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gli Usa puntano su carbone e petrolio, la Cina converte le miniere in fotovoltaico e l’Europa corre sulle rinnovabili


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Il mondo va diviso nell’utilizzo delle fonti per l’energia. Usa, Europa e Cina stanno attuando politiche divergenti.

Ecco i tre focus.

USA: LA VIA DI TRUMP

di ANGELO PAURA

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Non appena è tornato alla Casa Bianca lo scorso 20 gennaio Donald Trump ha cercato di mantenere una delle promesse della sua campagna elettorale: diminuire gli investimenti in energie rinnovabili per ritornare al carbone, al petrolio, al gas e al nucleare. La strategia del presidente americano si riassume in una frase, che è anche un meme, che ha ripetuto in modo ossessivo in centinaia di comizi. «Drill, baby, drill» – trivella, baby, trivella – uno slogan inventato dall’ex politico repubblicano, ora commentatore moderato, Michael Steele nel 2008 e reso popolare qualche anno dopo dall’ex governatrice dell’Alaska, Sarah Palin. In questo momento Trump sta facendo pressioni sul Giappone e la Corea del Sud affinché investano miliardi di dollari per portare il gas americano in Asia. Inoltre, General Motors ha chiuso il progetto di un impianto per la produzione di auto elettriche vicino a Buffalo, a nord di New York, per investire quasi 900 milioni di dollari in un nuovo motore a benzina.

C’è poi la guerra iniziata contro le pale eoliche, con il presidente che ricorda a tutti che «non investirà» in questo settore e che le pale «fanno diventare le balene pazze», nonostante la scienza affermi che non ci siano prove a sostegno di questa teoria. Il Congresso nel frattempo ha approvato una legge per eliminare gli sgravi fiscali proprio sulle turbine eoliche e sui pannelli solari. Al contrario la Cina negli ultimi dieci anni è diventata quasi monopolista del mercato delle rinnovabili: produce batterie elettriche in tutto il mondo, sta conquistando il settore delle auto elettriche, e nel 2024 ha prodotto più turbine per l’eolico e pannelli solari di tutti gli altri Paesi del mondo sommati. La questione è ancora più paradossale se si pensa che proprio gli Stati Uniti a partire dalle idee del tecno-utopista tedesco John Adolphus Etzler nella prima metà dell’800 sono stati il Paese che più ha sognato un’energia pulita, ricavata «dal sole, dall’acqua e dal vento», come scriveva Etzler. 

Oggi, duecento anni dopo, i tentativi seppur timidi delle scorse amministrazioni di allontanare gli Stati Uniti dal petrolio vengono cancellate: nella nuova legge finanziaria di Trump si prevede di bloccare tutti i fondi federali al settore delle auto elettriche e di sostenere le aziende del petrolio, del gas e del carbone con sussidi da circa 17 miliardi di dollari. Ma prima del budget che Trump ha firmato il 4 luglio, il 25 gennaio aveva firmato un ordine presidenziale che dichiarava lo stato di emergenza che gli ha permesso di investire sulle trivellazioni e sul fracking, diminuendo le regole stabilite da Biden, e inoltre di eliminare l’agenda verde approvata dal suo predecessore nel 2022 con l’Inflation Reduction Act, una legge che ha dato una forte spinta alle rinnovabili negli Stati Uniti, e che prevedeva importanti crediti e abbattimenti sia per le aziende che per i cittadini.
Le proiezioni della Brookings Institution stimavano un credito sulle tasse spendibile negli Stati Uniti per un totale di 780 miliardi di dollari, mentre Goldman Sachs prevedeva che gli incentivi di Biden sarebbero costati 1.200 miliardi di dollari. E intanto l’amministrazione ha colpito in modo ancora più netto il settore delle rinnovabili con una diminuzione del 90% dei fondi: il Dipartimento dell’Energia prevede entro il 30 settembre di colpire i progetti eolici e solari, ma anche i programmi di sostegno statale e locale per le famiglie a basso reddito. I critici definiscono la decisione illegale, sostenendo che il Congresso aveva già approvato quei fondi per progetti specifici. 
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EUROPA: LO SPRINT DELLE RINNOVABILI VERSO IL NUCLEARE

