Pur con tutti i suoi difetti, la politica europea di coesione è stata preziosa nel finanziare progetti innovativi e contrastare le disparità. Il bilancio 2028-2034 segue un approccio meno regionalizzato di distribuzione delle risorse. Con più di un rischio.
Un nuovo approccio per la coesione
La Commissione europea ha da poco presentato una proposta di bilancio pluriennale dell’Ue per il 2028-2034. Si tratta di un quadro finanziario che vale circa 1800 miliardi e che include forti elementi di discontinuità rispetto al passato, non tanto dal punto di vista delle risorse complessive, circa 1,15 per cento del reddito nazionale lordo in linea con il precedente bilancio, ma piuttosto sotto il profilo della composizione e delle priorità.
Accanto agli aspetti innovativi, il nuovo budget penalizza fortemente alcune politiche storiche. Il Fesr – Fondo europeo per lo sviluppo regionale – introdotto nel 1975 con l’obiettivo di ridurre le disparità economiche, sociali e territoriali tra le regioni europee, è un acronimo che è stato di fatto rimosso dal vocabolario comunitario nella proposta di regolamento. Le risorse vanno a confluire in un nuovo fondo per la coesione, l’agricoltura e lo sviluppo rurale, la pesca e la politica marittima, la prosperità e la sicurezza.
Al di là della semantica, l’utilizzo delle risorse avviene seguendo un approccio nuovo per la coesione. Da un lato, vi sarebbe una maggiore centralità dei governi nazionali e della Commissione a discapito dei territori. Infatti, la proposta introduce i piani di partenariato nazionali e regionali per gli investimenti e le riforme, vagliati dalla Commissione, che prendono il posto dei programmi in capo alle autorità di gestione. Inoltre, come per il Pnrr, i pagamenti si fonderebbero sul conseguimento soddisfacente di traguardi e obiettivi, anziché sul rimborso delle spese ammissibili. Entrambe le novità possono avere risvolti positivi ma si prestano anche a critiche. È vero che la gestione regionale dei programmi Fesr non è stata buona, storicamente, almeno in termini di capacità di utilizzo dei fondi, ma i programmi gestiti centralmente non hanno dimostrato di funzionare meglio. D’altro canto, l’approccio basato sulla performance, ossia sul conseguimento di traguardi e obiettivi, non si è distinto per efficienza e rapidità, come sottolinea la Corte dei conti europea, mentre l’evidenza sull’efficacia dei Pnrr è ancora limitata.
La trappola dello sviluppo
Ma ci sono altri rischi più grandi all’orizzonte. In Europa, permangono gravi disparità regionali che rappresentano un freno alla competitività e alla capacità del continente di esercitare un ruolo di primo piano nello scenario globale. Appena ci si allontana dai centri più dinamici, la stagnazione economica e la fuga di cervelli, complici le crisi demografiche e climatiche, si aggravano. In queste aree, la debole capacità di innovazione e gli insufficienti investimenti qualificati si combinano con una bassa qualità dei governi e della capacità amministrativa. Tutto ciò fa sì che molte regioni si ritrovino in una “trappola dello sviluppo”, non riuscendo a progredire oltre un certo livello di crescita economica. A causa di queste dinamiche, la polarizzazione territoriale è molto significativa, come indica per esempio la mappa qui sotto, che mostra la crescita regionale rispetto a quella nazionale nel periodo 1991-2023. Infatti, la maggior parte delle regioni europee è cresciuta meno della media nazionale (aree più chiare) nel periodo considerato, mentre le regioni che si sviluppano più della media sono prevalentemente quelle che ospitano le capitali e i centri urbani più dinamici (aree più scure).
La revisione sostanziale della politica di coesione, anticipata dalla proposta di bilancio 2028-2034, non solo non tiene sufficiente conto di questi problemi, ma allontanandosi di fatto da un approccio “place-based policy”, ossia di politiche progettate tenendo conto delle caratteristiche specifiche di un territorio, a vantaggio di scelte calate dall’alto e poco inclusive, può essere vista addirittura come un segnale antidemocratico e determinare un ulteriore distacco dei cittadini dalle istituzioni europee.
Su quest’ultimo punto va detto che la disconnessione tra istituzioni e territori già c’è ed è acuita anche dalla inefficacia della comunicazione dei risultati e del valore aggiunto delle politiche dell’Ue, che dà fiato alle compagini sovraniste. Le quali riescono a utilizzare fino in fondo gli strumenti della propaganda e delle fake news per soffiare sul fuoco dell’euroscetticismo e del nazionalismo isolazionista, come dimostra l’esempio di Reform UK che nonostante i danni prodotti dalla Brexit, è oggi, secondo i sondaggi, il primo partito nel Regno Unito.
All’indomani della presentazione della proposta di bilancio, il vicepresidente esecutivo della Commissione per la coesione e le riforme si è affrettato a rassicurare il Parlamento europeo sul fatto che il nuovo budget non si tradurrà in un ridimensionamento di risorse e ruolo per le regioni, ma ciò probabilmente non basterà a placare gli animi, in particolare nei paesi regionalizzati come l’Italia. Il negoziato sarà lungo e duro. Sarebbe singolare se la politica di coesione, che nonostante tutti i suoi problemi è stata preziosa nel finanziare progetti innovativi e contrastare le disparità, anziché essere rafforzata, venisse sforbiciata irreversibilmente proprio quando in Commissione c’è un italiano, peraltro del Sud. I prossimi mesi saranno cruciali per comprendere in quale direzione ci porteranno i negoziati ma, in una fase storica caratterizzata da una situazione internazionale così delicata, si può auspicare che l’Europa non perda la sua leadership nel contrasto alle disparità.
Figura 1 – Mappa della crescita economica regionale rispetto alla crescita nazionale, 1991-2023
Fonte: Report of the high-level group on the future of cohesion policy, 2024
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