Nell’economia globale del XXI secolo, i dati sono la linfa vitale e lo spazio è il suo canale principale. Chi controlla i satelliti controlla le informazioni, le comunicazioni, la sicurezza.
E in questo scenario in rapido mutamento, l’Italia ha deciso di non rimanere ai margini. Anzi: ha scelto di entrare con decisione nel ristretto club delle potenze che possiedono infrastrutture satellitari autonome per le comunicazioni strategiche. Non come cliente. Ma come attore sovrano.
Rete satellitare di Stato in Italia
Il governo Meloni ha stanziato 767 milioni di euro per la creazione di una rete satellitare di Stato, rompendo così con l’idea di affidare a Starlink – la costellazione privata di Elon Musk – le comunicazioni sensibili del Paese. È una scelta industriale, ma anche culturale e geopolitica. Un atto di indirizzo che va ben oltre la tecnica: è la riaffermazione del principio secondo cui la sovranità digitale e tecnologica è condizione necessaria per una piena indipendenza politica, economica e militare.
Una sterzata netta e simbolica
Fino a poche settimane fa, tutto lasciava presagire un avvicinamento a SpaceX. Le immagini dell’incontro tra Giorgia Meloni ed Elon Musk avevano fatto il giro del mondo. L’opposizione denunciava un rischio di dipendenza dalle tecnologie americane. Poi, la svolta. L’annuncio di una rete completamente italiana, pubblica, sotto il controllo del Ministero della Difesa.
Sarà una rete satellitare dual use, ad altissima capacità, a servizio delle Forze Armate ma anche della Protezione Civile, delle amministrazioni centrali e – in prospettiva – della sicurezza digitale di tutti. Due satelliti – Sicral 3A e Sicral 3B – costruiti in Italia da Thales Alenia Space Italia, saranno in orbita entro il 2028. La gestione sarà affidata a Telespazio, società del gruppo Leonardo. Il cuore tecnologico del Paese torna a pulsare nello spazio.
Sicurezza, resilienza, indipendenza: la rete satellitare italiana
A differenza delle reti commerciali, la nuova costellazione italiana sarà criptata, resiliente, indipendente da attori esterni. Non servirà solo a comunicare, ma a proteggere l’intero perimetro informativo nazionale in caso di crisi, guerra, attacchi cyber o disastri naturali. Sarà una rete di backup orbitale. Un’infrastruttura critica, al pari della rete elettrica o dei gasdotti.
E non è un caso che la gestione sia affidata alla Difesa. Come spiegano fonti ministeriali, non si tratta solo di un progetto tecnologico, ma di un asset strategico. L’Italia, con questa scelta, si allinea alle grandi potenze: Stati Uniti, Cina, Francia, Regno Unito. Tutti Paesi che dispongono di reti satellitari militari proprietarie. Tutti consapevoli che – oggi – non si fa geopolitica senza l’orbita.
L’Italia protagonista dell’autonomia europea nei satelliti
Nel contesto europeo, questa decisione colloca l’Italia in posizione di avanguardia. Mentre Bruxelles investe in IRIS², la costellazione a bassa orbita per usi civili e istituzionali, Roma rilancia sulla dimensione geostazionaria e sulla comunicazione sicura. I due modelli non si escludono. Anzi. L’Italia, ospitando il centro operativo europeo di IRIS² nel Fucino, si candida a essere l’hub della nuova architettura orbitale del continente.
La convergenza è evidente: IRIS² per la connettività civile, Sicral per la difesa. Il tutto in un’ottica di sovranità multilivello. Nazionale, europea, alleata. Perché l’autonomia non significa isolamento, ma capacità di scegliere con chi condividere le infrastrutture, i dati, le priorità strategiche.
Industria, occupazione, filiera
Ma la partita non si gioca solo nei cieli. Si gioca anche nei distretti industriali. Il programma Sicral attiverà una filiera da oltre mille fornitori, con impatti su settori come microelettronica, sensoristica, materiali compositi, intelligenza artificiale. Si prevedono migliaia di nuovi posti di lavoro qualificati. Un ritorno concreto, misurabile, tracciabile.
