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La rivista il Mulino: Immigrazione, una risposta politica


Quasi il 70% delle imprese italiane che manifesta un fabbisogno di personale dichiara di riscontrare “difficoltà di reperimento”. A dirlo (anzi, a confermarlo di anno in anno) è Confindustria nell’indagine annuale sul lavoro dell’agosto 2024: “La quota di imprese che dichiarano difficoltà è più elevata nell’industria (73,5%) che nei servizi (65,0%) e cresce con la dimensione aziendale, dal 64,8% nelle imprese piccole, al 72,8% in quelle medie e al 77,6% nelle grandi. Le maggiori problematiche emergono per le competenze tecniche (segnalate dal 69,2% delle imprese con difficoltà di reperimento) e per quelle manuali (47,2%)”.

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Il tema immigrazione – al centro del dibattito pubblico italiano ed europeo, motore di successi e insuccessi elettorali, bandiera ideologica e identitaria, luogo di scontro tra destra e sinistra, palestra di opposti estremismi tra chi pratica l’idea del respingimento a oltranza e chi postula un’impopolare e complicata politica dell’accoglienza ab aeternum – richiederebbe di essere trattato dalla politica non già come agone di scontro, ma mettendo in campo cultura giuridica, conoscenza dei fatti e capacità di visione.

Il segnale del referendum. La lettura complessa del fenomeno è sostanzialmente estranea al dibattito pubblico. Nell’immaginario collettivo appare largamente maggioritaria l’idea della perfetta identità tra immigrazione, clandestini, sbarchi, insicurezza. Non si vede una narrazione politica capace di far passare con forza il concetto che il Paese ha un bisogno estremo di immigrazione legale e programmata. Tutto questo resta materia riservata di studi e analisi accademiche. E invece è urgente rovesciare questa identità puramente immaginaria e riportare il dibattito pubblico sul tema alla sua vera dimensione.

Compito non facile ove si rifletta sui risultati del referendum di giugno sulla cittadinanza agli immigrati residenti in Italia. Come noto, solo il 30% degli aventi diritto si è recato alle urne; e però, mentre quasi il 90% dei votanti si è espresso a favore dei quattro referendum sul lavoro, il consenso sul referendum sulla cittadinanza agli stranieri si è fermato al 65%. Posto che i cinque quesiti hanno mobilitato in larghissima misura il solo elettorato di centrosinistra, la vera notizia uscita dai referendum è che, per dirla con una battuta, anche “molti compagni della Cgil” hanno evidentemente un problema col tema della cittadinanza agli immigrati residenti.

All’esito appena descritto difficile resistere alla tentazione di richiamare alla mente le parole del sociologo Franco Cassano nel suo pamphlet L’umiltà del male (Laterza, 2011) dedicato alla grandiosa parabola dostoevskiana del Grande inquisitore: “Senza un’élite competente e coraggiosa la politica muore. Ma questa spinta morale deve sapersi confrontare con la maggioranza degli uomini, misurarsi con la loro imperfezione, deve diventare politica”.

Se l’immigrazione rappresenta una grande questione politica, la politica ha il dovere di affrontarla e governarla con risposte politiche e facendosi carico delle opinioni e delle paure degli elettori

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Per il centrosinistra quel risultato referendario è la fine di un alibi. Se l’immigrazione rappresenta una grande questione politica, la politica ha il dovere di affrontarla e governarla con risposte politiche, il che significa anche farsi carico delle opinioni della maggioranza degli elettori, anche delle loro imperfezioni, comprese le loro paure.

La paura dello sconosciuto, della persona diversa da sé, è antica come l’umanità. Va compresa, va interpretata, non va semplicemente snobbata con un’alzata di spalle o, peggio, liquidata come sintomo di ignoranza o razzismo. E nemmeno si può opporre alla paura la sola risposta illuministica dei dati e delle cifre. Se quella paura fosse anche solo frutto di un errore e di una percezione sbagliata, si dovrebbe lavorare anche su quell’errore e su quella percezione. Secondo i dati dello speciale Eurobarometro sull’immigrazione uscito nel giugno 2022, quasi sette europei su dieci (68%) sovrastimano la quota reale di immigrati nella popolazione e solo un cittadino su cinque (19%) indovina la percentuale di immigrati presenti nel proprio Paese. In Italia solo un cittadino su quattro stima correttamente la quota reale di immigrati non-Ue e il 53% ritiene l’integrazione un sostanziale insuccesso (contro il 47% del dato Ue).

