nel processo di transizione – come il solare o l’eolico – la fusione non dipende dal vento o dal sole, non è intermittente, né imprevedibile. È una fonte continua, stabile, programmabile. Non richiede sistemi di accumulo o supporti basati su combustibili fossili: produce energia in modo costante, quando serve e dove serve. E a differenza della fissione, non produce scorie radioattive a lunga durata, non utilizza uranio1 — risorsa, come specificato prima, proveniente da regioni geopoliticamente instabili — e non comporta il rischio di reazioni a catena. È una tecnologia pulita, sicura, programmabile e si basa su combustibili praticamente inesauribili, come il deuterio, estraibile dall’acqua, e il litio, abbondante sulla Terra.

Le tecnologie rinnovabili crescono rapidamente, ma non sono esenti da limiti, a partire dall’intermittenza. Come possiamo garantire stabilità alla rete elettrica in un sistema sempre più dominato da fonti non programmabili?

La stabilità non è un effetto collaterale del sistema: è una condizione necessaria per farlo funzionare.

In un mix dominato da fonti intermittenti, come solare ed eolico, il ruolo delle tecnologie programmabili diventa decisivo. È necessario disporre di fonti in grado di fornire carico di base alla

rete; oggi ci affidiamo a impianti a gas per garantire continuità, ma questo modello non è sostenibile nel lungo periodo, né sul piano climatico né su quello dei costi. Serve una nuova generazione di fonti “di base”: capaci di funzionare in modo continuo, prevedibile, flessibile.

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Negli ultimi mesi si è parlato molto del ruolo dell’idrogeno come vettore energetico. Quanto può incidere realmente nel breve-medio termine e quali ostacoli devono essere superati per renderlo competitivo?

L’idrogeno rappresenta un tassello importante della transizione energetica, soprattutto nei settori industriali hard-to-abate e nella mobilità pesante. Tuttavia, per poterne esprimere appieno il potenziale su larga scala, è necessario superare una serie di barriere: l’elevato costo dell’idrogeno verde, la mancanza di infrastrutture dedicate, la bassa efficienza dei processi di conversione e la frammentazione normativa a livello europeo. Nel breve-medio termine, l’idrogeno potrà incidere laddove esistano condizioni favorevoli: accesso a energia elettrica rinnovabile a basso costo, presenza di distretti industriali energivori e meccanismi di supporto pubblico ben strutturati.

Ma affinché diventi una soluzione competitiva e diffusa, va inserito in una strategia energetica più ampia e integrata. Non possiamo permetterci approcci frammentari o soluzioni isolate. Scommettere sulla fusione non significa contrapporsi alle rinnovabili o all’idrogeno, ma integrarli in una visione sistemica, fondata su diversificazione e complementarietà. Fonti come il solare e l’eolico sono centrali nella transizione ecologica, ma presentano limiti strutturali legati all’intermittenza e alla dipendenza dalle condizioni atmosferiche; la fusione nucleare si distingue per la sua capacità di garantire una produzione continua, stabile e programmabile. Questo significa poter generare energia in modo costante, senza necessità di sistemi di accumulo o di supporto basati su combustibili fossili.

Inoltre, l’elettrolisi dell’acqua – processo alla base della produzione di idrogeno verde – è altamente energivora. In futuro, anche la fusione nucleare potrà fornire l’energia pulita e abbondante necessaria per produrre idrogeno in modo sostenibile su scala industriale, rafforzando così l’integrazione tra tecnologie e settori.

Un ulteriore vantaggio è rappresentato dall’assenza di emissioni dirette di CO₂ e dal fatto che la fusione non produce scorie radioattive a lunga durata. Per queste ragioni, si profila come una tecnologia abilitante per quei Paesi e sistemi regionali che puntano a una leadership nel nuovo paradigma energetico globale. È questa l’energia che serve all’Europa per costruire un sistema resiliente, autonomo e capace di rispondere alle sfide del nostro tempo.

La transizione energetica richiede enormi capitali e una governance stabile. Come possono pubblico e privato collaborare meglio per accelerare lo sviluppo di nuove infrastrutture e tecnologie?

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Per accelerare la transizione energetica non bastano tecnologie all’avanguardia: serve una visione chiara, un modello di governance credibile e una capacità esecutiva all’altezza delle sfide globali.

Oggi, la principale barriera non è tecnologica. La fisica è sostanzialmente compresa, le soluzioni ingegneristiche sono alla portata e le imprese sono pronte. Quello che manca è una regia strategica che consenta di passare dalla logica di laboratorio a una vera strategia industriale; la

frammentazione delle iniziative, la lentezza degli iter autorizzativi e l’assenza di una visione condivisa rallentano il passaggio dalla ricerca alla costruzione di impianti su scala.

