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DAZI USA, CON LE ESENZIONI L’IMPATTO SULLE IMPRESE ITALIANE CALA A 6,7–7,5 MILIARDI


Il Centro studi dell’associazione. Nel triennio 2025-2027 anni pil cumulato tra il meno 0,15% e il meno 0,4%. Il vicepresidente Spadafora: «Non è uno shock sistemico, abbiamo il tempo di assorbire e redistribuire il costo della nuova politica commerciale americana»

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L’impatto dei nuovi dazi al 15% concordati tra Stati Uniti e Unione europea sulle esportazioni italiane potrebbe essere sensibilmente inferiore rispetto alle stime iniziali. Ciò perché alcuni settori chiave, come il farmaceutico, le specialità chimiche e parte dei beni ad alta tecnologia, saranno soggetti a esenzioni totali o parziali. A fronte di un export complessivo verso gli Usa pari a circa 66-70 miliardi di euro, l’esposizione effettiva delle imprese italiane ai dazi si ridurrebbe quindi a una base tra 45 e 50 miliardi di euro. Di conseguenza, il costo diretto stimato per le aziende si attesterebbe in un intervallo compreso tra 6,7 e 7,5 miliardi di euro, rispetto ai quasi 10 miliardi ipotizzati in precedenza.

È quanto stima il Centro studi di Unimpresa, dopo l’intesa annunciata ieri tra Usa e Ue che fissa un dazio generalizzato del 15% sulla maggior parte dei beni europei, secondo la quale l’impatto risulterà inoltre distribuito in modo disomogeneo, con una maggiore pressione sui settori a bassa elasticità di prezzo e una tenuta maggiore per il Made in Italy di fascia alta.  L’export italiano verso gli Usa nel 2024 è stato tra i 66 e i 70 miliardi di euro e, sulla base alle prime stime, l’onere lordo teorico dei dazi avrebbe potuto collocarsi tra i 9,9 e i 10,5 miliardi. Tuttavia, l’effetto effettivo sarà attenuato da esenzioni settoriali, capacità di riassorbimento nei margini e riorganizzazioni produttive che fanno calare l’impatto tra i 6,7 e i 7,5 miliardi.

L’impatto macro sull’Italia potrà essere contenuto tra lo 0,15% e lo 0,4% di pil cumulato nel triennio 2025–2027, con una incidenza nel 2025 compresa tra 0,1% e 0,2%. I settori più esposti sono meccanica (27% dell’export verso Usa), chimico-farmaceutico (20%), moda (17%), agroalimentare (12%), trasporti (11%) e beni di lusso (9%), ma le deroghe previste per alcune categorie – come farmaci, semiconduttori e componentistica aeronautica – contribuiranno a limitare i costi.

Quanto all’occupazione, i precedenti calcoli su uno scenario al 10% ipotizzavano fino a 118.000 posti a rischio in Italia: oggi, con un quadro più definito e strumenti di compensazione attivabili, il possibile impatto è stimato nell’ordine delle decine di migliaia.

«Il dazio al 15% non è una buona notizia, ma non è uno shock sistemico: le imprese italiane dispongono di tempo, strumenti e mercati alternativi per assorbire e redistribuire il costo della nuova politica commerciale americana. In termini macro, gli effetti sul pil italiano appaiono gestibili e probabilmente inferiori a mezzo punto cumulato nel medio periodo, con una traiettoria che dipenderà dalle esenzioni finali, dalla capacità di riposizionamento settoriale e dalle misure di supporto europee e nazionali. L’accordo è un compromesso che riduce il rischio di guerra commerciale e consente alle imprese italiane di affrontare l’impatto con strumenti e margini di manovra adeguati. La chiarezza normativa, la possibilità di rinegoziare contratti e la diversificazione dei mercati possono facilitare una gestione ordinata della transizione. La priorità, ora, è tradurre l’accordo politico in norme operative chiare, velocizzare i canali di diversificazione e sostenere le pmi nelle strategie di pricing, hedging e presenza produttiva negli Stati Uniti. In questo modo, l’Italia può contenere l’impatto e continuare a presidiare il mercato americano, preservando occupazione e valore aggiunto» commenta il vicepresidente di Unimpresa, Giuseppe Spadafora.

