In una società che tende sempre più a organizzarsi secondo uno schema di tipo neofeudale, un crescente e diffuso servilismo, cinico e crudele, diventa il più prezioso alleato dei potentati economici al potere.
Francesco Di Gesù, storico artista della scena hip hop italiana degli anni Novanta del secolo scorso, nel suo brano forse più noto – Quelli che benpensano (1997) – coniò una espressione a dir poco icastica: «arroganti coi più deboli, zerbini coi potenti».
C’è da augurarsi allora che il buon Frankie HI-NRG MC, dovesse mai fermarsi a leggere queste righe, perdonerà la semplificazione fatta nel titolo, concentrandosi invece sulle ragioni sostanziose che ne fanno un vero e proprio manifesto politico di una interminabile stagione di ripiegamento e declino sociale.
In ambito lavorativo, la stretta attualità offre una immediata ed emblematica conferma di questa tesi: mentre infatti la Corte costituzionale riconosce l’ennesimo profilo di incostituzionalità del c.d. Jobs Act, frutto tossico dell’aziendalismo imperante, con specifico riferimento al “tetto” di sei mensilità imposto all’indennità risarcitoria per i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese, su cosa si focalizza l’attenzione della maggioranza di governo?
Come è facile intuire, l’agenda del governo del Merito e della Sovranità non mira affatto a rafforzare – in misura anche minima – la protezione sociale dei soggetti che lavorano in condizioni di dipendenza economica e quindi di subordinazione sostanziale.
Attualmente non c’è alcun reale progetto politico in campo per cercare di arginare, in maniera efficace ed effettiva, la tendenza ultradecennale al dilagare del lavoro povero e precario.
Al contrario, in materia, il tema più sconcertante su cui si stanno indirizzando i lavori parlamentari è questo: trovare un sistema per ridurre (ulteriormente) la concreta possibilità dei lavoratori di recuperare quantomeno una parte di quanto hanno perso, nel corso del rapporto di lavoro, a causa di condizioni contrattuali tanto inique, quanto difficili da rifiutare, sotto il giogo strutturale del ricatto occupazionale.
Il tema è stato sollevato, di recente, da una nota dell’Esecutivo di Magistratura democratica che pone l’accento, in particolare, sulla questione retributiva che – per espressa previsione costituzionale – deve assicurare a chi vende il proprio tempo e le proprie energie psicofisiche un corrispettivo che sia in ogni caso sufficiente a garantirgli «un’esistenza libera e dignitosa» (art. 36 Cost.).
Nel merito, in sede di Conversione in legge del decreto-legge 26 giugno 2025, n. 92, recante misure urgenti di sostegno ai comparti produttivi (DDL 1561), nel testo attualmente in discussione in Senato, appare un art. 9-bis così intitolato: «Termini di prescrizione e di decadenza in materia di crediti di lavoro e determinazione giudiziale della retribuzione dei lavoratori».
Come osserva la componente dell’ANM nella nota che stiamo commentando, «la norma proposta determina una compressione molto significativa dei diritti di credito che nascono dalla prestazione di lavoro» e sembra volutamente ignorare il carattere “intrinsecamente diseguale” del rapporto di lavoro, «connotato dal timore dei lavoratori di far valere i loro diritti, a fronte dei poteri datoriali, prima di tutti il potere di licenziare».
In estrema sintesi, la questione è semplice: l’orientamento della Suprema Corte di Cassazione che esclude la prescrizione dei crediti di lavoro, in assenza di ipotesi di reintegrazione in caso di eventuale licenziamento illegittimo, si spiega appunto con l’ovvia constatazione che sarà molto difficile che ci possano essere rivendicazioni di tipo retributivo nel corso di rapporti di lavoro la cui conseguenza potrebbe essere, poi, appunto la perdita definitiva dello stesso posto di lavoro.
In altre parole, per controbilanciare, quantomeno in sede di contenzioso, la posizione di squilibrio strutturale tra la parte forte (il datore di lavoro) e la parte debole (il suo dipendente), i giudici ritengono equo e conforme a Costituzione evitare che i crediti da lavoro possano essere oggetto di prescrizione fin tanto che perduri il rapporto di lavoro.
Per contrastare questo orientamento di tutela basilare della parte debole del rapporto di lavoro, adesso, invece, non solo si propone di far nuovamente decorrere la prescrizione dei crediti da lavoro anche in corso di rapporto, ma con l’ulteriore aggravio di un termine di decadenza di 180 giorni dal momento della rivendicazione stragiudiziale per l’avvio dell’azione processuale.