Eppure, modelli virtuosi esistono. L’esperienza dell’Eurofighter – sviluppato attraverso la cooperazione tra più Paesi europei – dimostra che, quando esiste una roadmap comune e una governance determinata, l’Europa è in grado di realizzare infrastrutture complesse su scala continentale. Oggi abbiamo bisogno della stessa ambizione per l’energia: pochi Paesi uniti da una visione strategica, investimenti pubblici iniziali per attrarre capitali privati, e un piano operativo per trasformare la ricerca in industria.

A livello internazionale, la competizione è già aperta. La Cina ha avviato la costruzione del suo primo impianto commerciale a fusione, con 1,5 miliardi di dollari investiti ogni anno per spingere la fase industriale. Gli Stati Uniti puntano su una strategia di “energy dominance” fondata su un forte coinvolgimento del capitale privato: oltre 8 miliardi di dollari investiti in equity nelle imprese della fusione, con oltre il 75% delle risorse globali concentrate su aziende americane. Tuttavia, anche lì emergono segnali di instabilità: il taglio di 3,7 miliardi ai progetti di energia pulita, la volatilità generata dal “ciclone Musk” e la concentrazione su pochi attori rischiano di compromettere la coerenza di lungo termine.

In questo contesto, l’Europa ha un’occasione storica. Può costruire un modello alternativo: più cooperativo, più solido, più sostenibile. Un sistema in cui pubblico e privato lavorino insieme, con ruoli distinti ma sinergici, per portare la fusione dalla teoria alla realtà. Un modello che dia certezza agli investitori, stabilità agli operatori e prospettiva industriale a tutta la filiera.

La Germania ha già lanciato un messaggio chiaro: costruire la prima centrale industriale a fusione al mondo è una priorità nazionale. E l’Italia? Come ha sintetizzato il direttore di AIEA Rafael Mariano Grossi, l’Italia resta il più nucleare tra i paesi non nucleari. Il Bel Paese ha competenze scientifiche, imprese avanzate e alleanze industriali già attive. Manca però una visione condivisa e una strategia coordinata all’interno dello scacchiere europeo che trasformi queste risorse in una vera leadership.

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Noi di Gauss Fusion stiamo già implementando un piano di sviluppo industriale in Italia, anche grazie al grande supporto della famiglia Malacalza che, attraverso ASG Superconductors tramite Hofima, rappresenta uno dei pilastri tecnologici e imprenditoriali della nostra iniziativa paneuropea.

Negli ultimi decenni si è spesso parlato del nucleare – e oggi della fusione – come soluzione definitiva alla crescente domanda di elettricità. Cosa serve davvero perché questa tecnologia diventi una fonte affidabile e scalabile? E quali condizioni (politiche, industriali e sociali) devono realizzarsi perché l’energia da fusione entri stabilmente nel mix energetico globale?

Ora la vera sfida non è più dimostrarne la fattibilità scientifica – quella è stata sostanzialmente superata – ma riuscire a realizzarla concretamente: è, prima di tutto, una sfida ingegneristica. Si tratta di trasformare ciò che si conosce dal punto di vista teorico in hardware funzionante, puntando su manufacturability e maintainability come requisiti fondamentali per poter scalare.

Perché la fusione diventi una reale opzione energetica globale, servono scelte politiche concrete, una visione industriale lungimirante e un ecosistema normativo capace di accompagnarne lo sviluppo, non di rallentarlo.

Il primo nodo è regolatorio. Serve un quadro fit for purpose, pensato per le caratteristiche specifiche della fusione. Non si può semplicemente applicare lo stesso impianto normativo della fissione: si

tratta di tecnologie profondamente diverse, con profili di rischio e impatti ambientali non comparabili. La fusione è intrinsecamente sicura: non prevede reazioni a catena, si spegne automaticamente in caso di anomalia, non produce scorie radioattive a lunga durata e utilizza materiali che — pur attivabili — hanno una radioattività molto inferiore a quella dell’uranio. Una regolamentazione efficace dovrà riconoscere queste differenze, per favorire lo sviluppo sicuro e rapido della tecnologia.

In parallelo, va costruito un contesto industriale che renda possibile il passaggio alla fase operativa. E per farlo servono partnership pubblico-private, una governance coesa, una filiera continentale, e una visione europea della sovranità energetica: se vogliamo che la fusione entri davvero nel mix energetico globale, dobbiamo trasformarla da progetto sperimentale a pilastro strategico.

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Infine, serve un consenso sociale solido, costruito su basi scientifiche, trasparenza e responsabilità. La fusione è un’opportunità intergenerazionale: per la sostenibilità ambientale, per la competitività industriale, per l’autonomia geopolitica, ma come ogni grande transizione, ha bisogno di fiducia e di decisioni. Se vogliamo che l’Europa guidi il cambiamento, il momento di agire è ora.



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