di GABRIELE ROSANA

L’Europa corre sulle rinnovabili e guarda al nucleare per chiudere l’era delle fonti fossili. L’Ue è «sulla buona strada» per raggiungere l’obiettivo che si è prefissata per legge due anni fa, cioè il raggiungimento del 42,5% almeno (e possibilmente del 45%) di rinnovabili nel suo mix energetico entro il 2030. Presi collettivamente, i 27 Paesi Ue sono oggi accreditati di poter arrivare a un buon 41%, target coerente con la strategia per ridurre del 55% le emissioni di CO2 prima della fine del decennio (rispetto ai valori 1990). «In questo modo potremo garantire prezzi dell’energia più bassi e più stabili nel tempo», scrive la Commissione nelle “pagelle” ai piani nazionali per l’energia e il clima diffuse a fine maggio. 
Fin qui le proiezioni. Ma anche stando ai dati reali Bruxelles può dire che il graduale abbandono dell’energia fossile non conosce passi indietro, nonostante un generalizzato rallentamento dell’impianto attuativo del Green Deal, dalla reportistica aziendale sulla sostenibilità a deforestazione e tutela della biodiversità.
Nel 2024, le fonti rinnovabili sono state all’origine della produzione del 47,3% di elettricità in Europa, quasi la metà del totale, generando 1,31 milioni di gigawattora e segnando un aumento di quasi l’8% rispetto all’anno precedente, ha spiegato a inizio luglio un dettagliato report di Eurostat. Il nucleare ha rappresentato il 23,4%, con un +4,8% sul 2023; al contrario, l’offerta di carbone ha continuato a diminuire in maniera netta, sui valori più bassi registrati finora (-10% per la lignite, -13,8% per l’antracite), ed è stata superata dal solare, la fonte che invece è in maggiore espansione. 
Germania e Polonia continuano a essere i maggiori fruitori di carbone nell’Ue, ma anch’esse si attestano ormai sui minimi storici nazionali, secondo quanto emerge dal più recente rapporto del think tank Ember, che analizza la produzione di elettricità a livello globale e la transizione verso le rinnovabili. La Spagna è prossima all’addio definitivo, con la sua quota scesa allo 0,6%; sono in 10 i Paesi Ue, invece, che non hanno utilizzato carbone neppure per generare un’ora di elettricità a giugno: tra questi l’Irlanda, che ha appena chiuso la sua ultima centrale. 
Guardando allo sviluppo delle rinnovabili, il mese appena trascorso ha tagliato un record positivo, fotografa Ember: per la prima volta, infatti, a giugno il solare è stata la singola fonte di energia più utilizzata nel continente, con incrementi mensili sostanziali in almeno 13 Stati, tra cui Germania, Spagna e Italia. Il fotovoltaico ha coperto il 22,1% del fabbisogno Ue, la quota più alta mai registrata, in rialzo rispetto al 18,9% di un anno fa e davanti a nucleare (21,8%) ed eolico (16%); in picchiata il carbone (6%). 
A sostegno della corsa alle rinnovabili, Bruxelles ha allentato i tradizionali vincoli sui sussidi pubblici. I governi potranno finanziare la produzione di energia pulita (e per i permessi si prevedono iter più veloci) e di combustibili a basse emissioni di CO2 come l’idrogeno, ma le misure di favore varranno per tutte le tecnologie neutrali, quindi pure il nucleare. L’atomo è sempre più apertamente evocato nella crociata anti-fossili, anche se la decisione finale spetta ai singoli Stati. Come ha di recente ribadito il commissario all’Energia Dan Jørgensen, «per realizzare la transizione energetica pulita servono tutte le soluzioni a zero o basse emissioni», tra cui le centrali nucleari. I costi, tuttavia, rischiano di essere esorbitanti, ha avvertito la Commissione, stimando un mese fa in 241 miliardi di euro entro il 2050 la mole di investimenti necessari per prolungare la vita operativa dei reattori esistenti e per costruirne di nuovi tanto su larga scala quanto modulari e di piccola taglia.
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CINA, IL FOTOVOLTAICO OLTRE LE MINIERE

di ALESSANDRA COLARIZI

Maggiore produttore di energia solare, ma anche primo Paese al mondo per utilizzo di carbone: la Cina riesce a conciliare due primati apparentemente inconciliabili. Persino a farne un mix virtuoso per il benessere del pianeta. E’ quanto emerge da un recente rapporto dell’ong americana Global Energy Monitor (GEM), secondo il quale negli ultimi anni la conversione dei siti minerari in progetti solari è aumentata in quindici paesi, Repubblica popolare in primis. 

Dal 2010 a oggi, sono state dismesse oltre 6000 miniere di carbone a livello globale. In base agli impegni nazionali per l’eliminazione graduale del combustibile fossile in trentatrè Paesi, GEM stima che altri 127 impianti estrattivi saranno dismessi entro il 2030, permettendo di triplicare l’apporto delle rinnovabili entro la fine del decennio. A trainare il trend è proprio la Cina continentale, dove 90 ex siti minerari risultano già operativi, con una capacità fotovoltaica totale di 14 gigawatt (GW), mentre altri 46 progetti, per complessivi 9 GW, sono in fase di pianificazione. Australia, Stati Uniti, Indonesia e India, completano la top 5, rappresentando circa tre quarti del potenziale globale, sebbene gli impianti convertiti al solare in questi paesi siano perlopiù ancora allo stadio iniziale e solo una minima parte già operativi.

