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Gender gap nel lavoro: la metà delle donne in Italia non lavora


Il dato è ormai noto, ma non per questo meno allarmante: in Italia, come riporta il report realizzato da Deloitte con la collaborazione di UN Women Italy e Winning Women Institute, lavora poco più della metà delle donne in età attiva. Appena il 52,5%, contro una media europea di circa il 70%. Un divario che si traduce in una distanza di quasi 18 punti percentuali tra uomini e donne, il doppio rispetto alla media dell’Unione europea

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Poco più della metà delle donne italiane lavora: la situazione del gender gap nel lavoro, già fotografata negli anni e confermata con i dati più recenti, racconta non solo un’eredità culturale. Ma un ostacolo strutturale e persistente: il Global Gender Gap Report 2025 colloca l’Italia all’85° posto su scala mondiale per parità di genere, in lieve miglioramento rispetto al 2024 ma ancora lontana dai vertici europei.

Nonostante negli ultimi dieci anni l’occupazione femminile in Italia sia cresciuta di circa otto punti percentuali, il ritmo del cambiamento non basta per colmare un divario che resta profondo soprattutto nei luoghi dove si prendono le decisioni e si definiscono le strategie di sviluppo economico e sociale.

Un gender gap che parte dalla formazione e si consolida nel lavoro

La fotografia della situazione italiana diventa ancora più chiara guardando ai percorsi formativi. Le donne, registra il rapporto, rappresentano il 55% degli iscritti all’università, ma appena il 32,2% dei corsi STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) e solo il 20,6% nell’ambito ICT, quello più strategico per le competenze digitali e per le professioni del futuro.

Questo squilibrio ha conseguenze dirette: le donne restano sottorappresentate nei settori più dinamici, nei ruoli tecnici e nelle posizioni apicali legate all’innovazione tecnologica. A livello globale, solo il 6% delle donne lavora nello sviluppo software e il 20% occupa ruoli tecnici in aziende di machine learning.

Ne deriva una catena di esclusioni che va dall’accesso limitato a percorsi di carriera più remunerativi fino alla difficoltà di incidere nei processi decisionali che orientano l’innovazione stessa.

Oltre ad essere un tema di giustizia sociale, si tratta di un problema che riguarda l’intero sistema economico. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, la riduzione del divario di genere nei mercati del lavoro potrebbe contribuire a far crescere il PIL dei Paesi emergenti e in via di sviluppo di quasi l’8%, mentre l’eliminazione completa delle disuguaglianze genererebbe un aumento medio del 23%.

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In Italia, la questione assume un valore ancora più strategico se si considera il declino demografico: con una popolazione che invecchia e un basso tasso di natalità, l’aumento dell’occupazione femminile diventa una leva indispensabile per garantire la sostenibilità del sistema economico e del welfare.

Più donne nei processi decisionali, migliori risultati

Uno degli aspetti più rilevanti che emergono dai dati UN Women Italy e Deloitte riguarda l’impatto positivo della presenza femminile nei luoghi dove si decidono le strategie d’impresa. La presenza di almeno tre donne nei consigli di amministrazione è associata a migliori performance finanziarie e a risultati ESG (ambientali, sociali e di governance) più alti.

Questo dimostra che la parità di genere nei processi decisionali non è solo una questione etica, ma un imperativo strategico

È nei board, nei comitati direttivi, nei tavoli istituzionali che si definiscono le traiettorie dello sviluppo economico, sociale e tecnologico. Se queste sedi restano sbilanciate, il rischio è che le scelte continuino a rappresentare una visione parziale, incapace di valorizzare pienamente la pluralità di talenti, esperienze e competenze presenti nella società.

Come sottolineato da Fabio Pompei, CEO di Deloitte Italy, la parità nei processi decisionali è cruciale per costruire modelli economici più inclusivi e sostenibili, capaci di rappresentare davvero la società nella sua complessità.

Le barriere che frenano il cambiamento

Malgrado i progressi normativi (come le quote di genere nei CDA o le riforme sui congedi parentali), il gender gap in Italia resta ampio.

Tra i principali ostacoli ci sono i carichi familiari ancora in gran parte sulle spalle delle donne: nel 2023, il 33,9% delle donne inattive indica le responsabilità familiari come principale motivo per non cercare lavoro, contro il solo 2,8% degli uomini.

