“Trimestrali da brivido” è il titolo della newsletter de Il Sole 24 Ore del primo agosto, con la sintesi dei risultati del secondo trimestre (1 aprile-30 giugno) di Apple e Amazon, presentati come di consueto il giorno prima dopo la chiusura delle grandi Borse statunitensi NYSE e Nasdaq.
Il boom AI nelle trimestrali Big Tech: risultati sopra le attese
Due giorni prima, il 30 luglio, era stata la volta di Microsoft e Meta. Il 23 luglio era stata Alphabet-Google la prima delle cosiddette “Big Five” a presentare i suoi risultati e ad anticipare – come guida per gli azionisti – le sue aspettative sull’andamento futuro, a partire da quelle sul terzo trimestre in corso.
“Trimestrali da brivido” è un titolo che riflette l’andamento trimestrale di tutte le 5 “Big”, con dati su ricavi e utile netto tutti in crescita rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e tutti superiori – talora largamente superiori – alle previsioni degli analisti (Tab. 1).
Trimestrali Big Tech: divergenze strategiche e rischi normativi
Con differenze significative fra loro, però, nelle aspettative:
- sulle possibili conseguenze delle “tariffs” trumpiane e del clima di caos e profonda incertezza da esse generato, particolarmente rilevante per Apple e Amazon;
- sulla capacità di generare visibili ritorni dalle enormi cifre messe in gioco per finanziare le infrastrutture e le attività in generale legate all’intelligenza artificiale generativa [AI], molto rilevante per quattro di esse (Fig. 1);
- sui possibili sconvolgimenti generati dall’attesa espansione dell’AI, quali la probabile decrescente rilevanza del “search” nel suo formato attuale e il suo impatto sull’advertising del leader assoluto Alphabet-Google;
- sull’andamento delle cause antitrust in corso e sull’atteggiamento in merito della presidenza Trump: le prime ad arrivare a sentenza le tre concernenti Alphabet-Google, che potrebbero portare a scorpori di alcune sue parti e che – vietando come probabile a Google di rimanere il motore di ricerca “by default” dell’iPhone a fronte di un consistente pagamento forfettario annuo – potrebbero danneggiare Apple, che trae da tale accordo ben un quinto del suo utile.
“Wall Street sembra finalmente accettare gli enormi investimenti nell’AI delle Big Tech – 400 miliardi di $ quest’anno – e premia Microsoft e Meta che mostrano i primi risultati di tali investimenti” (The Wall Street Journal)
Due delle Big Five escono vincitrici in Borsa dalla presentazioni delle trimestrali, spiega The Wall Street Journal [WSJ] nel suo articolo “Big Tech’s $400 Billion AI Spending Spree Just Got Wall Street’s Blessing – Microsoft joins Nvidia in $4 trillion market-cap club; Meta gets close to joining Google and Amazon in $2 trillion club”, 31 luglio,
- Microsoft, che raggiunge Nvidia (Fig. 2) nel club delle imprese con oltre 4 trilioni di capitalizzazione, distanziando di quasi un trilione Apple che a lungo aveva dominato la classifica;
- Meta, che si avvicina alla soglia di 2 trilioni, al di sopra delle quale sono collocate Amazon e Alphabet-Google.
La ragione secondo WSJ: gli investitori, preoccupati per gli enormi e crescenti investimenti nell’AI (Fig. 1), quasi 100 miliardi di $ nel trimestre da parte di 4 delle Big Five, cominciano a vederne i primi ritorni. I ricavi nel trimestre della divisione “cloud computing” di Microsoft – 46,7 miliardi di $ (+26,6% rispetto a quelli del II trimestre 2024) – rappresentano ormai oltre il 60 per cento dei ricavi totali.
Ma sono soprattutto nell’ambito del cloud i risultati della divisione Azure (per la prima volta resi noti), la più sensibile alla penetrazione dell’AI, che hanno colpito: 75 miliardi di ricavi nell’anno fiscale “2025” chiuso a fine giugno, con un incremento del 34% rispetto al precedente anno fiscale “2024”. E per Meta, che non vende servizi di cloud computing, ha giocato la spiegazione data da Mark Zuckerberg del corposo +36% dell’utile netto trimestrale: la messa a disposizione dei clienti del suo advertising di una serie di strumenti ad hoc basati sull’AI che rendono più facile e diretta la predisposizione degli “ad” (avvisi pubblicitari).
Trimestrali BIg Tech: il punto di vista critico del Financial Times
“I risultati stellari di Microsoft, Meta e Alphabet-Google non possono essere attribuiti alla reale utilità dell’AI generativa” (Richard Waters, Financial Times)
Una voce dissonante quella di Richard Waters, il ben noto “west coast editor” di FT a capo del team che segue le Big Tech, in “Big Tech’s AI spend is still a shot in the dark – Stellar results from Alphabet, Microsoft and Meta cannot yet be attributed to the technology’s usefulness” (FT, 1 agosto). Una voce dissonante sulla significatività dei risultati delle ultime trimestrali come indicativa della reale utilità della AI generativa per le prestazioni che essa offre oggi.