Sia chiaro: l’accoglienza di migliaia di persone disperate dagli altri continenti, spesso in fuga da torture e persecuzioni, rappresenta una grande questione etica e umanitaria, e quindi è giusto difendere il lavoro prezioso di associazioni e ong da chi tenta di ostacolarle o delegittimarle. Così come vanno salvaguardati principi e valori di uguaglianza e tolleranza che sono fondamento delle nostre democrazie. Ma la risposta della classe politica non può limitarsi a questo o, peggio, alla tentazione di costituirsi in tifoseria di magistrati e ong. Se non si affrontano anche paura e disagio, l’elettore cercherà sempre di più la risposta forte della chiusura, per così dire il “modello Albania”, rivelatosi peraltro costosissimo e non esattamente un esempio di geometrica efficienza.

Quindi, che cosa fare? Ecco cinque banali indicazioni di metodo che richiedono un vero e proprio cambio di prospettiva e che, al tempo stesso, devono corrispondere ad altrettanti es muss sein per il centrodestra, che va stanato dalla propria comfort zone identitaria e costretto a fare i conti con la realtà.

Primo. L’immigrazione va governata non perché costituisca un’emergenza, ma perché rappresenti una risorsa.

Secondo. Governarla significa favorire l’immigrazione legale attraverso una cornice di regole (il decreto flussi) da riformare con urgenza.

Terzo. Serve un frame discorsivo e comunicativo differente per evitare di schiacciare il fenomeno su una prospettiva emergenziale (gli sbarchi) e di mero ordine pubblico.

Quarto. Va sottolineato che l’apporto degli stranieri immigrati sarà sempre più essenziale alla sostenibilità del nostro Welfare.

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Quinto. Occorre valorizzare le esperienze concrete di integrazione dimostrandone l’utilità sociale e l’apporto fondamentale alla nostra economia.

Proveremo di seguito a dare contenuto e sostanza a queste indicazioni partendo da cifre, numeri e documenti e suggerendo l’esigenza di una lettura coordinata e organica di due fenomeni strettamente intrecciati: la crisi demografica e il fabbisogno di capitale umano in età di lavoro.

L’Istat stima che la popolazione italiana calerà da 59 a 54 milioni nel prossimo quarto di secolo e ancora fino a 47,7 nel 2070. Il problema – come legioni di economisti e demografi si affaticano inutilmente a dire da tempo – non è lo spopolamento in quanto tale, ma il sovvertimento del rapporto tra popolazione complessiva e popolazione in età di lavoro. Solo la stabilità di questo rapporto tiene infatti in equilibrio i conti pubblici e permette la sostenibilità del Welfare.

Trent’anni fa, sempre secondo le sequenze storiche dell’Istat, il rapporto tra under 15 e over 65 in Italia era di 1/1. Oggi abbiamo due over 65 per ogni under 15. In altri termini, l’effetto combinato di calo delle nascite e aumento della speranza di vita ha raddoppiato in soli tre decenni il peso sociale ed economico che grava sulle giovani generazioni, per il sostentamento di quelle in età da pensione.

Nella prefazione al numero monografico della rivista “Sinappsi” del 2025, dal titolo Il cambiamento demografico nella realtà italiana: prospettive, cause e conseguenze, si legge: «Non è più il tempo delle diagnosi. Dopo decenni di latitanza di fronte all’inarrestabile avanzare di quello che è di moda chiamare “inverno demografico”, è tempo di agire». E Alessandro Rosina, ordinario di Demografia alla Cattolica di Milano, ricorda spesso che l’Italia è tra i Paesi che più velocemente si muove nella direzione di uno scenario di maggior invecchiamento e indebolimento della forza lavoro potenziale. Si tratta d’altra parte di dati del tutto familiari ai lettori del “Mulino”, che ha dedicato all’argomento il numero monografico 4/2024.

Favorire l’immigrazione regolare: far funzionare il decreto flussi. Per rovesciare le dinamiche dell’inverno demografico e, soprattutto, per correggere lo squilibrio tra popolazione complessiva e popolazione in età lavorativa, è necessario innestare nel corpo vivo del Paese capitale umano in età da lavoro. Siamo un Paese che decresce dal punto di vista demografico, invecchia velocemente e il cui Welfare rischia letteralmente di saltare in aria. È un tema cruciale di cui la politica parla poco e male. La prima reazione sarebbe quella di rivedere la cornice normativa del meccanismo dei flussi di immigrazione legale, correggendo ciò che l’esperienza di questi anni suggerisce.

