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Diritto al futuro: perché lo sviluppo sostenibile deve entrare in CostituzioneDiritto al futuro: perché lo sviluppo sostenibile deve entrare nella nostra Costituzione


Le Costituzioni non sono testi immobili. Sono organismi viventi, chiamati a rinnovare il proprio linguaggio per rispondere ai mutamenti profondi della società. In un tempo segnato da crisi ecologiche, tensioni sociali e trasformazioni economiche, il principio dello sviluppo sostenibile si impone come chiave interpretativa del presente e del futuro.

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L’ambiente, già riconosciuto come bene da tutelare, non può più essere trattato come una variabile esterna allo sviluppo. È tempo di superare la dicotomia tra ambiente e progresso, tra tutela e crescita, per abbracciare una visione capace di integrare responsabilità intergenerazionale, giustizia sociale ed equilibrio economico.

Non basta “non fare il male”

In questo contesto, mi risuona con forza l’affermazione del prof. Stefano Zamagni, il noto economista italiano, ex presidente dell’Agenzia per il terzo settore: «I cattivi non sono quelli che fanno il male, ma coloro che non fanno il bene».

Una frase che ci richiama alla responsabilità collettiva, all’urgenza di agire e non solo di evitare il danno. In un sistema economico che per troppo tempo ha messo al centro l’utile individuale, dimenticando la felicità pubblica, oggi serve un cambio di passo. L’Economia Civile, riscoperta anche grazie al pensiero italiano, è la via per umanizzare l’economia: un’economia capace di generare bene comune, di includere le comunità, di promuovere la partecipazione dei territori.

Per questo, le imprese, anche nei settori più tradizionali come quello immobiliare o infrastrutturale, devono oggi impegnarsi statutariamente con il territorio e rendere conto degli impatti generati. Impatti intenzionali, misurabili, addizionali, da condividere con gli stakeholder, a partire dalle amministrazioni pubbliche e dalla cittadinanza.

La sostenibilità come responsabilità costituzionale

Già la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea afferma che la dignità umana è inviolabile e che vivere in modo dignitoso richiede un elevato livello di tutela ambientale. Lo sviluppo sostenibile, inteso non solo come equilibrio ecologico ma come giustizia sistemica, è oggi presente in numerose Costituzioni europee e nei trattati internazionali, dalla Dichiarazione di Rio (1992) all’Agenda 2030. Una recente conferma di questo orientamento è arrivata dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, che ha riconosciuto gli obblighi giuridici degli Stati nella lotta alla crisi climatica.

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Eppure, in Italia, il principio non è ancora formalmente riconosciuto nella Costituzione. Farlo significherebbe dare forza giuridica a un cambio di paradigma già in atto nella società, rendendo la sostenibilità vincolo e stimolo per tutte le politiche pubbliche: fiscali, ambientali, educative, industriali.

Imprese generative, istituzioni sinergiche

Oggi il vero salto è culturale: serve una politica nuova, che parta dalle domande giuste:

· Quali impatti devono generare le politiche pubbliche?

· Quali interventi servono per raggiungerli?

· Quali risultati misurabili ci avvicinano a quegli impatti?

A queste domande possono rispondere solo modelli collaborativi, fondati su sinergie reali tra istituzioni, imprese ad impatto, scuole, terzo settore e cittadini. In questa logica, le imprese non sono solo attori economici ma agenti di trasformazione sociale.

Una Costituzione generativa

Oggigiorno si parla spesso di policrisi, con riferimento alla profonda interconnessione tra crisi ambientali, sociali ed economiche. Nel contesto di crescente diseguaglianza sociale e ambientale, il principio dello sviluppo sostenibile non può più essere considerato una policy tra le altre. Deve diventare architrave costituzionale, fondamento di ogni azione pubblica e privata, richiamo esplicito alla responsabilità collettiva.