L’incremento del 34 per cento nei ricavi di Azure, nella sua visione, è da attribuire più al crescente ricorso al cloud computing da parte del mondo delle imprese che non all’adozione generalizzata da parte loro dell’AI generativa. E per quanto concerne gli strumenti basati sull’AI messi a disposizione dei clienti da parte di Meta, Richard Waters sostiene che essi sono il frutto di una attività di ricerca antecedente il lancio dell’AI nella sua versione “generativa” (è forse opportuno ricordare che la nascita dell’AI risale alla metà del secolo scorso, circa in parallelo con quella dei grandi calcolatori, e che l’AI ha fatto continui progressi da allora, avvalendosi in larga misura della impressionante crescita della potenza di calcolo).
La strategia adottata dalle Big Tech di incrementare continuamente gli investimenti nell’AI generativa appare quindi, sempre a suo parere, come “uno sparo nel buio”, come “un tiro alla cieca” dal destino fortemente incerto: con la possibilità per giunta, se i ritorni tarderanno ad apparire, che nei prossimi 2-3 anni – con la crescita degli ammortamenti – anche l’utile netto di alcune di esse inizi a essere eroso.
La dimensione finanziaria del boom AI
“Chi pagherà il conto per gli enormi e crescenti investimenti nelle infrastrutture AI? Una rivoluzione tecnologica ne comporta anche una finanziaria” (The Economist)
Se Richard Waters mette in dubbio l’interpretazione da parte del mercato finanziario delle “trimestrali da brivido” e la conseguente accettazione da parte del mercato stesso (nella interpretazione di WSJ) degli enormi e crescenti investimenti in infrastrutture per l’AI, The Economist – nel suo articolo del 31 luglio “Who will pay for the trillion-dollar AI boom? A technological revolution meets a financial one” – guarda un po’ più lontano, agli investimenti previsti nel prossimo triennio-quinquennio, in particolare di quelli delle Big Tech più coinvolte (Alphabet-Google, Amazon, Meta e Microsoft cui aggiunge Oracle), per sottolineare
- lo stravolgimento che gli investimenti stessi stanno già provocando e provocheranno sempre più nel loro stato patrimoniale, accrescendo il peso – tradizionalmente basso – degli “hard asset” (data center, eventuali centrali per la copertura degli enormi bisogni di energia elettrica, proprietà delle aree in cui sono collocati/e);
- la decrescente capacità di finanziare gli investimenti stessi con il cashflow, o almeno – nel breve termine – la continua erosione della quota del cashflow destinabile alla remunerazione degli azionisti (distribuzione dei dividendi e/o buyback di azioni proprie);
- specularmente, la crescente necessità di finanziare gli investimenti stessi con il debito, ricorrendo al risparmio privato;
- l’impatto di tutto questo sul sistema finanziario, date le elevatissime capitalizzazioni delle imprese coinvolte e data la rilevanza degli investimenti sulla crescita del PIL statunitense: Carlyle, “investment firm” molto nota, ritiene che essi siano responsabili di ben un terzo di tale crescita nel trimestre in oggetto.
Qualche numero interessante che appare nell’articolo e illustra meglio i punti appena visti:
- la somma cumulata sino alla fine del 2028 degli investimenti in AI – quest’anno come detto dell’ordine dei 400 miliardi di $ – sarà pari secondo Morgan Stanley a 2,9 trilioni di $ e quella sino alla fine del 2030 raggiungerà addirittura secondo McKinsey i 6,7 trilioni (tutte cifre da considerare con beneficio di inventario data la fortissima variabilità dell’attuale contesto);
- le spese in conto capitale [“capex”] cumulate delle 5 Big Tech sopra citate risultano quest’anno superiori alla somma di quelle di tutte le imprese industriali statunitensi quotate;
- restringendo l’attenzione ad Alphabet, Meta e Microsoft e confrontando la struttura del loro stato patrimoniale cumulato con quella di 10 anni fa, si vede che il peso degli “hard assets” è passato dal 20 al 60%: “Big Tech are combining Silicon Valley returns with Ruhr Valley balance-sheets”, commenta scherzosamente The Economist, con riferimento all’importanza degli “hard assets” nelle imprese tedesche più votate al manufacturing che ai servizi;
- i capex corrono più velocemente dei cashflow, con Morgan Stanley che stima in 1,5 trilioni di dollari il ““financing gap” che si verrà a creare fra le due voci nei prossimi tre anni: un gap ovviamente più alto, sino a “consumare” tutto il cashflow, in presenza di una accelerazione degli investimenti, ma più alto anche “ceteris paribus” se una adozione più lenta dell’AI da parte delle imprese impatterà negativamente sul cahflow.
In sintesi il boom degli investimenti in AI
- sta accrescendo il ruolo dei “debt markets” rispetto a quello degli “stockmarkets”, e
- sta spostando il rischio in larga misura dagli investitori azionari, che meglio potrebbero sopportare un eventuale crash, alle banche e alle assicurazioni, che viceversa – attribuendo a tali prestiti un rating molto elevato – lo soffrirebbero in misura assai più rilevante.
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