Un emendamento che cambia le regole
Nel cuore dell’estate, mentre i riflettori sono altrove, arriva una norma destinata a riscrivere le fondamenta del diritto del lavoro. Un emendamento firmato dal deputato di Fratelli d’Italia Salvo Pogliese è stato inserito nel cosiddetto decreto ex Ilva — che dovrebbe occuparsi della crisi industriale di Taranto — per introdurre una rivoluzione silenziosa ma profonda: la cancellazione retroattiva delle violazioni retributive anteriori al 2020 per le aziende con oltre 15 dipendenti.
Il testo stabilisce che i crediti retributivi — ossia straordinari non pagati, ferie non godute, tredicesime non erogate, premi contrattuali ignorati — vadano in prescrizione dopo cinque anni anche se il lavoratore è ancora alle dipendenze dell’azienda. Fino ad oggi, la giurisprudenza della Cassazione aveva sempre escluso che il termine decorresse “in costanza di rapporto”, per evitare che il lavoratore fosse costretto a scegliere tra lo stipendio e il posto.
Ora non più: se entro 180 giorni dalla diffida formale non si avvia una causa, il diritto decade. Nessuna mediazione, nessun passaggio conciliativo. Solo l’obbligo per il lavoratore di esporsi, con il rischio di essere licenziato. Una prospettiva che, secondo le sigle sindacali, porterà a un “congelamento della giustizia”, perché “nessuno si muoverà per paura”.
Un assist all’impresa: “Finalmente certezza del diritto”
I primi a esultare sono le associazioni datoriali, da Confcommercio a Confapi, che parlano di “certezza del diritto restituita”. Ma la certezza, denunciano i giuslavoristi, è tutta a senso unico. La possibilità di recuperare arretrati risalenti anche a 10-15 anni fa — soprattutto nei settori a basso tasso di sindacalizzazione — viene di fatto annullata. Per la giurista Silvia Borelli “siamo di fronte a un condono surrettizio e retroattivo, con effetti devastanti su lavoratori già deboli”.
Il riferimento è chiaro: si colpiscono solo i dipendenti delle imprese sopra i 15 addetti, quelli teoricamente più tutelati. Nelle aziende più piccole, dove già vigono regimi più flessibili, resta possibile far valere i propri diritti anche dopo la fine del rapporto. Una differenza che la stessa Corte costituzionale aveva più volte giudicato critica, ma che l’emendamento ignora.
Giudici con le mani legate
La seconda parte del testo — ancora più insidiosa — riguarda l’interpretazione dell’articolo 36 della Costituzione, quello che garantisce una retribuzione “proporzionata e sufficiente”. D’ora in poi, se un’azienda applica un contratto collettivo sottoscritto da organizzazioni sindacali “comparativamente più rappresentative”, la retribuzione si presume automaticamente “giusta”.
E non basta che il giudice ritenga la paga inadeguata: deve dimostrarne la “grave inadeguatezza”. Non solo. Anche se la dimostrazione c’è, il datore di lavoro non sarà tenuto a pagare arretrati. Dovrà solo adeguare lo stipendio dal momento della diffida o dell’avvio della causa. Il passato, ancora una volta, viene cancellato.
“È un attacco diretto all’articolo 36 e all’indipendenza dei giudici”, denuncia il segretario confederale della Uil, Domenico Proietti. “Si introduce un principio abnorme: i contratti firmati da sigle rappresentative non potranno più essere sindacati. Anche se prevedono paghe da cinque euro l’ora”.
Opposizione e sindacati: “Una norma incostituzionale”
Il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle hanno chiesto il ritiro immediato dell’emendamento. Maria Cecilia Guerra, responsabile Lavoro del PD, ha parlato apertamente di “una norma indecente, che legalizza lo sfruttamento e nega ogni tutela”. Anche la segretaria della Cgil, Elly Schlein, ha commentato in conferenza stampa: “È un regalo all’illegalità. Premia chi ha violato la legge e punisce chi lavora onestamente”.
La Cisl, impegnata in quei giorni nel congresso nazionale, non ha rilasciato dichiarazioni ufficiali. Ma secondo fonti interne, anche dentro la confederazione di Sbarra c’è “forte preoccupazione per il precedente che si sta creando”.
Una prescrizione costruita su misura per l’evasione
I numeri dell’evasione retributiva e contributiva in Italia sono impressionanti. Secondo i dati pubblicati dall’Inps, i crediti contributivi non riscossi ammontano a oltre 120 miliardi di euro. Ogni anno, tra Inps e Inail, si perdono tra gli 11 e i 12 miliardi per mancati versamenti.
Nel corso degli ultimi dieci anni, il numero degli ispettori del lavoro è stato dimezzato. Da 1.500 a poco più di 700. Il concorso annunciato nel 2023 per assumerne 380 è ancora fermo. “Non si controlla a monte e si limita l’azione a valle”, denuncia il sociologo del lavoro Michele Raitano. “È la logica del ‘non disturbare chi fa’, portata alle estreme conseguenze”.
Un precedente pericoloso: domani toccherà ad altri diritti?
La domanda, ora, è cosa accadrà dopo. L’emendamento Pogliese rischia di diventare un modello: colpire nel silenzio agostano, approfittare della scarsa copertura mediatica, inserire modifiche strutturali in provvedimenti che non c’entrano nulla. È già accaduto con la sanatoria sui contributi previdenziali, e potrebbe accadere ancora su ferie, malattia, permessi sindacali.
Secondo il giuslavorista Arturo Maresca, “questa operazione ha un messaggio chiaro: i diritti non sono più diritti, ma variabili negoziabili. E si possono azzerare se disturbano”.
Un attacco strategico alla giustizia sociale
Quello che il governo chiama “semplificazione”, è in realtà una rimozione sistematica degli strumenti di tutela. La prescrizione anticipata, la limitazione del potere del giudice, l’immunità per i contratti collettivi, formano un pacchetto coerente che mira a scoraggiare ogni forma di rivendicazione.
Non è una questione tecnica, ma politica. Una scelta netta: tra il lavoratore e il datore, il governo sta dalla parte di chi comanda. E intanto, milioni di italiani continuano a lavorare senza sapere se verranno mai pagati per intero. Ora anche la legge si volta dall’altra parte.
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