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Città al tempo della supremazia immobiliare



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Che cosa sta succedendo a Milano? Molti leggono increduli le notizie che arrivano dai media. La città che negli ultimi quindici anni ha attratto capitali e investimenti, rinnovandosi più di molte altre realtà italiane, sembra attraversare una crisi profonda. La Procura di Milano parla di “incontrollata espansione edilizia”, tentando di tirare i fili di una stagione di sviluppo trainata dall’interesse economico: una corsa senza pause che ha trasformato la città, seguendo procedure semplificate e poco trasparenti. Il Comune respinge questa ricostruzione e difende il proprio operato senza esitazione, rivendica la rinascita di una città che era grigia e triste e oggi vanta un posizionamento internazionale.

Dopo anni di narrazioni positive viene in luce anche il lato oscuro di questo sviluppo: i servizi pubblici si fanno più fragili, la qualità della vita peggiora, i giovani faticano a trovare spazio per costruire il proprio progetto di vita, mentre la crisi climatica avanza con sempre maggiore forza. Il modello di sviluppo fondato sulla rendita immobiliare ha prodotto una città con più grattacieli, ma meno accessibile; più ricca ma meno democratica. Anche chi vive lontano e ha figli o nipoti in città sa che il costo della vita ha superato la misura. Si paga anche l’aria.

Se ci atteniamo alle cubature realizzate, dobbiamo dire che un’espansione incontrollata c’è stata. A Milano, negli ultimi dieci anni, si è costruito il 10% delle volumetrie realizzate a livello nazionale – quanto in Piemonte e Toscana messe insieme – secondo una stima spannometrica proposta da Repubblica. Un’espansione edilizia di questa portata, in una città tutto sommato piccola e già densamente urbanizzata, e dove la speculazione sui terreni ha fatto impennare i prezzi, ha prodotto due effetti significativi: da un lato, una crescita verticale, con grattacieli sempre più alti e una densificazione spinta anche in aree già sature (come nel caso dei famosi grattacieli dentro i cortili sotto i riflettori della Procura); dall’altro, ha generato un mercato immobiliare sempre più esclusivo, che rende l’accesso alla casa impossibile per chi non dispone di un patrimonio familiare o di un reddito elevato.

Gli impatti sociali e ambientali di queste scelte urbanistiche appaiono insostenibili. Non possiamo ignorare che, qui come in molte città a vocazione capitalistica, l’adesione al modello immobiliare stia producendo una vera e propria espropriazione economica e sociale. Solo nell’ultimo anno, Milano ha perso 50.000 residenti, soprattutto giovani e famiglie. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: convivenze forzate, traslochi frequenti, affitti in nero in cantine o solai, soluzioni temporanee e precarie. L’abitare è diventato instabile quanto il lavoro.

Abitare la città è diventato un passaggio, non più un progetto di vita. Un tempo si dava per scontato che la città fosse il luogo in cui costruire qualcosa di duraturo; oggi, quel diritto appare sempre più incerto.

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Il mercato abitativo è dominato da logiche speculative e investimenti a breve termine, dove affitti turistici e rendite passive contano più della vita quotidiana. E il sistema trasforma tutto in merce: casa, lavoro, turismo, salute. Questa dinamica non riguarda ovviamente solo Milano: è ormai diffusa anche nelle città universitarie, turistiche, medie e piccole, che adottano logiche proprie delle metropoli globali. Quando l’abitazione diventa un bene di scambio, si spezza il legame tra spazio e identità. Conta solo chi può spendere: i turisti valgono più degli studenti, gli studenti più delle famiglie, le famiglie benestanti più di quelle numerose o vulnerabili.

È il mercato immobiliare a dettare le regole del gioco, perché in un Paese incapace di valorizzare altri settori economici (è in affanno persino l’economia della conoscenza), l’edilizia resta l’unico ambito su cui la politica locale esercita potere diretto, generando rendita e profitto.

La necessità di attrarre investimenti e accorciare i tempi ha giustificato procedure semplificate e poco partecipative, generando anche una espropriazione di natura democratica: niente piani attuativi, pochi passaggi in consiglio, oneri ridotti. Ma quali benefici per la collettività? Chi ha valutato gli impatti? E con quali criteri?

La crisi dei processi decisionali nelle trasformazioni urbane è evidente, manca trasparenza, si abusa di strumenti normativi ambigui, si sostituiscono relazioni istituzionali con reti amicali e informali. Le inchieste milanesi faranno il loro corso – e ci auguriamo confermino le buone intenzioni della giunta – ma il giudizio politico è già possibile: troppe decisioni sono state prese in cerchie ristrette, legate da familiarità e confidenza. Serve una rinnovata consuetudine democratica.

Credo fermamente che le decisioni pubbliche debbano coinvolgere il maggior numero di persone possibile: perché il sapere nasce dal confronto e dall’intelligenza collettiva. Ma passare dalle parole ai fatti è difficile.

Ci siamo abituati a un potere concentrato, considerato naturale: pochi decidono, parlano, si impongono; molti restano in ombra, subalterni, come se il loro pensiero valesse meno. Un potere che si fa confidenza, parola colloquiale, messaggio su chat. Che ha perso i suoi luoghi e i suoi rituali, le sedi dei partiti, le aule delle amministrazioni locali, i seminari pubblici. Le istituzioni, pur formalmente aperte, escludono di fatto.

Che succederà a Milano? Dopo ogni scandalo si apre una fase rituale: lo scalpore, una breve parentesi di riflessione critica. poi la difesa trasversale del sistema, infine un silenzio inesorabile. Tutto si chiude. Tutto si dimentica. La politica si chiude, temendo di lasciare spazio all’avversario, preoccupata del consenso e dalle ricadute di immagine, la società civile si ritrae, spesso incapace di offrire alternative e vie d’uscita, le imprese sane attendono regole certe per operare, chi vuole fare affari ama il silenzio e la fuga dal confronto democratico. E tra tutti i mali è proprio questa la paralisi che più temo, quella da cui dovremo uscire con un atto di creatività civile e democratica.



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