Se Corrado Passera è come i gatti inglesi, che hanno nove vite, professionalmente ne ha ancora a disposizione un paio, dopo le precedenti sette in cui è stato amministratore delegato di Olivetti, del gruppo L’Espresso, di Poste Italiane, di Banca Intesa (e post-fusione di Intesa Sanpaolo), ministro per lo Sviluppo economico nel governo Monti, leader del suo partito Italia Unica e infine ad di Banca Illimity. Di certo, dopo la conclusione di quest’ultima avventura a seguito dell’opa di Banca Ifis, ha ancora voglia di mettersi in gioco. Il tempo di passare le consegne ai nuovi proprietari e sarà pronto per una nuova sfida, dettata da una duplice necessità. Una interiore, dovuta alla voglia di sperimentare sempre cose nuove, e una più prosaica tesa a guadagnare. Tanto più che la cessione delle sue azioni di Illimity nell’opa è stata un bagno di sangue: si calcola che abbia perso almeno la metà di quanto aveva investito, mentre la banca era arrivata a un certo punto a valere 5 o 6 volte l’attuale valore.
Timing sbagliato, si direbbe. Ma il timing di una ops (offerta pubblica di scambio di azioni) ostile non la decide chi è costretto a dire di sì alla vendita in assenza di opzioni alternative. Passera ha spiegato più volte che l’attuale valore di Illimity non rispecchia la sua reale valutazione, e che Banca Ifis ha approfittato di una congiuntura negativa per mettere a segno un bel colpo.
Di certo, a 70 anni, Passera deve ancora rimettersi in gioco. E a uno con una famiglia composta di cinque figli e sei nipoti (nati dai primi due figli, ormai grandi) i soldi non bastano mai per garantire a tutti un’agiata esistenza. Persona dalle grandi passioni anche sociali e politiche, di certo non ha mai guardato alla sola convenienza economica quando ha fatto le sue scelte. Ad esempio, lasciare la guida di Intesa Sanpaolo nel 2011, dopo aver portato a termine una delle più grandi e complesse fusioni bancarie, per andare a fare il ministro dello Sviluppo economico nel governo di Mario Monti può non essere stata una scelta felice dal punto di vista egoistico. “Sarei rimasto mille anni in Intesa Sanpaolo”, ha detto in più occasioni. Ma a convincerlo ad affrontare la sfida del ministero fu l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Nel 2011 l’Italia era sotto attacco da parte dei mercati per il suo debito pubblico. Napolitano, come racconta lo stesso Passera nel libro a più voci edito dal Senato “Giorgio Napolitano, Testimonianze e prospettive a 100 anni dalla nascita”, lo aveva chiamato a esprimere il suo parere per salvare il paese dalla crisi del debito che stava per portare in Italia la troika guidata dal Fondo monetario. Passera presentò di lì a breve uno studio. Con la costituzione del governo Monti, lo stesso Napolitano gli chiese di assumere l’incarico dicendo: “Ora può mettere in pratica il suo piano”.
Mossa forse infelice, ma a quel tempo considerata dovuta (oggi farebbe ridere Donald Trump e non solo lui in un mondo che ha fatalmente perso il senso della correttezza istituzionale), fu anche l’idea di vendere le sue stock option di Intesa Sanpaolo, per evitare il sospetto che la sua azione politica potesse avvantaggiare la banca che aveva lasciato. Ma il timing anche qui non era dei migliori, visto che l’Italia era sotto attacco, e pure le banche soffrivano per la crisi del debito. Se le avesse conservate per qualche anno, chissà, forse ora potrebbe vivere di rendita.