In sostanza, come opportunamente rileva la nota di MD, «i lavoratori, parti di un rapporto diseguale secondo la nostra Costituzione (e la nuda realtà dei fatti), dovrebbero essere costretti ad agire in giudizio contro il loro datore di lavoro, anche mentre ne sono dipendenti, per di più entro limiti temporali impensabili in qualsiasi altro rapporto connotato da una disparità sostanziale delle parti (basti pensare alla disciplina in tema di diritti dei consumatori)».
Ma l’emendamento che stiamo commentando si spinge molto oltre, cercando addirittura di andare a limitare in concreto l’effettiva possibilità di recupero giudiziale di tutte le differenze retributive maturate (al ribasso), nel corso del rapporto di lavoro, mediante il noto e consolidato meccanismo di applicazione del parametro costituzionale della retribuzione sufficiente ex art. 36 Cost. (il c.d. salario minimo costituzionale).
Un primo scoglio che viene introdotto è quello della possibilità stessa di richiedere l’applicazione del giudizio di adeguatezza in concreto del trattamento retributivo dell CCNL ribassista: tale richiesta sarebbe possibile solo a fronte di una «grave inadeguatezza dello standard stabilito dal contratto collettivo».
In estrema sintesi, la norma prevede che lo standard retributivo definito dal contratto collettivo sia oggetto di una presunzione di adeguatezza, superabile dalla prova contraria, ma con evidente peggioramento della posizione processuale del lavoratore.
Una volta superato questo primo scoglio, però, la rivendicazione delle differenze retributive (e contributive) rimarrebbe in ogni caso circoscritta a quanto richiesto dal momento della rivendicazione e non automaticamente per l’intera durata del rapporto.
Per far comprendere a pieno la gravità di quanto proposto, pare opportuno trascrivere integralmente uno dei passaggi conclusivi dell’intervento dell’associazione dei magistrati: «Libertà e dignità. La retribuzione ha a che fare con questi diritti, che la norma proposta minaccia quindi, gravemente, per di più in un momento in cui il problema salariale appare non più ignorabile nella sua gravità e nella sua, ormai evidente, relazione con un modello di sviluppo e di organizzazione produttiva largamente fondato sullo sfruttamento del lavoro umano».
Va detto, sul punto, che la competizione fatta sulla pelle dei lavoratori, attraverso lo sfruttamento intensivo delle loro energie psicofisiche, mediante contratti precari che accentuano moltissimo il dato strutturale del ricatto occupazionale e con paghe e orari di lavoro che vanno in frequente e palese contrasto col principio costituzionale dell’art. 36 Cost., si struttura come un miscuglio tossico di norme peggiorative delle condizioni di vita e di lavoro, unite a prassi che spostano ancora più in basso l’asticella, portando i livelli di estrazione di valore e i tassi di sfruttamento fino al limite di ciò che può essere umanamente sostenibile.
La punta di diamante di questo modello di sfruttamento intensivo legale, con ampie e vaste zone grigie, è senz’altro la disciplina dello stage.
Il fenomeno degli stage che richiedono vere e proprie mansioni di lavoro subordinato da (almeno) 40 ore settimanali è infatti una delle diverse modalità di realizzazione di rapporti di lavoro parzialmente irregolari (ipotesi di lavoro grigio) e ha dimensioni molto consistenti in Italia, con addirittura 500mila potenziali falsi tirocini su base nazionale, secondo stime sindacali del 2020.
Il fenomeno, in realtà, ha una più ampia dimensione continentale, seppur con le inevitabili varianti tipiche di ciascun contesto, e si sta facendo non poca fatica a mettere in campo una direttiva che possa trovare il giusto equilibrio tra l’avvio di seri ed effettivi percorsi di formazione e la possibilità di svolgere anche mansioni lavorative purché equamente retribuite.
Nondimeno, lo stage non è lavoro in quanto la persona in stage (tirocinante) dovrebbe limitarsi a osservare chi lavora nell’impresa che lo ospita: il lavoratore dipendente è equamente retribuito per svolgere il proprio lavoro, secondo le mansioni prevista dalla contrattazione individuale e collettiva; lo stagista riceve un rimborso spese per il tempo che presta in azienda e per l’apporto che potrà dare all’azienda, al termine del percorso di formazione, quando verrà regolarmente assunto.
Per osservare e apprendere attraverso l’osservazione, ovviamente, non c’è bisogno di prolungati orari di presenza sul luogo di lavoro e ancora meno di prolungati periodi con frequenza quotidiana per (almeno) 8 ore al giorno e 40 ore settimanali, come purtroppo si legge in tantissimi annunci pubblici, anche di aziende in teoria molto attente alle questioni che riguardano i diritti dei lavoratori.
