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Trump: l’estate dello scontento? | ISPI


A sei mesi dall’inizio della sua seconda presidenza, Trump sta ottenendo esattamente ciò che vuole su molti fronti. Sta scardinando il sistema globale di libero scambio, stringendo accordi commerciali che validano la sua tecnica di bullizzare gli interlocutori e ha strappato promesse di un enorme aumento della spesa militare ai membri della NATO. Allo stesso modo, dentro gli Stati Uniti, il presidente ha costretto il Congresso e le grandi università a sottomettersi. Costretto studi legali privati a svolgere attività pro bono in suo favore e usando il sistema giudiziario come arma contro i suoi nemici. Di fatto ha sigillato il confine meridionale e dichiarato guerra agli immigrati irregolari sui due lati della frontiera. Eppure, sembra lecito chiedersi: quelle che il presidente americano esibisce come “vittorie” lo sono per il popolo americano o per se stesso? Con il passare dei mesi, la guerra a Gaza che doveva risolversi “in 24 ore” si è trasformata in una crisi umanitaria spaventosa e insopportabile agli occhi del mondo. Mentre ogni nuovo ultimatum a Putin sembra più dettato dalla disperazione che da una strategia diplomatica. Sul fronte interno, poi, si fa strada un malcontento strisciante per l’aumento dei prezzi. A tenere insieme tutto è ancora il carisma del leader, ma le crepe iniziano ad allargarsi e il caso Epstein – l’imprenditore amico Trump condannato per abusi sessuali e accusato di traffico di minorenni, morto in carcere sei anni fa – rischia di diventare la falla di troppo.

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Il pantano di Gaza?

La crisi nella Striscia di Gaza è la più spinosa. Il piano per una tregua, avanzato da Washington – e salutato da molti alleati come l’ultimo possibile spiraglio per salvare vite – si è trasformato in un boomerang, principalmente a causa dell’indisponibilità di Netanyahu a mettere la parola ‘fine’ al conflitto. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: le immagini che provengono dalla Striscia mostrano corpi di bambini morti di malnutrizione, madri disperate e una terra devastata. L’ondata di indignazione crescente nell’opinione pubblica internazionale ha costretto i governi europei a misure mai neppure considerate finora: sanzioni a Israele, sospensione degli accordi di partenariato e riconoscimento dello Stato di Palestina sono argomenti all’ordine del giorno in diversi paesi del Vecchio Continente. Per Trump significa non solo ritrovarsi al fianco di Israele quando questo è di fatto isolato sulla scena internazionale, ma anche dover gestire la prima vera fronda interna ai repubblicani. Ieri in un post su X la deputata Marjorie Taylor Greene – trumpiana della prima ora ed esponente di punta dei Maga – è diventata la prima repubblicana al Congresso a definire “genocidio” le azioni di Israele nella Striscia di Gaza, sostenendo che la guerra è politicamente dannosa per il presidente e una macchia morale sulla reputazione del paese. Nel frattempo, sul terreno, il conflitto ha provocato oltre 60 mila morti senza che gli Stati Uniti sembrino più riuscire a orientarne gli sviluppi.

Il (pen)ultimatum a Putin?

L’altro scenario spinoso è in Ucraina, dove Trump aveva promesso di portare pace subito e invece la Russia attacca ancora più di prima. Dopo varie giravolte sul conflitto, e dopo aver concesso a Putin un ultimatum di 50 giorni, Trump ha fatto marcia indietro e i giorni sono diventati “dodici, forse dieci”. Non c’è ragione di aspettare, ha detto il presidente minacciando altrimenti una “risposta americana definitiva”. Il messaggio è stato chiaro, ma anche pericolosamente ambiguo. Trump non ha specificato cosa accadrebbe dopo la scadenza: nuove sanzioni? Invio di armi più pesanti a Kiev? Un intervento diretto? Anche in questo caso, la mossa ha spaccato la coalizione che lo sostiene. I più fedeli a Trump, dentro e fuori dal Congresso, plaudono alla postura muscolare, ma cresce il sospetto che dietro la minaccia non ci siano conseguenze da sfoderare. I diplomatici temono che Mosca colga la debolezza, non la forza, di un ultimatum senza prospettive. E intanto Kiev – che pure aveva accolto con sollievo il ritorno dell’attenzione americana – si interroga sulla reale volontà di Trump di impegnarsi a fondo nella difesa dell’Ucraina.

La guerra dei dazi (non convince più)?