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Secondo quanto si legge nel documento del Centro studi di Unimpresa, l’intesa annunciata ieri, 27 luglio 2025, tra Stati Uniti e Unione europea fissa un dazio generalizzato del 15% sulla maggior parte dei beni europei diretti sul mercato americano, evitando l’ipotesi (molto più penalizzante) di tariffe al 30%. Restano al 50% acciaio e alluminio, mentre per alcune categorie sono previste eccezioni o quote (il perimetro preciso è ancora in via di chiarificazione, per quanto riguarda farmaceutica, semiconduttori e alcune chimiche). L’accordo include impegni europei a maggiori acquisti di energia, semiconduttori e forniture per la difesa negli Usa, oltre a investimenti nell’economia americana (600 miliardi di dollari). È dunque un compromesso che dà certezza regolatoria e ridimensiona il rischio di guerra commerciale, pur imponendo un costo non trascurabile alle imprese esportatrici europee e italiane. 

Quanto vale l’esposizione italiana

Nel 2024 l’export italiano verso gli Stati Uniti è stato fra 66 e 70 miliardi di euro (70,2 miliardi di dollari). Assumendo come base 66‑70 miliardi di euro, un dazio “piatto” del 15% implicherebbe un onere lordo teorico di 9,9‑10,5 miliardi di euro. Questa è però una stima di primo giro: va ridotta in funzione delle esenzioni settoriali che il testo finale del deal elencherà, della capacità delle imprese di assorbire una quota del dazio nei margini, del potere di prezzo nelle nicchie premium e dell’eventuale parziale rilocalizzazione produttiva negli Usa (greenfield, M&A, contratti di subfornitura locale) per mitigare l’effetto tariffario. 

Lettura prudente dell’impatto macro

Le valutazioni del Centro studi di Unimpresa realizzate prima dell’accordo, formulate sullo scenario “hard” al 30%, stimavano un impatto fino a ‑0,8% di pil nel 2027. Con un’aliquota dimezzata al 15% e con carve‑out settoriali in via di definizione, il danno macro per l’Italia può essere ragionevolmente ridimensionato a un ordine di grandezza compreso tra ‑0,15% e ‑0,4% di PIL cumulato nel triennio 2025‑2027, con effetti concentrati sui settori più price‑sensitive e sulle filiere a maggior contenuto di componentistica importata dall’Ue e riesportata negli Usa. Una stima prudente per il 2025 vede un impatto nell’ordine di uno‑due decimi di punto di pil (0,1‑0,2%), suscettibile di essere assorbito da politiche di diversificazione e dai normali cicli di rinnovo degli ordini.

Settori: chi è più esposto e perché l’effetto sarà eterogeneo

La struttura merceologica dell’export italiano verso gli Usa è concentrata in pochi grandi comparti. Utilizzando come benchmark 66‑70 miliardi di euro complessivi, le quote e i possibili “dazi teorici” (prima di esenzioni e aggiustamenti) sono le seguenti: meccanica e macchinari 27% (18 miliardi di euro, dazio teorico 2,7 miliardi);chimico‑farmaceutico 20% (13 miliardi di euro, 2,0 miliardi)moda‑pelle 17% (11 miliardi di euro, 1,65 miliardi);agroalimentare e bevande 12% (8 miliardi di euro, 1,2 miliardi)trasporti 11% (7 miliardi di euro, 1,05 miliardi);occhialeria, gioielli, arredamento 9% (6 miliardi di euro, 0,9 miliardi). La copertura effettiva del 15% su ciascuna categoria dipenderà dal testo attuativo: le prime ricostruzioni giornalistiche indicano accise confermate su auto, possibile esclusione o trattamento speciale per alcune chimiche, semiconduttori e parti aeronautiche, e tetto al 50% su acciaio/alluminio che resta invariato. Per l’agroalimentare, l’esperienza dei contenziosi passati (es. Airbus‑Boeing) suggerisce che liste di prodotti specifiche possono limitare l’esposizione su singole DOP/IGP. 