I dati e le analisi fin qui richiamati documentano che, per mantenere stabile la popolazione italiana al livello del 2023, compensando lo squilibrio tra natalità e mortalità e coprendo la perdita derivante dall’incessante dinamica migratoria di giovani italiani verso l’estero (secondo l’Istat, stabilmente attestata oltre 140 mila unità all’anno per tutto il prossimo decennio), l’Italia dovrebbe ammettere nei prossimi venticinque anni un flusso regolare e disciplinato di immigrati dell’ordine di 400-500 mila all’anno.

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Nel sito dell’Osservatorio Cpi – Conti pubblici italiani del 13 giugno 2025, sotto un titolo autoesplicativo (Di quanti immigrati ha bisogno l’Italia?), Giampaolo Galli, economista e accademico di lungo corso, assieme a due giovani ricercatori della Cattolica di Milano, Nicolò Geraci e Francesco Scinetti, ricorda che a fronte di un fabbisogno di questa dimensione, il decreto flussi 2023 prevede il rilascio di circa 150 mila permessi l’anno, appena un terzo di quanto servirebbe.

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Le ragioni del sostanziale fallimento del decreto flussi – relegato fino al 2023 a una sistematica gestione straordinaria ed emergenziale, e mai di fatto decollato (neanche dopo il primo piano triennale a opera dell’attuale governo) quale reale ed efficace strumento di programmazione in ambito economico e lavoristico – sono di natura essenzialmente politica. In altri termini, il fenomeno degli sbarchi e dell’immigrazione illegale ha di fatto nascosto il problema, cioè l’esigenza strategica per il nostro Paese di dotarsi di una regolamentazione e di una disciplina dell’immigrazione legale capace di corrispondere alle effettive esigenze del mercato del lavoro (quindi selettiva) e alla domanda che proviene da tantissime aziende e realtà produttive.

Il paradosso di questo sostanziale fallimento è che, a partire dal 2011, al crescere dei numeri dell’immigrazione illegale ha corrisposto un calo dei permessi di lavoro concessi attraverso il decreto flussi. Come documentato da Luca Brugnara (Osservatorio Cpi – Conti pubblici italiani, 1° aprile 2022), “il calo pronunciato delle nuove emissioni dei permessi di lavoro registrato in Italia nel decennio 2011-2020 ha pochi riscontri negli altri paesi dell’Unione europea”. Ricordato che nel 2011 il numero di permessi lavorativi rilasciati collocava l’Italia molto al di sopra del valore medio europeo, Brugnara osserva che “nell’arco di un decennio, la situazione si è capovolta […]. Nel 2020 l’Italia è stato il penultimo Paese Ue per numero di permessi rilasciati”.

Dunque, il primo obiettivo di una politica per l’immigrazione che voglia trasformare il fenomeno in una opportunità è quello di riformare il decreto flussi, sottrarlo definitivamente alla logica emergenziale e farne uno strumento di reale programmazione nell’interesse del Paese e delle molteplici necessità del suo mercato del lavoro. Agire velocemente ed efficacemente in questa direzione aiuterebbe in prospettiva a invertire lo squilibrio tra popolazione totale e popolazione attiva; a rimettere in asse i conti della spesa previdenziale; ad arrestare il declino demografico; ad ampliare la base imponibile; conseguentemente a sostenere il Welfare.

Non è ciò che accade. Il nuovo decreto flussi, approvato in Consiglio dei ministri il 30 giugno scorso, pur contenendo alcune novità interessanti (l’aumento del 10% dei permessi previsti rispetto al triennio scorso, il varo – una conferma – del documento di programmazione triennale, la manifestata intenzione di rivedere il meccanismo del click-day), presenta ancora tutti gli elementi che rendono inadeguato lo strumento: la previsione di circa 160 mila lavoratori l’anno non copre nemmeno un terzo del reale fabbisogno stimato; la fissazione delle quote non è accompagnata da idonee garanzie in ordine all’effettivo snellimento delle procedure burocratiche che ne hanno finora ostacolato l’attuazione (si consideri al riguardo che, nel 2023, solo il 23,52% delle quote si è trasformato in permessi di soggiorno e impieghi stabili e regolari); è ancora insoddisfacente il coinvolgimento delle associazioni datoriali; manca un elemento di programmazione del fabbisogno su base regionale.

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Insomma, investire sui migranti può diventare un’assicurazione sul futuro di tutti noi.



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