Sul fronte economico, la situazione è tutt’altro che serena. Se è vero che, accettando un accordo su cui diversi leader europei hanno espresso perplessità all’indomani stesso dell’annuncio, Ursula Von der Leyen ha offerto a Trump una vittoria da esibire, lo è anche il fatto che la ‘guerra dei dazi’ può trasformarsi in un boomerang elettorale. Gli effetti dei dazi, infatti, rischiano di riversarsi sull’economia statunitense, aumentando i costi per aziende e consumatori. Questo riduce le risorse da investire in assunzioni, espansione e innovazione, e rallenta la spesa dei consumatori, il vero motore dell’economia. E mentre le grandi corporation si adeguano (spostando la produzione o tagliando costi), i lavoratori cominciano a rumoreggiare. Negli Stati agricoli – parte integrante del bacino elettorale trumpiano – i segnali di malumore si moltiplicano. Non è un caso se alcuni senatori repubblicani abbiano cominciato a smarcarsi, chiedendo “compensazioni fiscali” per le categorie colpite. Trump ha promesso un nuovo pacchetto di aiuti, ma i conti non tornano: con il debito pubblico tornato sopra il 120% del PIL e la Fed in modalità restrittiva, c’è poco margine per manovre espansive. Gli economisti nutrono anche dubbi sul fatto che questi accordi commerciali riusciranno a raggiungere uno degli obiettivi più propagandati da Trump: ridurre il deficit commerciale del Paese, che il presidente brandisce come ‘prova’ del fatto che gli Stati Uniti vengono truffati.

Maga sotto pressione?

Sul fronte interno, il partito repubblicano mostra le prime crepe tra i fedelissimi del trumpismo puro, che iniziano a manifestare primi segni di irrequietezza, e la nuova corrente “neo-conservatrice pragmatica” – guidata da figure come Nikki Haley e Tim Scott – che spinge per un’agenda meno ideologica e più tradizionale. In mezzo, c’è Trump: il tycoon alterna post di fuoco contro i “traditori interni” a manovre confuse per tenere insieme il partito, ma è braccato dai fantasmi del caso Epstein. Una nutrita schiera di repubblicani alla Camera è furibonda perché l’amministrazione non ha ancora desecretato i file relativi all’inchiesta. Quel gruppo di legislatori rappresenta una componente fondamentale della coalizione Trump che ha prevalso l’anno scorso. E il suo dissenso aumenta di giorno in giorno. “Non credo che il caso sparirà dopo agosto. Non si perde la propria base elettorale per una sola ragione – afferma il deputato repubblicano del Kentucky Thomas Massie – Ma [il presidente Donald Trump] la sta erodendo. Se non affrontiamo la questione, ci costerà voti alle elezioni di medio termine”. Il presidente cerca di rilanciare la sua narrazione di forza, ma si ritrova imbrigliato nei fatti: una guerra che non finisce, un nemico (Putin) che non lo teme più, e un’America che inizia a dubitare dei suoi slogan. Il risultato è un calo, lento ma costante, nei sondaggi. E per Trump – che aveva promesso di “prosciugare la palude” – l’estate potrebbe trasformarsi in un banco di prova più insidioso del previsto.

Il commento

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Di Gianluca Pastori, ISPI Senior Associate Research Fellow

“A sei mesi dall’insediamento, il tasso di approvazione di Donald Trump è sceso al 37%, solo di poco superiore al minimo storico del 34%, registrato alla fine del primo mandato. In campo internazionale, la possibilità di una pace a breve termine in Ucraina appare tramontata, così come l’impegno per la composizione della crisi a Gaza; su quello interno, il pugno duro con l’immigrazione e con le università, le continue querelle con le Corti e il riscorso massiccio allo strumento dell’executive order danno l’idea di un rapporto difficile con il carattere plurale della società americana e con i checks and balances che regolano il suo sistema politico. Una nota positiva sembra venire dalle politiche commerciali, che, nonostante i dubbi che le circondano, hanno portato alla firma di diversi accordi senza che – almeno per il momento – si siano manifestati i temuti squilibri sul piano macroeconomico. Anche in questo campo, però le incertezze non mancano e i limiti dei risultati ottenuti potrebbero venire a galla già nei prossimi mesi. Non stupisce, quindi, il malcontento che sembra attraversare da qualche tempo il movimento MAGA, un malcontento, peraltro, prevedibile, date le molte anime di questo e l’impossibilità, per il Presidente, di soddisfare le loro richieste spesso contraddittorie”.



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