Il rapporto Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio di Francesca Albanese, relatrice speciale per i territori palestinesi delle Nazioni Unite, presentato il 30 giugno al Consiglio dei diritti umani dell’ONU, è un documento di straordinaria intensità e importanza che, non a caso, ha provocato reazioni durissime e sanzioni nei confronti dell’autrice da parte di Israele e Stati Uniti (a cui ha corrisposto la proposta, proveniente da ampi settori della società, di attribuire a Francesca Albanese il premio Nobel per la pace).
La novità del rapporto sta nella documentata accusa alle principali aziende tecnologiche statunitensi (e non solo) di fornire un supporto decisivo alle operazioni militari di Israele a Gaza e nei territori occupati da epoca risalente e anche dopo le operazioni genocidiarie in atto a Gaza. Il rapporto si fonda, oltre che su documenti aperti e fonti pubbliche, su oltre 200 testimonianze raccolte dalla relatrice che hanno dato vita a un database di circa mille aziende coinvolte. «Ciò – precisa il rapporto – ha aiutato a tracciare una mappa di come imprese di tutto il mondo siano state coinvolte in violazioni dei diritti umani e crimini internazionali nei Territori palestinesi occupati. Oltre 45 entità citate nel rapporto sono state debitamente informate dei fatti che hanno portato la Relatrice speciale a formulare una serie di accuse: 15 hanno risposto. La complessa rete di imprese – e i legami spesso oscuri tra società madri e controllate, franchising, joint venture, licenziatarie ecc. – ne coinvolge molte altre. L’indagine alla base di questo rapporto dimostra fino a che punto le imprese sono disposte a nascondere la loro complicità».
Esplicita la sintesi che introduce il documento: «Questo rapporto indaga i meccanismi d’impresa che sostengono il progetto coloniale israeliano di sfollamento e sostituzione dei palestinesi nei territori occupati. Mentre i leader politici e governi si sottraggono ai propri obblighi, troppe imprese hanno tratto profitto dall’economia israeliana di occupazione illegale, apartheid e ora genocidio. La complicità denunciata da questo rapporto è solo la punta dell’iceberg; porvi fine non sarà possibile senza chiamare a rispondere il settore privato, compresi i suoi dirigenti. Il diritto internazionale riconosce diversi gradi di responsabilità, ognuno dei quali richiede esame e accertamento, in particolare in questo caso, in cui sono in gioco l’autodeterminazione e l’esistenza stessa di un popolo. Questo è un passo necessario per porre fine al genocidio e smantellare il sistema globale che lo ha permesso».
Tra le imprese coinvolte nel sostegno alle attività militari israeliane vengono menzionate nel rapporto, oltre alle aziende direttamente interessate a produzione e commercio di armi, Google e Amazon (impegnate a fornire infrastruttura cloud e di intelligenza artificiale con server ubicati in loco, così garantendo a Israele sovranità dei dati e protezione dalla responsabilità legale), Microsoft (attiva in Israele dal 1991 e anche durante l’escalation successiva all’ottobre 2023, che ha sviluppato lì il più grande centro di sviluppo al di fuori degli Stati Uniti, con tecnologie integrate nei sistemi carcerari, nelle forze di polizia, nelle università e nelle scuole, incluse quelle situate negli insediamenti), Palantir Technologies (azienda americana specializzata in tecnologie di sorveglianza, che ha fornito a Israele tecnologia di controllo predittivo automatizzato, infrastrutture di difesa fondamentali per la costruzione e distribuzione rapida e su larga scala di software militare, e la sua piattaforma di intelligenza artificiale, che consente l’integrazione di dati operativi in tempo reale per processi decisionali automatizzati), IBM (operante in Israele dal 1972, impegnata nella formazione del personale militare e dell’intelligence, specialmente dell’Unità 8200, la divisione tecnologica delle forze armate israeliane che rappresenta un vivaio per l’industria tech del Paese), Caterpillar Inc. (che ha fornito a Israele attrezzature utilizzate per demolire case e infrastrutture palestinesi, sia attraverso il programma statunitense di finanziamento militare estero sia attraverso una licenza esclusiva richiesta dalla legge israeliana all’esercito) e molte altre.
In conclusione del rapporto la relatrice rivolge agli Stati membri delle Nazioni Unite le raccomandazioni di: «a) imporre sanzioni e un embargo totale sulle armi a Israele e i prodotti a doppio uso come la tecnologia e i macchinari civili pesanti; b) sospendere/impedire tutti gli accordi commerciali e le relazioni di investimento e imporre sanzioni, compreso il congelamento dei beni, a entità e individui coinvolti in attività che possono mettere in pericolo i palestinesi; c) far valere il principio di responsabilità, assicurando che le imprese affrontino le conseguenze legali per il loro coinvolgimento in gravi violazioni del diritto internazionale». Esorta, inoltre, le imprese coinvolte a: «a) cessare prontamente tutte le attività commerciali e terminare le relazioni direttamente collegate che contribuiscono e causano le violazioni dei diritti umani e i crimini internazionali contro il popolo palestinese, in conformità con le responsabilità aziendali internazionali e con il diritto di autodeterminazione; b) pagare riparazioni al popolo palestinese, anche sotto forma di una tassa sulla ricchezza dell’apartheid sul modello del Sudafrica post-apartheid». Invita, infine, «la Corte penale internazionale e le magistrature nazionali a indagare e perseguire i dirigenti e/o le imprese per il loro ruolo nella commissione di crimini internazionali e nel riciclaggio dei proventi di tali crimini […] e «i sindacati, gli avvocati, la società civile e i cittadini comuni a fare pressione per boicottare, disinvestire, imporre sanzioni, per ottenere giustizia per la Palestina e per far valere le responsabilità a livello internazionale e nazionale».
Qui il link al testo del rapporto in inglese
Qui il link al testo del rapporto in italiano (traduzione non ufficiale tratta dal sito di Pressenza)
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