L’hub tecnologico si trova a Milano ed è nato da una partnership tra EssilorLuxottica e Politecnico di Milano: «Il prossimo passo è trasformare l’occhiale in una piattaforma tecnologica. Ma deve mantenere la sua forma perché tutti continuino ad aver voglia di indossarlo»
La protagonista nella stanza si chiama Nebula, o perlomeno è questo il nomignolo che usano i ricercatori attorno a lei. I suoi grandi occhi sfrecciano a destra e sinistra seguendo gli input che arrivano da un computer. Il robot umanoide è una delle modalità con cui si possono studiare a fondo le possibilità dell’eye tracking, la tecnologia che permette di misurare e monitorare i movimenti degli occhi. Dall’altro lato del corridoio, su un grande banco in un buio laboratorio, sono disposte decine di lenti, specchi e prismi. È un tavolo ottico e qui si sperimentano diversi modi per produrre immagini e proiettarle sull’occhio in modo tridimensionale.
Sono solo due dei filoni di studio su cui da due anni stanno lavorando all’interno dello Smart Eyewear Lab, il centro di ricerca nato dall’accordo siglato nel 2022 da EssilorLuxottica e dal Politecnico di Milano con un investimento iniziale di oltre 50 milioni di euro. Oggi si trova a due passi dall’Ateneo, ma il centinaio di ricercatori che è arrivato qui, dal mondo dell’industria e dal mondo accademico, è pronto a trasferirsi nella nuova sede: l’Innovation District che verrà inaugurato nel 2026 al Parco dei Gasometri, nel quartiere Bovisa. Una realtà italiana, un polo di eccellenza, dove si porta avanti l’idea — il sogno — di creare gli occhiali intelligenti del futuro. Approfondendo tutte le tecnologie necessarie, dall’interfaccia alla componentistica, dall’intelligenza artificiale alla sensoristica.
«L’ambizione sulle tecnologie indossabili è che possano amplificare funzioni e potenzialità rispetto a quelle offerte da uno smartphone — spiega Tommaso Ongarello, responsabile per EssilorLuxottica dello Smart Eyewear Lab — Innanzitutto in ambito salute e benessere, una delle principali direttrici attuali. L’esempio dei Nuance Audio è perfetto in questo senso». Gli occhiali per «sentire», che la società ha lanciato sul mercato da qualche mese, si sono aggiunti al primo dispositivo smart, i Ray-Ban Meta, creati con il colosso di Mark Zuckerberg. In questi laboratori, ricerca e sviluppo sono però al 100 per cento italiani. Seppure con forte vocazione internazionale: «Abbiamo lavorato molto per espandere il network e stiamo collaborando con top scientist di tutto il mondo e con diverse università straniere, tra cui Stanford, l’Eth di Zurigo e la Bicocca, qui a Milano. In due anni siamo riusciti a creare un ecosistema espanso per la ricerca sui wearable», aggiunge Daniele Rocchi, vicerettore per il trasferimento tecnologico e i rapporti con le imprese del Politecnico. La rete prende tutte le figure che attraversano i laboratori universitari: professori, dottorandi, ricercatori e studenti. Proprio a loro è dedicato il nuovo programma interdisciplinare in Smart Wearable Technologies che sfrutterà il centro di ricerca per creare nuove figure professionali specializzate nello sviluppo di tecnologia indossabile.
Le difficoltà da superare sono tante. In questi due anni sono già stati depositati 16 brevetti, ma il lavoro continua su tre filoni di ricerca. Il primo segue con sguardo vigile il robot Nebula. Per esplorare le potenzialità dell’eye tracking si stanno percorrendo due strade, opposte e complementari: la prima punta a inserire sensori nella montatura che permettano di rilevare i movimenti degli occhi minimizzando il consumo energetico, la seconda prova invece a massimizzare le informazioni rilevabili, con nuove tipologie di telecamere e Ai, per tracciare anche i movimenti dell’occhio più impercettibili. Tra gli obiettivi, c’è l’ambizione di creare uno standard, una procedura di validazione e di valutazione delle performance dell’eye tracking riconosciuta a livello internazionale.
Il tema dell’autonomia è uno dei più sfidanti. Per questo un filone di ricerca è dedicato a componentista a sensoristica, con diversi orizzonti che si riassumono in una premessa: l’occhiale deve restare un occhiale. Deve essere un oggetto che l’utente possa riconoscere, anche se arricchito di tecnologia. Attorno alle lenti e lungo le aste si moltiplicano i sensori per poter aumentare le funzioni degli smart glass. Per monitorare i nostri parametri fisiologici e le nostre abitudini — ad esempio controllando il battito cardiaco — e, al contempo, osservare il mondo circostante. Il contesto in cui ci muoviamo mentre li indossiamo. Per questo un altro team sta studiando diverse telecamere e algoritmi che possano riconoscere gli oggetti, le persone e i loro movimenti. Infine, c’è il lungo tavolo ottico attorno al quale si studia come sviluppare una realtà mista davvero funzionale. Che sia immersiva, che dialoghi con gli elementi fisici ma che non affatichi gli occhi obbligandoci a una percezione del contenuto digitale non naturale e non in continuità con il mondo reale.
«Condensare tutto in un oggetto così piccolo è la prima sfida, anche perché bisogna rispettare la natura del prodotto — continua Ongarello —. L’occhiale ha avuto una bellissima evoluzione: è nato come dispositivo medico e solo a metà degli anni ’80 è diventato un oggetto che ti rappresenta, ti definisce. Per questo siamo convinti che il prossimo passo sia farlo diventare una piattaforma tecnologica, dove si integrano sensori, intelligenza artificiale, telecamere, realtà aumentata e audio. Ma deve mantenere la sua forma perché alla fine vogliamo che le persone continuino a indossare questi accessori con piacere».
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