Verosimilmente è lì che si annidano le più o meno vaste zone di irregolarità, con prestazioni di lavoro sottopagate, mascherate da stage, e con tirocinanti che di fatto lavorano alle dipendenze dell’impresa che per legge dovrebbe solo formarli e che ricevono, a titolo di rimborso spese, un compenso largamente inferiore a quello che spetterebbe, a ciascuno di loro, se regolarmente assunti per lo svolgimento delle stesse identiche mansioni formalmente svolte in tirocinio.
Chiaramente, la struttura diseguale del rapporto di lavoro, con le sue dinamiche sostanziali, non è nota solo agli addetti ai lavori e/o a chi ha letto Marx: si tratta di un patrimonio di esperienze condivise da chiunque abbia lavorato e, grazie alla c.d. “buona scuola” renziana, ben note ora anche ai nostri figli e nipoti minorenni che ancora studiano, per il tramite dei percorsi di formazione in azienda introdotti come alternanza scuola lavoro e, poi, stabilizzati come PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento).
Da questo insieme di esperienze emerge allo stesso modo, per via diretta o indiretta, il frequente sopruso che si può realizzare e spesso si realizza come concreto risultato dello squilibrio di potere che stiamo analizzando.
Sul punto, è importante ricordare come nel dibattito politico si sia ampiamente discusso dei rimedi praticabili per porre (quantomeno) un argine concreto ed effettivo alle possibili distorsioni delle c.d. esigenze di flessibilità delle imprese, vero e proprio cavallo di battaglia dell’aziendalismo degli ultimi decenni: di flexicurity e modello danese si è discusso moltissimo quando i danni del precariato esistenziale e del lavoro povero sono emersi con forza, nel nostro Paese, dopo le prime ondate di leggi che avevano depotenziato il sistema di protezione sociale dei lavoratori in quanto contraenti deboli.
In estrema sintesi, anche a voler dar credito alle istanze aziendaliste di mera dinamicità del mercato quale fondamento delle esigenze di strumenti contrattuali molto flessibili per aumentare o ridurre rapidamente il personale dipendente a seconda delle contingenze economiche del momento, nulla vieta al settore pubblico di operare in maniera tale da garantire in ogni caso condizioni di vita e di lavoro dignitose per tutte le persone che devono lavorare per vivere, prevedendo un reddito minimo garantito, un salario minimo legale, norme stringenti su orari, riposo, ferie retribuite e sistemi pubblici di collocamento e formazione per evitare ogni possibilità di ozioso raggiro delle regole di protezione sociale elevata, poste a fondamento di questo nuovo patto sociale.
Tuttavia, sappiamo che quel minimo di inversione di tendenza in materia che si è registrata in Italia, nel quinquennio 2019-2024, a seguito del grande successo politico del M5S, e con l’introduzione di uno strumento normativo di tutela reddituale, quel famigerato Reddito di Cittadinanza, in realtà, molto più nominale che sostanziale (e quindi insufficiente e ampiamente migliorabile), ha visto una campagna mediatica di ostracismo incessante, fondata in larga misura proprio sull’idea della truffa oziosa messa in campo dal leggendario percettore di reddito che resterebbe a ciondolare sul divano invece di attivarsi per trovare lavoro.
Quanto fosse esagerata, inverosimile e infrequente questa vulgata lo si intuiva agevolmente non tanto e non solo per le sanzioni penali, tutt’altro che irrisorie, previste in caso di illecita percezione del sussidio, ma soprattutto per l’effettiva entità degli importi medi mensili che venivano pagati in concreto ai percettori di RdC (563 euro), cifre che, di fatto, non avrebbero potuto consentire a nessuno di starsene comodamente sul divano invece di darsi da fare per trovare qualcosa di meglio.
Il punto di caduta delle istanze costituzionali solidaristiche ed egalitarie, che sono e restano principi basilari e ineludibili della nostra Legge Fondamentale, è dunque proprio questo: la forte presa che su una parte rilevante del corpo sociale viene tuttora esercitata dalle strutture gerarchiche, da un certo ossequio al tradizionalismo e da istanze di giustizia esclusivamente punitive.
D’altra parte, quando il 14 dicembre 1918, Rosa Luxemburg scriveva che, «sulle cadenti mura della società capitalista sfavilla, come un presagio impresso a lettere di fuoco, il monito del Manifesto comunista: Socialismo o regresso nella barbarie», giusto qualche riga sopra, aveva appena scritto che «la fame non sarà più la maledizione del lavoro, ma la punizione degli oziosi», a riprova di quanto certe concezioni tradizionali siano profondamente radicate anche nelle avanguardie del pensiero egalitario.