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Il sistema offre diversi vantaggi, non solo una maggiore disponibilità di fonti energetiche pulite.«La riqualificazione dei siti minerari permette di coniugare la tutela dell’ambiente al recupero del territorio, nonché alla creazione di posti di lavoro per le popolazioni locali», spiega a MoltoFuturo Wu Chengcheng, project manager di GEM e coautrice dello studio. Nel contesto cinese, la conversione dal carbone al solare aiuta inoltre a ovviare alle carenze strutturali della rete elettrica grazie all’utilizzo di infrastrutture preesistenti come connettori.

Ulteriori opportunità derivano dalla rivitalizzazione di vecchie aree industriali, altrimenti inutilizzabili. Tutte questioni dirimenti per Pechino, impegnato a rendere il proprio paradigma di sviluppo più equilibrato e sostenibile dopo aver incentivato per decenni la crescita economica con licenza di inquinare. Motivo per cui il processo di transizione dal mining al fotovoltaico sta riscuotendo un forte sostegno governativo attraverso finanziamenti pubblici e la partecipazione delle imprese statali.

Le premesse per una buona riuscita ci sono tutte. Oggi la Cina è il maggiore emettitore di CO2 nonché produttore e consumatore di carbone al mondo. Ma è anche il primo paese per produzione di energia solare e domina quasi tutti i segmenti principali della catena di approvvigionamento globale, dalle materie prime ai prodotti finiti. Di questo passo, secondo una ricerca condotta congiuntamente dall’università di Harvard e tre istituti cinesi, il fotovoltaico potrebbe arrivare a occupare il 43,2% del mix energetico cinese – sebbene al momento contribuisca, insieme all’eolico, ancora solo all’11% del totale, contro circa il 60% dell’energia ottenuta attraverso la combustione del carbone.

Tra le dieci principali imprese produttrici di pannelli fotovoltaici, nel 2022 sette erano localizzate oltre la Muraglia. Il più grande parco solare al mondo si trova a Golmud, la terza città più grande dell’altopiano tibetano, nella provincia del Qinghai. I lavori sono iniziati nel 2009 e oggi i suoi sette milioni di pannelli producono circa 2,8 GW di energia elettrica. Ma si tratta di una crescita ipertrofica. La domanda di apparecchiature solari è in calo in diverse regioni del paese: il settore è saturo, i prezzi sono diminuiti verticalmente, e le pile di pannelli invenduti nei magazzini preoccupano l’Europa, che teme l’arrivo massiccio di polisilicio, wafer e celle solari dalla Repubblica popolare. Soprattutto dopo che le tariffe di Joe Biden hanno ristretto drasticamente il mercato americano al made in China.

Secondo gli esperti, la conversione delle miniere potrebbe quindi favorire lo smaltimento della sovrapproduzione industriale cinese. Alcune aziende di apparecchiature solari infatti vedono nel disimpegno dal carbone l’occasione per ridurre le giacenze e ripulire la propria immagine all’estero: così è stato per la cinese JinkoSolar che, fin dal 2012, fornisce pannelli per un parco solare costruito su un’ex miniera in Germania.

Non solo. In Cina – dove il mining assume 1,5 milioni di persone – l’affezione al combustibile fossile è stata motivata in parte anche dalla necessità di scongiurare un aumento della disoccupazione. GEM stima che la transizione verso il fotovoltaico stimolerà a livello globale la creazione di 259.700 posti di lavoro permanenti, oltre ad altri 317.500 impieghi temporanei. Un numero superiore a quello dei licenziamenti previsti entro il 2035 a causa del rallentamento dell’industria carbonifera.

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Certo, si può fare di più e meglio. La conversione al solare “richiede procedure e normative più chiare in materia di diritti fondiari, responsabilizzazione delle società minerarie e riabilitazione dei terreni”, spiega Wu. Sono passaggi cruciali per garantire benefici a livello locale, anche se una maggiore regolamentazione – ammette l’esperta – “potrebbe richiedere tempi più lunghi o comportare costi più elevati rispetto ad altri progetti solari greenfield”. Le sfide da affrontare sono ancora molte, ma Wu non ha dubbi: “La conversione delle miniere può rivelarsi fondamentale per mitigare l’inquinamento ambientale”.





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