Anche la scelta di entrare in politica, fondando un suo partito di centro, Italia Unica, pare aver penalizzato Passera, che tentò di diventare sindaco di Milano nel 2016. L’idea di molti grandi manager e di imprenditori di riuscire a trasporre la loro precedente esperienza nella politica si rivela quasi sempre una grande illusione. La politica ha le sue regole, le sue specificità, e forse è roba da politici di professione. Certo, qualcuno ce l’ha fatta, basta pensare ai casi più clamorosi di Silvio Berlusconi prima e di Donald Trump poi. Ma sono eccezioni che confermano la regola. Eppoi, soprattutto da qualche anno a questa parte il cliché è cambiato: bisogna avere una certa dose di sfacciataggine, irriverenza, egoismo, attitudine a giocare sporco. Passera non sembra proprio corrispondere a questo tipo umano.
Passera tende invece a coinvolgere chi lavora con lui, a puntare su obiettivi razionali, a riconoscere anche le ragioni degli altri. Addirittura a fare autocritica, a volte (dote davvero rara, come riconosce Sara Faillaci nel libro scritto con lo stesso manager “Ricomincio da cinque” del 2016). Non è proprio quello che serve oggi per farsi largo nella politica.
Eppure le qualità di Passera sono di indiscutibile valore. In qualche modo tende a ricercare per sé la completezza dell’Uomo Rinascimentale, con la sperimentazione di competenze varie e soprattutto con la continua ricerca di nuove esperienze in modo da essere non soltanto un manager ma un uomo a 360 gradi. Pochi grandi amministratori delegati si sono cimentati, ad esempio, nella guida di un’impresa pubblica. Quando, nel 1998, accettò di diventare amministratore delegato di Poste Italiane, nel governo di Romano Prodi presidente del Consiglio e con Carlo Azeglio Ciampi ministro del Tesoro, l’impresa di risanare Poste sembrava davvero una mission impossible. Chi ha più di cinquant’anni ricorderà cosa fossero le Poste prima della “cura Passera”: da sempre feudo della Dc, l’azienda non si poteva davvero definire un’impresa. Bensì, come scrivevano a quel tempo, e giustamente, i giornali, un “carrozzone” il cui scopo principale era erogare posti di lavoro per acquisire clientele. Del funzionamento manco a parlarne. Invece Passera – prendendo 140mila euro lordi all’anno, oggi ma anche allora una miseria per un manager di quel calibro – operò in pochi anni, dal 1998 al 2002, una trasformazione epocale, creando Bancoposta, che diventa di fatto una banca, e la divisione assicurativa che avrebbe poi dato grandi soddisfazioni fino a diventare una delle prime compagnie italiane.
Competenze nella guida di grandi imprese sia private che pubbliche (e queste ultime non sono da tutti), esperienza nelle istituzioni e in politica, Passera ha un pedigree di assoluta rilevanza. E in altri Paesi sarebbe forse stato sfruttato di più. Ma dal punto di vista economico, le cose sarebbero potute andar meglio per lui se si fosse concentrato soltanto sul business, e soprattutto sulla propria convenienza personale. Forse questo è il suo rimpianto, e chissà, di tanto in tanto forse ci pensa anche lui, anche se professa di essere uno che guarda sempre avanti e mai indietro. Certo, con Illimity ha avuto anche un po’ di sfortuna. L’idea era giusta, tanto che anche Banca Ifis la porterà avanti. In un Paese dove il sistema produttivo è frammentato, la banca si era concentrata in due settori. Il primo era il credito di sviluppo. Un credito “difficile” alle piccole e medie imprese per acquisizioni, investimenti e fusioni, da cui spesso le banche ordinarie si tengono fuori. Il secondo comparto era quello del credito deteriorato, dagli Npl (imprese già quasi fallite) agli Utp (imprese che stanno cominciando ad avere difficoltà a restituire il credito).
Purtroppo, due cose sono accadute a mandare a monte i piani: il Covid prima, e poi il rialzo improvviso e rilevante dei tassi d’interesse. Illimity prestava a tasso fisso, ma nella nuova situazione ha dovuto finanziarsi con una raccolta a tassi più elevati, ritrovandosi in un transitorio squilibrio economico. Ma anche questa storia è alle spalle. Vedremo presto quale sarà la ottava vita professionale di Passera.
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