Di fronte al bivio imposto da Trump – accettare il muro contro muro o provare a contenere il danno – l’Europa ha deciso di evitare lo scontro. Così i dazi, che erano in media del 4,8% nell’era pre trumpiana, sono ora del 15%. E restano ancora molti dosser da definire
L’Unione europea paga un prezzo pesante in cambio della «stabilità» nei rapporti con gli Stati Uniti. I termini dell’accordo raggiunto ieri da Donald Trump e Ursula von der Leyen rappresentano davvero una «doccia scozzese» per le imprese europee e, di conseguenza, per la loro forza lavoro. In realtà, nel fondo, questa è un’intesa politica: l’Ue non ha voluto andare allo scontro frontale con gli Usa.
Nell’era pre trumpiana, il dazio medio imposto dalle dogane americane sulle merci europee si aggirava intorno al 4,8%; ora viene fissato al 15%.
Tre volte tanto, senza una reale giustificazione economica, perché non è vero che, come sostiene Trump, negli anni scorsi l’Europa abbia depredato gli Usa.
Bruxelles e le capitali europee si erano illuse che l’offensiva del presidente americano, cominciata il 2 aprile scorso, il giorno del tabellone dei dazi contro il resto del pianeta, sarebbe naufragata nella tempesta finanziaria di Wall Street e delle altre Borse del mondo. Oppure si sarebbe dovuta fermare per ascoltare l’allarme proveniente dalla grande distribuzione americana: il peso dei dazi sarebbe stato scaricato sui prezzi, rilanciando l’inflazione e deprimendo i consumi, cioè il volano chiave dell’economia statunitense.
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A torto o a ragione, (si vedrà con le statistiche nei prossimi mesi) Trump è andato avanti, fino a mettere l’Unione europea davanti a una scelta difficile: accettare il muro contro muro o provare a contenere il danno. La Commissione, sempre con il consenso dei 27 partner Ue, ha scelto la seconda strada e da quel momento è cominciato un lungo, affannoso inseguimento alla lepre americana.
Nella trattativa è confluito di tutto. La lista delle richieste di Washington si è via via allungata. La presidente della Commissione si è trovata in una posizione negoziale sempre più svantaggiosa. A un certo punto ha tracciato una linea per provare a fermare l’emorragia delle concessioni e ieri ha messo sul piatto contropartite inimmaginabili solo qualche mese fa: zero dazi per l’import Usa; impegno ad acquistare gas liquido per 750 miliardi di dollari e, parole di Trump, un «enorme quantitativo di armi»; investimenti diretti negli Stati Uniti per 600 miliardi di dollari.
Ursula, perché lo hai fatto?
Probabilmente per evitare di precipitare, da qui a qualche giorno, nel marasma politico. Il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Friedrich Merz, si mostravano sempre più insoddisfatti: la strategia conciliante non stava funzionando. Il primo agosto Trump avrebbe portato i dazi al 30% e, il 7 agosto, la Commissione avrebbe risposto con le contromisure da oltre 90 miliardi di dollari. Uno scenario devastante per l’economia europea, accompagnato, con tutta probabilità, da un’altra tempesta finanziaria.
Von der Leyen si è trovata a scegliere tra una sconfitta certa, ma, forse, gestibile e il rischio di una disfatta dalle conseguenze potenzialmente devastanti. Ha preferito, per così dire, patteggiare la pena con Trump, piuttosto che imbarcarsi in una sfida inedita e oggettivamente rischiosa.
L’errore, ripetiamo, è stato commesso quattro mesi fa, non rispondendo a tono all’offensiva trumpiana, come hanno fatto la Cina o il Canada per esempio. E smentendo, dati alla mano sulla crescita del prodotto interno lordo degli ultimi trent’anni, la favola di un’America rovinata dagli europei. Ma farlo ieri sarebbe stato troppo tardi.
Adesso, però, gli europei dovranno gestire gli effetti concreti di questa bastonata.
L’unico comparto che forse può sentirsi sollevato è quello dell’auto. Il leader della Casa Bianca vorrebbe che tutte le vetture vendute negli Usa fossero prodotte nelle fabbriche americane. Per questo motivo aveva imposto una tariffa del 27,5% sui veicoli importati. Ora il dazio si allinea al 15%: vedremo se le case europee riusciranno a recuperare competitività. O se, invece, le difficoltà incontrate sul mercato Usa (e altrove) sono anche di altra natura. Le tariffe su acciaio e alluminio restano al 50%: ciò significa che continuerà il processo di riorientamento delle esportazioni, già cominciato anche in Italia, verso altri mercati.
Le due parti dovranno poi risolvere altre questioni di importanza strategica. Una su tutte: il tema del digitale e della fornitura di semiconduttori, cioè della componente elettronica usata in un largo spettro di applicazioni industriali. Gli americani chiedono che gli europei non si riforniscano dalla Cina.
I dossier specifici di alcuni Paesi si intrecciano con problemi di carattere generale. Ieri la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha espresso «soddisfazione» per il fatto che comunque Ue e Usa abbiano trovato un’intesa. Ma ha osservato che bisognerà conoscere i dettagli, prima di dare un giudizio sull’impatto per l’Italia. La botta, comunque, c’è anche per il nostro Paese. Adesso i ministri, le categorie produttive e i diplomatici proveranno a contenere le perdite. Un caso è quello dell’agroalimentare: l’idea è stringere patti con gli importatori Usa in modo da dividersi il fardello del dazio per non rovesciarlo tutto sui prezzi, allontanando i consumatori.
Sul piano europeo, la promessa di comprare molte più armi dagli Usa appare in contraddizione con il progetto di rafforzare l’industria militare del Vecchio Continente, un passaggio chiave per arrivare alla costruzione di una difesa comune europea, più autonoma rispetto agli Stati Uniti.
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