E non si tratta solo dei grandi nomi. Certo, Leonardo, Thales, Telespazio guideranno l’operazione. Ma intorno a loro ruotano decine di PMI ad alta specializzazione, spesso invisibili ma essenziali. Senza di loro, i satelliti non volano. Il progetto Sicral diventa così una piattaforma nazionale per l’innovazione, capace di stimolare ricerca, brevetti, investimenti in formazione tecnica avanzata.
Satelliti nazionali, il confronto internazionale: tra Musk e Pechino
Nel frattempo, il mondo non aspetta. Starlink ha già lanciato oltre 7.500 satelliti. Amazon prepara Kuiper. La Cina sviluppa Guowang, la propria mega-costellazione. Il rischio di dipendenza tecnologica è reale, tangibile. Affidare la propria infrastruttura informativa a soggetti privati esteri – per di più non regolati da normative europee – significa esporsi a vulnerabilità strutturali.
Il caso ucraino è emblematico: Starlink ha garantito la connettività a Kiev, ma ha anche mostrato quanto sia rischioso affidarsi alla volontà (e all’umore) di un singolo imprenditore. La geopolitica dell’orbita non può essere lasciata al mercato. L’Italia, scegliendo la via della sovranità orbitale, ribadisce un principio chiave: le infrastrutture strategiche non si comprano. Si costruiscono.
Opinioni critiche: governance, rischi e necessità di visione
Non mancano, tuttavia, le voci critiche. Molti osservatori economici e industriali sottolineano i rischi di inefficienza, i tempi lunghi, la possibilità di slittamenti. I 767 milioni stanziati sono un investimento importante, ma anche una scommessa.
“Occorre una governance forte, trasparente, indipendente”, afferma un analista del settore aerospaziale. “Se il progetto diventa l’ennesima grande opera senza visione, senza KPI, senza verifica dei risultati, avremo solo sprecato risorse.”
C’è chi denuncia l’assenza di un piano pluriennale chiaro, e la mancanza di sinergie obbligatorie con la filiera delle PMI. Il rischio è che si tratti di un progetto “a valle”, guidato solo da logiche top-down. Infrastrutture orbitanti, ma politiche industriali ancora a terra.
Conclusione: il capitale privato è la vera infrastruttura mancante
La realtà è che, per sostenere un progetto di questa portata, il pubblico non basta. La space economy italiana ha bisogno di capitali pazienti, strumenti innovativi, fondi specializzati. E soprattutto ha bisogno di private equity. Non quello mordi-e-fuggi, ma quello che investe in crescita industriale, in tecnologie dual use, in supply chain a prova di futuro.
Senza una mobilitazione del capitale privato, l’infrastruttura rischia di restare un contenitore. Serve una nuova stagione di alleanze tra Stato e investitori istituzionali. Serve l’ingresso di capitali in grado di finanziare le scale-up, di strutturare modelli SaaS per l’analisi dei dati orbitanti, di sostenere la manifattura additiva e le nuove frontiere della propulsione.
E serve, soprattutto, una visione integrata: dove il venture capital finanzi la ricerca e l’accelerazione, il private equity rafforzi la crescita industriale, e i fondi infrastrutturali consolidino l’infrastruttura orbitale e terrestre. Solo così l’ecosistema potrà evolvere da progetto pubblico a piattaforma economica nazionale, capace di attrarre talenti, capitali, imprese.
È tempo di pensare allo spazio non come a un costo, ma come a un asset strategico permanente. Da proteggere. Da far rendere. Da usare come leva di politica industriale.
L’Italia ha lanciato il suo segnale nello spazio. Ora serve che anche la finanza privata risponda. E non basta farlo per patriottismo o per moda: bisogna farlo con la logica dell’investitore intelligente, che sa che nello spazio – come nella terra – chi arriva prima, resta.
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