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“il limite dei 15 dipendenti non ha più senso”


In una storica sentenza sul Jobs Act, la Corte Costituzionale non si è limitata a cambiare le regole sui risarcimenti, ma ha messo in discussione il totem dei 15 dipendenti, il limite che da 50 anni definisce le tutele nel lavoro. Un’analisi di come questo numero anacronistico incentivi il “nanismo aziendale” e l’elusione, e di come anche le alternative, come il fatturato, nascondano nuove e pericolose trappole.

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Nascosta tra le pieghe della storica sentenza con cui ha demolito il tetto di sei mensilità per i licenziamenti nelle piccole imprese, la Corte Costituzionale ha lanciato una bomba a orologeria destinata a scuotere dalle fondamenta il diritto del lavoro italiano. I giudici, infatti, non si sono limitati a correggere una norma del Jobs Act, ma hanno osato mettere in discussione il “dogma” più antico e controverso del nostro sistema: il limite dei 15 dipendenti. Per oltre cinquant’anni, questo numero ha agito come uno spartiacque, creando due mondi del lavoro con diritti e tutele profondamente diversi. Ora, la Consulta suggerisce che questo criterio non ha più senso, che è un relitto di un’altra epoca economica, incapace di rappresentare la reale forza di un’impresa nel XXI secolo. Questa presa di posizione apre un Vaso di Pandora, costringendo la politica e le parti sociali a confrontarsi con una verità scomoda che per anni si è preferito ignorare: il limite dei 15 dipendenti non è solo obsoleto, ma è diventato una delle cause primarie del “nanismo imprenditoriale” che affligge l’economia italiana, una gabbia che incentiva le imprese a non crescere e, talvolta, a barare.

Un totem del ‘900, la nascita e la vecchiaia del limite dei 15 dipendenti

Per capire la portata di questa affermazione, bisogna fare un passo indietro fino al 1970. Quando lo Statuto dei Lavoratori introdusse la tutela reintegratoria (il famoso articolo 18), la fissò al di sopra della soglia dei 15 dipendenti. La logica, all’epoca, era chiara e legata a un’economia fordista, basata su fabbriche e grandi uffici. Il numero di addetti era un indicatore diretto e affidabile della dimensione, della complessità e della forza economica di un’impresa. Un’azienda con 16 dipendenti era considerata sufficientemente strutturata da poter sopportare il costo e l’onere organizzativo del reintegro di un lavoratore licenziato ingiustamente.

Oggi, in un’economia dominata dai servizi, dalla digitalizzazione e dall’automazione, questo automatismo è completamente saltato. Una startup innovativa con 10 ingegneri e una potente infrastruttura di intelligenza artificiale può generare un fatturato e profitti enormemente superiori a un’impresa manifatturiera tradizionale con 30 dipendenti. Un’azienda ad alta tecnologia può essere un gigante economico pur avendo pochissimo personale. La legge, ancorata a un parametro novecentesco, si trova così a trattare come “piccola” e fragile un’impresa magari molto più performante e solida di un’altra considerata “grande”, creando palesi distorsioni.

Il ‘nanismo imprenditoriale’ indotto, come la legge frena la crescita e incentiva l’elusione

L’effetto più perverso di questo limite anacronistico è quello che gli economisti chiamano “costrizione al nanismo imprenditoriale”. Invece di essere un incentivo alla crescita, la soglia dei 15 dipendenti è diventata un muro psicologico e legale che moltissimi imprenditori fanno di tutto per non superare. Questo avviene principalmente in due modi:

  1. la rinuncia ad assumere: è il caso più semplice e diffuso. Un’impresa arriva a 14 dipendenti e, pur avendo le potenzialità per espandersi, rinuncia ad assumere la quindicesima o sedicesima persona per non “fare il salto”, ovvero per non entrare nel regime di tutele (e di costi potenziali in caso di contenzioso) previsto per le aziende più grandi. Si preferisce rimanere piccoli e meno produttivi, piuttosto che crescere e affrontare una maggiore complessità normativa;
  2. la frammentazione elusiva: è la strategia più sofisticata e giuridicamente più rischiosa. Un imprenditore, invece di avere un’unica azienda con 30 dipendenti, ne crea tre diverse, ciascuna con 10 dipendenti, magari intestate a familiari o a società di comodo. In questo modo, ogni singola entità rimane al di sotto della soglia, pur facendo parte dello stesso gruppo produttivo. È una forma di elusione che mira a ottenere i benefici normativi delle piccole imprese pur avendo, di fatto, la forza di una media impresa.

Entrambe queste strategie, incentivate da una legge obsoleta, contribuiscono a mantenere il tessuto produttivo italiano frammentato, poco competitivo e refrattario alla crescita dimensionale, che è uno dei suoi più gravi problemi strutturali.

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La via d’uscita della Consulta, l’ipotesi del fatturato (e i suoi rischi)

La Corte Costituzionale, nel suggerire al legislatore di superare il criterio del numero dei dipendenti, indica essa stessa una possibile alternativa: il fatturato. L’idea è che il fatturato sia un indicatore più moderno e veritiero della reale forza economica di un’impresa e, quindi, della sua capacità di sostenere i costi legati a tutele lavorative più stringenti.

Tuttavia, come fa notare l’autore del commento, anche questa soluzione nasconde delle trappole enormi. Se si stabilisse una soglia di fatturato (ad esempio, un milione di euro) per il passaggio da “piccola” a “grande” impresa, si ricreerebbe lo stesso identico incentivo perverso. Gli imprenditori sarebbero spinti a non superare quella soglia, magari rinunciando a commesse o a opportunità di crescita pur di non “fare il salto”.

Ma c’è un rischio ancora peggiore: un criterio basato sul fatturato creerebbe un nuovo e potentissimo incentivo all’evasione fiscale. Per rimanere legalmente “piccola” e beneficiare di norme sul lavoro più favorevoli, un’impresa sarebbe tentata di non dichiarare una parte del proprio fatturato, nascondendolo al Fisco. Una norma pensata per il diritto del lavoro finirebbe per avere effetti devastanti sulla compliance fiscale, in un Paese che già lotta contro un’evasione endemica.

Conclusione, la ricerca di un ‘santo graal’ normativo che forse non esiste

La sentenza della Corte Costituzionale ha avuto il merito immenso di scoperchiare un problema per troppo tempo ignorato. Ha certificato che il “re è nudo”: il criterio dei 15 dipendenti è obsoleto e dannoso. Tuttavia, ha anche implicitamente mostrato quanto sia difficile trovare una soluzione. Se il numero di dipendenti è un criterio superato e il fatturato è un incentivo all’evasione, qual è il parametro giusto?

Forse, un “santo graal” normativo, un singolo indicatore perfetto, semplicemente non esiste. La sfida per il legislatore, ora che la Consulta ha aperto il dibattito, sarà quella di immaginare un sistema più complesso e multi-fattoriale, che magari tenga conto di una combinazione di elementi (dipendenti, fatturato, valore degli asset, settore di appartenenza) per definire in modo più realistico e meno distorsivo la dimensione di un’impresa. L’alternativa è continuare a basare una delle architravi del nostro diritto del lavoro su un numero arbitrario, nato in un’altra era geologica dell’economia, che oggi produce più danni che benefici. La Corte ha indicato il problema; alla politica, ora, spetta il difficile compito di trovare una soluzione che sia finalmente all’altezza del XXI secolo.



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