Se le aziende vogliono operatività, disponibilità e aderenza immediata ai ruoli i giovani invece puntano a flessibilità, inclusione e orizzonti chiari e il risultato è una ‘disconnessione sistemica’ che mette il freno al lavoro. E intanto, anche il reclutamento dà segnali di cambiamento: le università e i career service, pur restando tra le vie più battute, scendono dal 28% al 16,9% e LinkedIn cala al 10,8% (dal 16% dell’anno scorso). Sono alcuni dei dati emersi dalla XXXV Indagine ‘Giovani e Lavoro’ condotta da Giidp-Gruppo italiano direttori del personale, l’associazione che riunisce oltre 4.500 Hr manager che sono stati chiamati nel primo semestre 2025 a rispondere all’indagine realizzata con l’Osservatorio Paolo Citterio presentata nei giorni scorsi a Milano. L’indagine propone un’analisi su come le imprese italiane – in particolare quelle più strutturate – stiano gestendo l’ingresso dei profili junior e senior, in un momento di transizione tecnologica, discontinuità geopolitica e forti trasformazioni culturali. Il dato più rilevante del report è che la distanza tra imprese, giovani e formazione non è più solo un problema di competenze, ma tocca piani più profondi. Una disconnessione sistemica che va oltre il tema delle competenze tecniche. Tocca il piano dei valori, del linguaggio e delle aspettative reciproche. Per Marina Verderajme, presidente nazionale di Gidp, la convivenza generazionale, se ben gestita, può diventare una leva per la competitività: “È tempo di passare dalla convivenza passiva a una strategia attiva. Dove si investe in ascolto, leadership condivisa e cultura organizzativa, le imprese sono più attrattive”.
Per la prima volta, secondo l’indagine Gidp, il desiderio di smart working e orario flessibile supera in assoluto tutte le altre priorità nei colloqui di selezione, scalzando dal primo posto retribuzione e benefit, che ora si attestano al secondo posto, seguiti da chiarezza sulle mansioni. Un ribaltamento rispetto all’anno precedente, quando la flessibilità figurava solo al terzo posto. È un segnale che il concetto di “buon lavoro” sta cambiando rapidamente, con una generazione che chiede più autonomia organizzativa, equilibrio e senso, prima ancora di definire il pacchetto retributivo. Le aziende, dal canto loro, sembrano rispondere a questa esigenza solo in parte: se è vero che la componente economica è oggi la più presidiata (passata dal terzo al primo posto tra le priorità aziendali), la flessibilità resta al quarto posto tra gli elementi realmente offerti, dopo retribuzione, chiarezza sulle mansioni e percorsi interni di crescita. È qui che si consuma una prima parte della disconnessione. Il cuore della ricerca 2025 è però dedicato al tema della convivenza intergenerazionale, che coinvolge ormai la quasi totalità delle aziende italiane: nel 90% dei casi, sono presenti tre o più generazioni nello stesso ambiente di lavoro. Eppure, solo il 23,7% ha attivato programmi strutturati di mentorship tra senior e junior. La maggior parte delle imprese riconosce il valore potenziale di questa coesistenza – il 38,2% la percepisce come un’opportunità concreta – ma pochi la gestiscono con strumenti efficaci. In alcuni casi (10,5%) viene anzi vissuta come una sfida gestionale, difficile da armonizzare.
Le divergenze più forti emergono su stili comunicativi, aspettative di carriera, uso degli strumenti digitali e visione del work-life balance. Nonostante ciò, la quasi totalità delle aziende (89,7%) convive quotidianamente con generazioni diverse, senza una regia che possa trasformare questo dato in una leva culturale e competitiva. “La convivenza tra generazioni è il vero stress test per le imprese italiane”, dice Verderajme “e rappresenta una delle aree dove si gioca la capacità di tenere insieme innovazione e continuità. Dove si gestisce bene, si cresce meglio. Dove manca il confronto, si crea frammentazione”. Come detto, poi, anche il reclutamento cambia direzione: cala il peso di università e LinkedIn e nessun canale emerge con forza, a conferma di un sistema di recruiting frammentato e poco innovativo: il 95,4% delle aziende dichiara di non aver cambiato nulla rispetto al 2024. Per quanto riguarda i profili senior, LinkedIn resta il canale preferito (25,4%), ma quasi il 50% delle aziende segnala difficoltà a trovare profili tecnici realmente pronti, e il 17,5% dichiara di dover comunque avviare percorsi formativi anche per i senior appena assunti. Quanto alle doti richieste dalle aziende, le soft skills sono in ascesa e il problem solving supera le hard skill. Tra gli junior, la più apprezzata è il problem solving (26,2%), in crescita rispetto al 18% dello scorso anno, seguita da creatività (18,5%) e flessibilità (16,9%). Per i senior, la leadership è la competenza più richiesta (32%), seguita da autonomia (22%). Solo l’1,5% delle aziende valuta prioritarie le competenze tecniche specifiche. Il talento, oggi, non è più solo “saper fare”, ma saper agire in contesti complessi.
Altra questione è il mismatch formativo: formazione e impresa ancora scollegate La disconnessione è evidente anche nella preparazione dei profili in ingresso. Il 26,2% delle aziende segnala la necessità di formare internamente i neolaureati dopo l’assunzione, mentre il 23% fatica a trovare neodiplomati tecnici già pronti. Solo il 15% afferma di non avere problemi nel reperimento di profili junior. Le imprese chiedono competenze pronte all’uso, ma il sistema formativo non risponde abbastanza rapidamente, e il costo dell’allineamento ricade oggi quasi interamente sulle aziende. “Perché il lavoro giovanile in Italia possa davvero rilanciarsi, occorre un cambiamento sistemico fondato su tre direttrici: Riforma del dialogo tra istruzione e imprese con percorsi formativi più aderenti alle richieste del mercato; Incentivazione all’assunzione stabile e qualificata per rendere il lavoro attrattivo e sostenibile; Diffusione di una cultura organizzativa inclusiva, flessibile e orientata al senso, in grado di motivare le nuove generazioni e valorizzare le precedenti”, dice Verderajme. “Il futuro del lavoro dei giovani in Italia dipende dalla nostra capacità collettiva di innovare, cooperare e credere nel cambiamento. E sono proprio le imprese, insieme a scuole, università e istituzioni, a detenere le chiavi di questo rilancio. Con consapevolezza, visione e coraggio, è possibile trasformare le fragilità attuali in nuove traiettorie di crescita costruendo un mercato del lavoro più equo, competitivo e a misura di futuro”, conclude.
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