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Intelligenza artificiale: il puzzle di regole tra Usa e Ue frena innovazione e ricerca


di
Daniele Manca e Gianmario Verona

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L’Unione europe vara norme e linee guida comuni sull’Ai ma le imprese chiedono tempo. Negli Stati uniti cresce la pressione per leggi federali, mentre i venture capital temono il caos

Il dilemma delle regole si fa sempre più profondo. In tempi di intelligenza artificiale tra potenzialità immense e altrettante paure dovute alla complessità di questa nuova tecnologia, gli Stati tentano di salvaguardare il bene comune, i cittadini. E, contrariamente alla vulgata comune, non c’è solo l’Europa in mezzo al guado. L’accusa che viene fatta alla Ue è esattamente quella di voler regolare prima ancora che si sia sviluppata un’industria dell’intelligenza artificiale. Ma di quelle regole ce n’è bisogno: e la spinta sembra arrivare proprio dagli Stati Uniti.
È stato visto con molto disappunto da parte delle grandi industrie attive nel mondo della tecnologia la caduta del divieto per 10 anni di varare regole sull’Ai da parte dei singoli Stati. Un divieto contenuto in una prima versione del One Big Beautiful Bill, quello che permetterà agli States di indebitarsi ulteriormente oltre a far cadere per alcune categorie parti dell’assistenza sanitaria.

La frammentazione

Si trattava di una sorta di moratoria che avrebbe permesso di superare la frammentazione di regole che anche negli Stati Uniti rischia di bloccare l’innovazione. Non sono le regole in sé a essere dannose, ma la frammentazione e l’incertezza. Quasi ogni Stato negli Usa ha varato proprie norme sulla privacy e sui vari copyright. Ma questo ha significato per le aziende americane dover aver a che fare con differenti regolamenti. Ed è per questo che avevano spinto per regole federali. Già quattro Stati, e tra questi i «grandi» California e Texas, hanno varato proprie norme sull’AI. Un’altra quindicina stanno pensando di farlo.
È evidente il rischio che si profila. Ma difficilmente il Congresso deciderà di approcciare il tema. Deputati e senatori hanno tutti in mente le elezioni di midterm, che saranno un passaggio di non poco conto per l’America e per l’amministrazione Trump. In pochi vogliono correre il rischio di inimicarsi donatori molto influenti come quelli legati al mondo della tecnologia.
Tanto più che tutte le maggiori compagnie del settore, da Microsoft ad Amazon a Google, si erano dette pronte a collaborare affinché ci fosse uno sviluppo a livello federale di norme che permettessero all’America di mantenere il proprio primato nel settore.
La società di venture capital Andreessen Horowitz, una delle maggiori del settore con sede a Menlo Park in California e che ha investito in tutte le maggiori società di Ai, da Open Ai a Mistral con uno dei fondi tra i più ampi al mondo, aveva più volte invitato il governo federale «a prendere l’iniziativa per dare certezza agli innovatori».




















































Il vantaggio

L’Europa da questo punto di vista è molto avanti, avendo varato una normativa valida per tutti i 27 membri. L’Unione, inoltre, ha appena emanato un codice volontario che permette alle aziende che lo firmeranno di avere vantaggi come un onere amministrativo ridotto e una maggiore certezza giuridica.
Nel mese di agosto, dopo il passo di febbraio che ha visto l’entrata in vigore delle prime norme relative all’Ai Act europeo, ci dovrebbe essere un ulteriore scalino relativo a quell’intelligenza artificiale le cui applicazioni sono considerate a «rischio inaccettabile».
Un passaggio ritenuto troppo profondo e ancora poco chiaro da molte grandi aziende o imprese attive nell’intelligenza artificiale per finalità generali che ne hanno richiesto il rinvio. Agli inizi di luglio, 44 capi di azienda avevano inviato una lettera all’Unione chiedendo una proroga per l’entrata in vigore delle nuove norme. Tra queste, colossi come Airbus ma anche banche come Bnp Paribas, nonché il champion francese dell’intelligenza artificiale e dei Large language model, Mistral.
Il varo del codice potrebbe facilitare l’adesione e la congruità con queste norme. Anche se oltre alle aziende europee ovviamente anche i big del tech americani ne hanno osteggiata l’applicazione sin da febbraio scorso, spalleggiati da Donald Trump.
I principi alla base delle regole Ue sono peraltro quasi scontati. Si va dal fatto che i modelli di Ai dovrebbero prevedere sistemi tecnologici in grado di evitare l’uso di materiale protetto da diritto d’autore e copyright; come pure di non alterare la sicurezza e rispettare la trasparenza, come più volte sottolineato dalla finlandese Henna Virkkunen, vicepresidente esecutivo della Commissione Ue, nonché commissaria alla tecnologia e alla sicurezza. Senza contare i rischi legati a inganno e manipolazione.

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L’allarme

L’ultimo in ordine di tempo a mettere in allerta il settore, è stato Yoshua Bengio. Il ricercatore e informatico canadese — il cui lavoro ha orientato le maggiori società di Ai da OpenAi a Google — ha appena lanciato una non profit chiamata LawZero. Lo scopo è far avanzare la ricerca senza sottostare a pressioni commerciali ed evitare che la crescente perfezione dell’agenzia dei modelli di Ai porti a comportamenti inopportuni e fuori controllo. E con la sua nuova non profit ha già raccolto 30 milioni di donazioni filantropiche, tra l’altro da Jaan Tallinn fondatore di Skype ed Erik Schmidt, ex presidente di Google.
È evidente come ci si stia muovendo in campi così complessi che difficilmente un codice o l’entrata in vigore di nuove norme possa rappresentare il punto di approdo finale. In Europa come in America. E che oltre a un approccio normativo sia necessaria anche una solida ricerca tecnologica, come suggerito da Bengio, che improntata da principi etici e di salvaguardia della convivenza permetta di evitare le conseguenze potenzialmente negative di un salto tecnologico così potente.

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