Occupazione e catene del valore: perché i numeri vanno letti con cautela

Prima dell’accordo, per un dazio al 10% era stato stimato un rischio fino a 20 miliardi di export e consequenziale perdita di 118.000 posti di lavoro. Un semplice “pro‑rata” al 15% porterebbe a numeri più alti, ma sarebbe imprecisoapplicarlo meccanicamente: il profilo di esenzioni, la maggiore prevedibilità del quadro regolatorio, la possibilità di ri‑prezzare contratti pluriennali, la copertura con hedging valutari e la delocalizzazione parziale negli Usaridurranno l’impatto lordo iniziale. È più realistico parlare, oggi, di un ordine di grandezza occupazionale nell’intorno delle centinaia di migliaia per l’intera Ue e di decine di migliaia per l’Italia, con traiettoria dipendente dalla durata del regime tariffario e dalla risposta di politica industriale europea. 

Perché il messaggio alle imprese (e ai mercati) può essere rassicurante

Tre elementi giocano in favore di una gestione ordinata dell’impatto. Primo, certezza delle regole: un’aliquota nota (15%) è gestibile meglio di una minaccia mobile al 30%, consentendo di rinegoziare listini e contratti di fornitura e acquisti. Secondo, diversificazione geografica: il sistema produttivo italiano ha già dimostrato, in passato, di saper ri‑indirizzare parte dell’export verso Asia, America Latina, Africa e Medio Oriente, preservando volumi e valore aggiunto. Terzo, strumenti europei e nazionali di mitigazione: credito all’export (SACE), garanzie per investimenti produttivi negli USA e politiche fiscali mirate per le PMI possono attenuare l’onda d’urto iniziale. Infine, carve‑out e quote in alcuni settori strategici (chimico‑farmaceutico, semiconduttori, componentistica aeronautica) limiteranno ulteriormente l’impatto effettivo sul valore esportato. 

L’impatto finale da 7,5 miliardi

Alla luce delle prime anticipazioni sull’accordo tra Stati Uniti e Unione europea, è ragionevole ipotizzare che una quota rilevante dell’export italiano verso il mercato americano possa beneficiare di esenzioni totali o parziali dai nuovi dazi. In particolare, settori strategici come il farmaceutico, alcune specialità chimiche, i prodotti aerospaziali e parti dei beni ad alta tecnologia potrebbero essere esclusi o soggetti a regimi tariffari ridotti, grazie a carve-out tecnici inseriti nel testo dell’intesa. Considerando che il comparto chimico-farmaceutico vale circa 13 miliardi di euro e che una parte significativa di questo valore potrebbe restare fuori dal perimetro dei dazi, è plausibile stimare che l’esposizione effettiva dell’Italia al nuovo regime tariffario si attesti su un ammontare compreso tra 45 e 50 miliardi di euro, rispetto ai circa 66-70 miliardi complessivi dell’export. Applicando a questa base un’aliquota del 15%, il costo diretto per le imprese italiane si collocherebbe dunque in un intervallo compreso tra i 6,7 e i 7,5 miliardi di euro, inferiore rispetto alla stima lorda iniziale (9,9-10,5 miliardi) e comunque distribuito in modo eterogeneo tra settori e filiere produttive. Tale valutazione, pur prudenziale, consente di ridimensionare i timori iniziali e di leggere con maggiore equilibrio l’impatto reale dell’accordo sul tessuto economico nazionale.

Grafico – L’effetto sul Made in Italy dei dazi USA al 15%

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