La vera sfida, oggi, non è solo evitare il danno, come diceva prof. Zamagni, ma generare impatti positivi e intenzionali. In un sistema economico che ha spesso privilegiato l’utile alla felicità pubblica, lo sviluppo sostenibile offre un criterio per tornare a misurare le politiche, e i progetti, in base alla loro capacità di generare bene comune.

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In questo senso, l’Economia Civile ci propone una visione di mercato cooperativo, partecipativo e rigenerativo, in cui ogni soggetto, dallo Stato alle imprese, fino ai cittadini, è corresponsabile della qualità della vita collettiva.

Ma questo cambio di paradigma richiede un ancoraggio costituzionale, affinché non resti alla mercé della contingenza politica o delle buone intenzioni.

Le imprese, come le società benefit, che oggi scelgono di impegnarsi statutariamente con il territorio e di rendicontare impatti misurabili e addizionali dimostrano che una nuova economia è possibile. Ma serve anche una politica nuova, che si interroghi non solo su cosa fare, ma su quali impatti generare, quali risultati misurabili produrre, e quali soggetti coinvolgere in un disegno collettivo di trasformazione.

Solo così si potrà costruire una vera felicità pubblica e rafforzare la resilienza delle comunità. Inserire lo sviluppo sostenibile nella Costituzione italiana significa riconoscere tutto questo come fondamento di una nuova cittadinanza democratica: capace di integrare etica, ambiente, inclusione e giustizia sociale nel cuore stesso dell’ordinamento.

Cosa fare? Costituzionalizzare il futuro!

Riconoscere lo sviluppo sostenibile come principio costituzionale non è un atto simbolico, ma una scelta strutturale. Significa innanzitutto affermare che il bene comune non è un effetto collaterale, ma l’obiettivo stesso dell’azione politica, economica e sociale. E per farlo servono fondamenta solide, condivise e non negoziabili.

In primo luogo, è un richiamo esplicito alla responsabilità collettiva: nessuno può più chiamarsi fuori. Come ricorda Stefano Zamagni, la vera colpa non è solo nel fare il male, ma nel non agire per il bene. In questo senso, la sostenibilità diventa criterio etico prima ancora che ambientale, e deve orientare tutte le decisioni che riguardano il nostro presente e il futuro delle generazioni a venire.

In secondo luogo, l’inserimento del principio in Costituzione permetterebbe di superare l’approccio frammentario e settoriale che spesso caratterizza le politiche pubbliche. La sostenibilità, per essere autentica, deve basarsi su criteri sistemici, misurabili e trasparenti, capaci di guidare le scelte pubbliche e private in modo coerente, partecipativo e verificabile.

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Terzo: la Costituzione è lo spazio che ci obbliga a guardare oltre il breve termine, a sottrarre il bene comune alla logica del consenso immediato. In questo senso, costituzionalizzare lo sviluppo sostenibile significa anche contrastare l’inerzia delle istituzioni, fornendo un orizzonte stabile che resista alle oscillazioni politiche.

Infine, è un modo per valorizzare e legittimare le tante imprese, organizzazioni e comunità che già oggi scelgono di operare in modo rigenerativo, inclusivo e trasparente. Riconoscere il loro ruolo trasformativo come coerente con i principi costituzionali significa rafforzare una nuova cittadinanza economica, fondata su impatto, corresponsabilità e felicità pubblica.

In definitiva, una Costituzione che include la sostenibilità non tutela soltanto l’ambiente: protegge la nostra umanità. Rende giustizia alla complessità del tempo presente e genera futuro. Un futuro che sia, finalmente, all’altezza del nostro compito generazionale: lasciare il mondo meglio di come lo abbiamo trovato.

Il vero obiettivo della sostenibilità, in fondo, è ricostruire le basi della felicità pubblica. Non un’utopia, ma un criterio di azione concreta. Per farlo, serve superare le divisioni tradizionali e lavorare insieme, attivando processi capaci di generare valore condiviso, fiducia e resilienza.

Il diritto al futuro non è solo un auspicio: è una scelta possibile, oggi. E deve partire dalla nostra Costituzione.





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