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Nuove e seconde generazioni: sviluppo professionale e la sfida di farsi riconoscere


Dove finisce, nella società adulta e nel mondo del lavoro, la multiculturalità che vediamo nelle scuole? È una delle domande che si fa Gordon Abeiku Mensah, Co-founder e Presidente di In-Formazione, nel capitolo dedicato alla pipeline istruzione-lavoro della ricerca Multiculturalità al lavoro, pubblicata da Valore D a giugno 2025.

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Ogni mattina, davanti agli istituti scolastici italiani, è evidente la ricchezza culturale e linguistica che abita le nuove generazioni. Ma basta spostare lo sguardo ai nostri contesti lavorativi, soprattutto nei ruoli qualificati e nei luoghi decisionali, per accorgersi di un divario. Perché quella diversità, così visibile tra i banchi di scuola, sembra dissolversi quando si entra nel mercato del lavoro?

Per tante persone nate o cresciute in Italia da genitori con background migratorio, il passaggio dall’infanzia alla vita adulta non segna solo l’avvio degli studi universitari o di una professione: segna il momento in cui diventa evidente quanto sia difficile farsi riconoscere per ciò che si è, al di là degli stereotipi, dei pregiudizi, dei limiti strutturali.

Interrogarsi sul rapporto tra cittadinanza e accesso al mondo del lavoro, non è sufficiente; per comprendere meglio l’intersezione tra multiculturalità e opportunità lavorative in Italia, e qual è il ruolo delle aziende in questo panorama, dobbiamo allargare lo sguardo allo sviluppo professionale. Capire che tipo di opportunità vengono offerte alle nuove e seconde generazioni, quali ostacoli si presentano, quali forme di invisibilità gravano su di loro anche quando la cittadinanza è acquisita.

Il contesto italiano va letto con attenzione: perché il riconoscimento non si gioca solo nei documenti, ma anche nei percorsi di carriera, nelle aspettative, nella possibilità – reale – di crescere e contribuire.

Dal banco di scuola al mercato del lavoro

Molte delle disuguaglianze che segnano lo sviluppo professionale delle nuove e seconde generazioni iniziano ben prima dell’ingresso nel mercato del lavoro. 

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Già nel 2018, l’INAPP fotografava una situazione strutturale e diffusa: uno dei nodi più critici nel passaggio dalla scuola al lavoro riguarda le aspettative scolastiche nei confronti degli studenti con background migratorio. L’orientamento scolastico tende spesso a essere “al ribasso”: le scelte consigliate non si basano solo sulle competenze reali o sulle ambizioni delle ragazze e dei ragazzi, ma sono influenzate in modo marcato dal contesto socioeconomico e culturale di provenienza.

In pratica, si presume in anticipo che alcuni percorsi – come i licei – siano troppo impegnativi per chi proviene da famiglie economicamente fragili o con una storia migratoria, ipotizzando che questi studenti siano più a rischio di abbandono o insuccesso scolastico. Di conseguenza, si orientano preferenzialmente verso istituti tecnici o professionali, considerati più accessibili e finalizzati a un rapido ingresso nel mondo del lavoro. Una scelta che, però, spesso pregiudica opportunità future e rafforza la riproduzione delle disuguaglianze sociali.

Secondo i dati 2024 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, in Italia questo aspetto contribuisce a un divario di quasi dieci punti percentuali tra i giovani senza cittadinanza italiana e i loro coetanei con cittadinanza: il tasso di occupazione tra persone laureate di origine straniera è significativamente più basso di quello delle persone italiane (69,6% contro 85,3%). 

Questo implica anche una maggiore esposizione a fenomeni di overqualification delle persone con background migratorio, che più spesso dei loro coetanei possiedono titoli di studio o competenze superiori rispetto a quelli richiesti per la mansione ricoperta.

Il risultato è un effetto “leaking pipeline”: la metafora delle condutture che perdono rappresenta bene la dispersione di talenti dovuta a scelte scolastiche non sempre libere, alla mancanza di orientamento culturale sensibile, a un mercato del lavoro che fatica a riconoscere valore nelle biografie complesse. 

Come scrive Gordon Abeiku Mensah nel report di Multiculturalità al lavoro, «il raccordo tra il mondo dell’istruzione e quello del lavoro non funziona per tutti allo stesso modo, e non garantisce uguali opportunità ai giovani di origine straniera che vivono in Italia.»

Quando le competenze non bastano

Una delle difficoltà principali segnalate da giovani con background migratorio riguarda il fatto che, spesso, le competenze non bastano. Nonostante titoli di studio, esperienza o conoscenza delle lingue, molte persone si vedono precludere accessi per motivi legati all’origine: il nome, l’aspetto, l’accento, la provenienza familiare.