Radicamento profondo ma, in ogni caso sociale, volendo dare il giusto credito alle preziose riflessioni di Erich Fromm che, nel suo Anatomia della distruttività umana (1973), si sofferma molto sugli studi di etnologia, antropologia e archeologia che fanno emergere la storicità del modello gerarchico, evidenziando in particolar modo come, sebbene, «per quanto deboli, le relazioni di dominanza esistono fra gli scimpanzé», tuttavia, «i rapporti sociali esistenti fra i popoli primitivi dimostrano chiaramente che l’uomo non è equipaggiato geneticamente per questa psicologia di dominanza-sottomissione». Al contrario, «l’analisi della società storica, in cui per cinque o seimila anni la minoranza dominante sfrutta la maggioranza, dimostra molto chiaramente che la psicologia di dominanza-sottomissione è un adattamento all’ordine sociale, e non la causa di quest’ultimo». In definitiva, ai «difensori dell’ordine sociale basato sul controllo di una élite, fa certo molto comodo credere che la struttura sociale sia il risultato di una esigenza innata dell’uomo, e quindi naturale e inevitabile», ma, in realtà, «la società egalitaria dei primitivi dimostra proprio il contrario».
Ed è in questo scontro tra retaggi tradizionalisti, condizionamenti gerarchici comunque millenari e spinte, invece, relativamente recenti verso modelli sociali improntati allo sviluppo prevalente di istanze egalitarie e solidaristiche, che si gioca la partita di un futuro che possa essere realmente improntato al benessere diffuso e alla democrazia reale e sostanziale.
«Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti» osservava Marx nel secondo capitolo de L’ideologia tedesca (1846). A distanza di quasi due secoli, noti gli esiti infausti delle prime rivoluzioni proletarie ispirate dalle analisi marxiane e il conseguente arretramento, nelle democrazie liberali, sul versante dei diritti sociali e dei modelli di Welfare State, di cui ci siamo occupati (anche) nella parte iniziale di questo articolo, occorre necessariamente dare il giusto peso al sostegno aggiuntivo che arriva alla minoranza dominante dal servilismo ossequioso verso i potenti dei tanti (sottoproletari e non solo) che sperano di diventare come loro o quantomeno di potersi avvalere, prima o poi, dei favori di costoro, come giusta ricompensa per la solerte e costante fedeltà.
In una società che tende sempre più a organizzarsi secondo uno schema di tipo neofeudale – dove, per fare un esempio emblematico e attualissimo, gli Stati UE operano come vassalli del Signore USA – questo diffuso servilismo, in realtà, poi, difficilmente si traduce in quella scalata gerarchica tanto agognata e viene quindi compensato dal godimento triste di quel sadismo mentale che Fromm, nel testo già citato, descrive come spesso mascherato in «vari modi apparentemente innocui: una domanda, un sorriso, un’osservazione che imbarazza l’altro». E aggiunge: «chi non conosce un “artista” che abbia questo tipo di sadismo, quello che trova sempre la parola o il gesto giusto per imbarazzare o umiliare un altro con apparente innocenza? Naturalmente la tortura è tanto più efficace se viene inflitta pubblicamente».
Di queste tristi esibizioni di «crudeltà mentale», intesa come «desiderio di umiliare e di ferire i sentimenti di un’altra persona», un «tipo di attacco» che «è molto più sicuro per il sadico, che, dopo tutto, non deve usare la forza fisica, ma “soltanto”, le parole», quante ne abbiamo viste e ancora ne vediamo, a ogni livello, nella società mediatica dei molteplici spazi di esibizione alla portata ormai di tutte e tutti?
Negano, mistificano, minimizzano e spesso tentano maldestramente di ridicolizzare tutto ciò che va contro gli interessi del padrone, in ambito lavorativo e sociale: dal fannullone percettore di reddito, agli stranieri che contestualmente ci rubano il lavoro, gli alloggi popolari e sono solo criminali, ai veri e propri commenti sadici sulle violenze di Genova 2001, Guantanamo Bay e Abu Ghraib, fino ai giorni nostri, con tutto il deprimente campionario di negazionismo del genocidio in atto a Gaza e, prima ancora delle violenze nei CPT, nei lager libici sovvenzionati dal nostro governo e in quelli più recenti («Gorgo CPR». La vergogna dei lager di Stato), compresi quelli costruiti in Albania per pratiche tutt’altro che legittime.
Probabilmente si tratta del nemico più subdolo dell’avanzamento sociale e della civiltà democratica perché non è facile e immediato riconoscerlo come tale e, soprattutto, si rischia in ogni caso di sottovalutare la portata e il peso effettivo di queste meschine complicità, nella lunga dinamica di restaurazione in atto ormai da alcuni decenni.
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