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Emma Marcegaglia: «L’accordo Usa-Ue? Un colpo per le imprese. Ora dazi di sopravvivenza per limitare la concorrenza cinese»


di
Rità Querzè

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Per l’ex presidente di Confindustria «L’Europa ha capitolato e ora le aziende a rischio vanno aiutate»

Di fronte ai dazi americani, gli imprenditori si dividono in due partiti. Quelli che «l’importante è che sia finita l’incertezza». E quelli che: «anche un dazio dell’1% sarebbe stato troppo, figuriamoci il 15».

A quale partito appartiene Emma Marcegaglia?
«Beh, per cominciare siamo obiettivi, l’incertezza non si può dire del tutto eliminata — risponde l’imprenditrice —. Nulla è ancora chiaro, ci sono addirittura testi diversi dell’accordo. E anche quando ci sarà una traccia condivisa non sarà finita perché ci sono una serie di aspetti, settore per settore, che vanno ancora definiti. Bisogna entrare nei dettagli».




















































Un elemento chiave lo conosciamo: il 15% lineare sulla maggioranza dei settori. È un buon accordo?
«Il mio giudizio per quanto sappiamo oggi è negativo: non è un buon accordo».

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Perché?
«Mettiamo da parte il fatto che per l’acciaio i dazi restano al 50%. E anche la questione del settore farmaceutico, in cui non è ancora chiaro che cosa è esentato e che cosa no. Consideriamo solo i dazi al 15% per la maggiore parte delle merci: se aggiungiamo la svalutazione del dollaro, si arriva a una penalizzazione delle nostre merci del 22-23%. È un’enormità».

Von der Leyen ha dovuto faticare per mettere d’accordo 27 Paesi prima ancora di parlare con Trump…
«Questo è vero. Ma, a differenza di molte altre partite, sul commercio internazionale la competenza è tutta europea. Il sistema Europa ha capitolato».

Ora che cosa ci aspetta?
«Quando si insediò Trump al primo mandato mise dazi sull’acciaio del 25%: in un anno l’export verso gli Usa della siderurgia italiana diminuì del 15%. Oggi i dazi sull’acciaio sono al 50. Questo per dare un parametro di riferimento. Ma la verità è che non sappiamo come andrà a finire perché oggi è tutto il sistema del commercio mondiale che si sta riassestando. Lo scenario non è ancora completo. Per esempio, con la Cina gli Usa continuano a trattare. Se i dazi imposti a Pechino saranno diversi dai nostri anche gli equilibri con l’Asia cambieranno».

Che cosa ha sbagliato l’Europa?
«Dobbiamo riconoscere che fin dall’inizio non poteva che essere un confronto in salita: dipendiamo dagli Usa per la difesa oltre che per i servizi digitali. In generale, dipendiamo troppo dall’export. Ma non ci ha aiutato il fatto di cedere, ancora prima di arrivare alla parte più dura del confronto, le poche carte che avevamo in mano. Per esempio, abbiamo rinunciato alla global minimum tax sulle imprese Usa prima ancora di iniziare a trattare».

Ora quel che è fatto è fatto, o no?
«Credo di sì. Bisogna correre a fare accordi di libero scambio con altri mercati, per compensare dove possibile. Ridurre le barriere interne al mercato europeo e rafforzare la domanda interna. Inoltre dobbiamo sfruttare tutte le finestre ancora aperte nella definizione dei punti dell’accordo con gli Usa».

Pensa all’acciaio? I dazi al 50% dovrebbero scattare solo oltre una certa soglia, da chiarire, delle esportazioni.
«Penso a quello ma non solo. Ci sono la farmaceutica, il vino, i macchinari, le esenzioni per i semiconduttori: ogni dossier va difeso con tenacia».
Negli ultimi giorni l’euro si è deprezzato…
«E questo è positivo, renderà le nostre merci più competitive, compenseremo almeno in parte la svalutazione del dollaro registrata da inizio anno».

Si parla già di ristori per le imprese «colpite» dai dazi americani. Ma non è forse anche questo un rischio d’impresa?
«C’è chi fa notare che siamo di fronte a un riassetto strutturale degli equilibri del commercio mondiale e non a un fenomeno passeggero come il Covid. È sicuramente un punto. La miglior direzione per i fondi pubblici a disposizione è quella del rilancio della nostra competitività: ridurre i costi dell’energia, aumentare gli investimenti in infrastrutture fisiche e digitali, intelligenza artificiale. Detto questo, credo che sia corretto aiutare quelle imprese particolarmente esposte che sono un patrimonio del Paese. Perderle sarebbe un danno. E quando parlo di aiuti non penso a elargizione di fondi pura e semplice ma anche a supporti nella ricerca di nuovi mercati o per diversificare la produzione».

L’Italia ha presentato un non paper, un documento insieme con altri 10 Paesi, per chiedere un potenziamento delle protezioni nel confronto dell’acciaio asiatico. È corretto chiudere ancora di più i mercati?

«Nell’immediato si tratta di una misura necessaria. E anche equilibrata: non si tratta di chiudere del tutto i mercati ma di riportare la quota di acciaio importato ai livelli del 2012-2013, cioè al 15% sui prodotti della filiera dell’acciaio a partire dal 2026. Dobbiamo difenderci dal rischio di un eccesso di esportazioni verso l’Europa».

Le misure di salvaguardia esistono già ma sono più blande.
«Sì, prevedono dazi del 25% sull’acciaio che viene dall’estero quando le quantità importate superano certe soglie. Il problema è che anche con aumenti del 25% sui listini l’acciaio cinese talvolta costa meno del nostro. Mentre investiamo per migliorare la nostra competitività dobbiamo proteggerci: li chiamerei dazi di sopravvivenza».

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