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La sterzata verso una sovranità tecnologica europea


Tra una critica e l’altra al Quadro finanziario pluriennale (QFR), proposto nei giorni scorsi dalla Commissione europea per l’orizzonte di bilancio Ue 2028-2034, poca attenzione è stata data alla creazione del Fondo per la competitività europea, evocato nel Rapporto Draghi, forse la seconda principale novità dell’enorme lavoro preparatorio di questi mesi, beninteso dopo la ristrutturazione e unificazione di capitoli di bilancio che da sempre hanno caratterizzato i budget Ue, come i fondi all’agricoltura e alla coesione, in Piani nazionali e regionali di partenariato, ai quali attingere sulla base della realizzazione di programmi di investimenti e riforme, sul modello degli attuali Pnrr. Ed infatti le polemiche, come al solito da sponde diverse e spesso in contraddizione l’una con l’altra, si sono concentrate soprattutto su questo aspetto, oltre che sulle cifre complessive del bilancio proposto (troppo alte secondo alcuni, in primis la Germania, troppo basse secondo altri, a cominciare dal Parlamento europeo) e sulle modalità per finanziarlo, tra le quali strumenti aggiuntivi destinati a suscitare reazioni vivaci come una nuova imposta sulle società con ricavi oltre i 100 milioni di euro e un aumento delle accise sul tabacco. 

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In mezzo a questo tam tam, aggravato dalla gestione non proprio ordinata delle ultime fasi immediatamente precedenti la pubblicazione della proposta e dei documenti collegati, è finito per passare quasi inosservato non tanto il Fondo per la competitività europea di per sé, già ampiamente annunciato, ma soprattutto la sua dotazione di ben 450 miliardi di euro a prezzi correnti (equivalenti a 397 miliardi a prezzi 2025, depurando la somma dall’inflazione attesa nei sette anni del QFR). Una cifra che, spalmata per il periodo in esame, non appare in assoluto così elevata, raggiungendo un picco di 63,3 miliardi di euro a prezzi 2025 nel 2033. Considerato anche che con questa dovrà essere rifinanziato il programma di ricerca Horizon Europe, che mantiene peraltro una sua autonomia, gli investimenti nella difesa e spazio (con il primo che è di fatto una new entry nel budget europeo), quelli nelle tecnologie digitali, della transizione verde e delle scienze della vita. Al capitolo di bilancio del Fondo per la competitività andrebbe comunque aggiunto, in quanto tocca di fatto le stesse materie, la dotazione finanziaria del programma Connecting Europe Facility (81 miliardi di euro a prezzi correnti, 72 miliardi a prezzi 2025), che finanzia le reti energetiche e di trasporto nonché, per quasi 16 miliardi di euro a prezzi costanti, la mobilità militare. 

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Facendo il confronto con il precedente QFR (2020-2027), ci si rende conto del possibile cambiamento epocale. I fondi per Horizon Europe passano in termini correnti da 90 a 175 miliardi di euro (al netto dell’inflazione, un incremento del 66%). Quelli assegnati al digitale dagli attuali 10 miliardi circa, sommando i programmi Digital Europe e i fondi per il digitale di Connecting Europe Facility, ai 55 miliardi assegnati alla Digital Leadership (anche tenendo conto dell’inflazione, stiamo parlando di un aumento monstre del 470% circa). Con 130 miliardi di euro, difesa e spazio riceverebbero 5 volte quanto percepiscono dall’attuale budget (circa 4,3 volte considerato l’aumento dei prezzi). Anche se è bene precisare che di fatto la difesa è una new entry del bilancio comunitario. Per Connecting Europe Facility, si prevede un incremento di 2,4 volte (circa 2 tenendo conto dell’inflazione). Insomma, la sterzata verso una sovranità tecnologica europea che non si nutra solo di parole utili per convegni trova basi importanti nella proposta della Commissione, se partiamo dal presupposto che, forse poco coraggiosamente ma con una buona dose di realismo, l’esecutivo guidato da Ursula von der Leyen ha fermato la sua richiesta di budget all’1,26% del Pil Ue, di pochissimo superiore all’1,11% del Quadro finanziario pluriennale corrente (2021-2027) tenendo conto che lo 0,11% del nuovo dovrà essere impegnato per ripagare il debito comune contratto con Next Generation EU. 

Dunque, in queste circostanze e data la necessità di raggiungere il consenso unanime degli Stati membri, sarebbe difficile pretendere di più a favore di innovazione e competitività. Così come decisivi saranno le capacità dei budget pubblici nazionali e degli investitori privati a convogliare risorse aggiuntive e proporzionali ai bisogni di crescita del continente, quantificate da Draghi nel suo rapporto in 800 miliardi di euro l’anno. Si tenga presente che storicamente la percentuale di investimenti pubblici coperti dal bilancio comunitario si è tenuta sempre sotto il 12-13% fino agli anni del Next Generation EU, quando è salita a circa il 20%. Dunque, in mancanza di debito comune, sul quale una Commissione più determinata e proattiva, anche sulla scia del rapporto Draghi, avrebbe potuto intestarsi una battaglia che non ha avuto il coraggio di fare, l’Ue dimostra a budget invariato di fare la sua parte o quantomeno di avvicinarvisi. Peraltro, al Fondo per la competitività possono contribuire direttamente anche gli Stati membri e la Commissione, attraverso InvestEU, prevede di rafforzare ulteriormente i meccanismi di garanzia e compartecipazione per mobilitare i capitali privati diretti all’innovazione più di quanto sia stato fatto finora. Anche se in quest’ultimo caso pesa ancora come un macigno l’assenza di un mercato unico dei capitali, dopo tanti anni di chiacchiere e negoziati falliti.

Ora, dopo la mossa della Commissione, la palla passa soprattutto agli Stati membri. Che dovrebbero a loro volta aggiungere risorse a supporto della competitività tecnologica nelle proprie leggi di bilancio (nella difesa ma anche nelle principali tecnologie civili), possibilmente contribuendo al nascituro Fondo per la competitività Ue o quantomeno in una logica coordinata a livello europeo. Ma più a breve termine dovrebbero soprattutto astenersi dal provare a sottrarre risorse al Fondo stesso, cedendo a lobby più agguerrite (ed elettoralmente più influenti). In ultima analisi, dovrebbero scegliere all’unanimità di dare un futuro al Vecchio Continente. È forse chiedere troppo a questa Europa e ai governanti che la guidano?        



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