Il rapporto Censis 2024, Gli italiani di seconda generazione, evidenzia che il 23,4% delle giovani persone intervistate ha subito un rifiuto di impiego a causa della propria origine; un dato che sale al 38,2% tra chi è disoccupato. In più, il 57,8% segnala il colore della pelle come il principale fattore di pregiudizio, e il 62,4% ha vissuto esperienze dirette di discriminazione.

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Anche nel percorso di sviluppo professionale, il genere continua a giocare un ruolo determinante, e quando si intreccia con il background migratorio, può dare origine a dinamiche ancora più complesse e penalizzanti. Le donne razzializzate o con origini migranti, in particolare, si trovano spesso ad affrontare esperienze di discriminazione più marcate.

Tra gli ostacoli più frequenti c’è il mancato riconoscimento del proprio livello di istruzione: non è raro, per esempio, che donne altamente qualificate si vedano costrette ad accettare impieghi sottoinquadrati, con responsabilità e retribuzioni non proporzionate al loro percorso formativo. Per chi arriva da contesti a basso reddito, il rischio di incontrare un vero e proprio “soffitto di cristallo” si fa ancora più concreto: un limite invisibile che impedisce l’avanzamento professionale, nonostante le competenze.

Questi fenomeni non riguardano solo le singole storie, ma hanno un impatto sistemico: rappresentano una perdita significativa in termini di capitale umano, e riflettono criticità strutturali ancora radicate nel mercato del lavoro italiano.

Tra le persone intervistate per il rapporto Censis, il 69,6% si definisce madrelingua italiana, ma in media conosce altre tre lingue, denotando una ricchezza linguistica preziosa. L’86,2% considera il lavoro un’occasione per coltivare competenze, mentre il 75,8% lo associa alla realizzazione personale.

Giovani “naturalmente globali”, capaci di muoversi tra più contesti culturali, pronti a contribuire con visioni ibride, approcci non convenzionali, strumenti appresi in ambienti complessi. Un asset, questo, che in altri Paesi viene riconosciuto come un vantaggio competitivo. In Italia, invece, è ancora poco valorizzato. Non sorprende, allora, che oltre il 37% di loro prenda in considerazione l’idea di trasferirsi all’estero per studiare o lavorare: un paradosso per un Paese con sempre meno persone giovani e un crescente bisogno di competenze globali.

Cosa può fare il mondo aziendale

In Italia, la multiculturalità e la multietnicità sono ancora raccontate con scarso approfondimento, soprattutto in ambito professionale. Quando emergono nel dibattito pubblico, lo fanno spesso attraverso narrazioni semplificate o stereotipate, alimentate da dati parziali e rappresentazioni distorte. Questo approccio contribuisce a relegare il tema nell’ambito dell’emergenza sociale, come se si trattasse di una questione marginale, da affrontare solo in risposta a eventi di cronaca o campagne mediatiche.

Il risultato è che il potenziale trasformativo della diversità culturale viene sottovalutato. Invece di essere riconosciuta come una risorsa per la crescita delle organizzazioni – capace di arricchire visioni, linguaggi e competenze – la multiculturalità continua a essere percepita come un problema da gestire.

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Eppure, sono molte le leve che il mondo aziendale può attivare per cambiare rotta:

  • Curare l’orientamento interno: Offrire percorsi di sviluppo e crescita che tengano conto delle disuguaglianze di partenza, soprattutto nei confronti delle persone con background migratorio che stanno iniziando il loro percorso professionale.
  • Riconoscere le competenze trasversali: Valorizzare il multilinguismo, l’adattabilità culturale e le soft skill sviluppate da chi si muove tra più codici e contesti.
  • Dare visibilità ai role model: Riconoscere pubblicamente, anche nella comunicazione esterna, la pluralità delle storie e dei percorsi all’interno dell’organizzazione, senza appiattirli su narrazioni esotizzanti o di eccezionalità.
  • Investire nella formazione continua: Non solo su bias e linguaggi inclusivi, ma anche su temi come mobilità sociale, overqualification e discriminazioni intersezionali.

Per molte persone di nuova e seconda generazione, farsi riconoscere non è solo una questione di cittadinanza o competenze. È un lavoro quotidiano di decostruzione dello sguardo altrui, di rivendicazione della propria complessità, di accesso a spazi dove sentirsi legittimate a crescere.

Riconoscere questa complessità è il primo passo verso ambienti di lavoro realmente inclusivi. Perché non si tratta solo di diversità da accogliere, ma di valore da riconoscere e da far emergere.



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