Un’altra barriera significativa è l’accesso limitato a reti professionali e finanziamenti: solo il 13,7% delle startup innovative italiane è guidato da donne. La paura di fallire, i pregiudizi culturali e la scarsa fiducia nelle proprie capacità pesano ancora molto: solo il 43% delle donne in UE ritiene di avere le competenze necessarie per avviare un’impresa, contro percentuali più alte tra gli uomini.

L’impatto dell’intelligenza artificiale

Nel contesto di transizioni digitali sempre più rapide, l’intelligenza artificiale rappresenta un punto critico e un’opportunità. Se sviluppata senza un approccio inclusivo, rischia di replicare e amplificare gli stereotipi e le discriminazioni già esistenti.

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Al contrario, una maggiore partecipazione femminile nella progettazione dell’AI potrebbe portare a soluzioni più equilibrate e inclusive

«Se la metà delle donne in Italia non lavora, è l’intero Paese a perdere. Serve un cambio di rotta già a scuola: tecnologie e intelligenza artificiale stanno ridisegnando le competenze e i mestieri del futuro. Se ben guidate e orientate, le ragazze hanno tutto il potenziale per guidare da protagoniste il cambiamento e conquistare la propria autonomia economica. È il momento di coltivare una mentalità digitale nelle giovani donne. Le imprese, dal canto loro, devono attivare politiche inclusive per valorizzare il merito e le competenze distintive delle donne», spiega la presidente di UN Women Italy Darya Majidi.

Darya Majidi, presidente di UN Women Italy.
Darya Majidi, presidente di UN Women Italy.

Investire nelle competenze digitali delle giovani donne, a partire dai percorsi STEM, è dunque una strategia non solo educativa, ma di politica industriale.

Strumenti per trasformare le aziende

Accanto alle riforme legislative, negli ultimi anni si sono diffusi strumenti che aiutano le imprese a integrare la parità di genere nelle proprie strategie. Tra questi, i Women’s Empowerment Principles (WEPs), promossi da UN Women e UN Global Compact, e la certificazione UNI/PdR 125:2022.

I WEPs propongono sette principi operativi per garantire pari opportunità, equità retributiva, tolleranza zero verso le molestie, modelli di leadership inclusivi e flessibilità organizzativa. Ad oggi, più di 112mila aziende nel mondo hanno aderito, di cui 155 in Italia.

La certificazione UNI/PdR 125:2022, introdotta nel 2022, ha già coinvolto oltre 8.100 imprese italiane, comprese PMI e settori storicamente maschili come le costruzioni. È diventata la quarta certificazione più diffusa in Italia, anche grazie a incentivi pubblici come sgravi contributivi e punteggi aggiuntivi negli appalti.

Oltre le certificazioni, il percorso verso la parità richiede un’alleanza tra istituzioni, imprese e società civile: programmi europei come Girls Go Circular o Women TechEU, dimostrano come le partnership possano rafforzare le competenze digitali delle ragazze e sostenere l’imprenditoria femminile. Anche il Gender Finance Lab di InvestEU, avviato nel 2025, punta a migliorare l’accesso al credito per le PMI guidate da donne, un settore ancora poco finanziato nonostante l’alto potenziale di crescita e i buoni risultati ESG.

La cultura organizzativa come leva strategica

Le aziende che adottano politiche inclusive – come congedi parentali equi, flessibilità oraria, programmi di leadership femminile – registrano una maggiore capacità di attrarre e trattenere talenti, oltre a migliori risultati economici.

Secondo uno studio citato nel report Deloitte, portare la quota femminile nei board al 20% può aumentare la produttività aggregata dello 0,6%, mentre un incremento dell’1% della presenza femminile può migliorare il ROA (redditività del capitale investito) dello 0,22% e il ROS (redditività delle vendite) dell’1,29%.

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Questo conferma che la parità non deve essere vista come un obbligo formale, ma come parte integrante delle strategie d’impresa per crescere in un mercato globale sempre più competitivo

Colmare il gender gap non riguarda solo le donne. È una scelta strategica che può rendere i modelli di sviluppo – presenti e futuri – più equi, inclusivi e rappresentativi della pluralità di competenze e visioni presenti nella società. Come sottolinea Silvana Perfetti di Deloitte, un Paese che investe davvero nel talento femminile investe nel proprio futuro.



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