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Trump mette all’angolo l’Europa: è l’ora dell’autonomia strategica


L’autonomia strategica europea è oggi una priorità, non una scelta.
L’attivismo destabilizzante dell’amministrazione Trump, le pressioni sul digitale e sulla difesa, e l’assenza di una vera politica industriale europea richiedono un cambio di rotta. L’Europa deve trovare risposte strutturate, evitando concessioni che aggraverebbero la sua vulnerabilità.

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Trump e la dipendenza europea nella difesa

Le scelte del presidente degli Stati Uniti sono opportunistiche e per questo motivo è assai difficile trovarne la logica o anche più semplicemente la direzione strategica.

La sua dichiarata affinità con Putin mette in crisi la sicurezza non solo dell’Ucraina, ma dell’Europa. Allo stesso tempo, la sua insistenza sull’aumento delle spese militari degli alleati europei mette in crisi, in prospettiva di lungo termine, proprio la Russia, con il rischio di spingerla a condotte rischiose da consumarsi al più presto. Anche qui l’effetto a breve è quello che interessa a Trump, convinto che gli europei, dovendo spendere una più elevata percentuale del loro PIL, si rivolgeranno all’industria degli armamenti americana.

Alla lunga è auspicabile che gli europei capiscano che la storia del 5% di spese per la difesa, fintantoché non esiste un esercito e un governo federale dell’Europa non è affatto un investimento non nella sicurezza europea, messa a serio repentaglio da Trump con la “concessione” della vittoria a Putin sull’Ucraina, ma un omaggio all’industria degli armamenti statunitense.

Tecnologia e nuove minacce alla sicurezza europea

Le guerre in corso dimostrano che internet, l’intelligenza artificiale e lo spazio sono le direzioni strategiche su cui si muove anche il futuro del confronto militare[1].

Se l’Europa vuole proteggersi deve fare due mosse:

  • investire nelle nuove tecnologie e nelle infrastrutture
  • costruire l’autorità federale necessaria a creare un proprio sistema di difesa.

Sistema che è fatto principalmente di capacità sviluppate dal mercato per scopi civili. Come insegna la Cina – in grado di offrire i servizi decisivi anche in materia di difesa. Capacità che sono nel futuro assai più importanti di navi, aerei e carri armati.

E’ emblematica la fila di mezzi corazzati e camion ferma per settimane subito dopo l’avvio dell’invasione russa dell’Ucraina: erano bloccati dall’efficacia delle armi leggere ucraine e un inerme target per strumenti agili e tecnologicamente avanzati. Gli aerei russi, che pure sono numerosi, operano ai margini delle guerre di droni e missili. La flotta è un rischio, più che una risorsa. Nelle guerre che ci circondano gli unici carri armati continuamente operativi sono quelli di Israele, contro la popolazione civile, che non ha droni e missili con cui difendersi. Nonostante la guerra a tutto campo contro Gaza, Hamas tiene in scacco Israele con i droni e i missili iraniani.

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Retorica militare americana e impatto strategico nullo

Le armi usate a bordo dei vecchi B2, residui di una guerra fredda in cui la loro missione era di fare un solo volo, quello decisivo del trasporto in incognito dell’arma nucleare, sono risultate efficaci contro un Iran già piegato e non in grado di accedere alle tecnologie di sorveglianza e difesa di cui dispongono la Cina e la stessa Russia. “ Una prima valutazione, pubblicata dalla Defense Intelligence Agency il giorno successivo agli attacchi statunitensi, ha affermato che l’attacco non ha distrutto i componenti principali del programma nucleare del Paese, incluso l’uranio arricchito, e probabilmente ne ha solo ritardato l’avvio di mesi, secondo quanto riportato dalla CNN. Ha inoltre affermato che l’Iran potrebbe aver spostato parte dell’uranio arricchito dai siti prima dell’attacco”.[2] Come ha detto lo stesso Trump, la missione dei B” è stata “spettacolare”, nel senso dello show senza grande sostanza.

Trump ha messo all’angolo la politica della difesa europea, costringendo i governi ad a eccettare l’aumento delle spese militari, in una vittoria di immagine immediatamente spendibile con il suo elettorato: meno spese degli Stati Uniti per difendere gli altri e meno spazio per ambizioni federaliste dell’Europa. Spinta nel mezzo del confronto sui dazi commerciali, c’è la volontà dell’amministrazione americana di demolire le norme europee sul digitale, per restituire spazio di manovra e potere di mercato i colossi big tech.

La condivisione dell’obiettivo putiniano di indebolire l’Europa è l’unica strategia riconoscibile nelle mosse americane, che appare credibile dopo il bombardamento dei siti nucleari iraniani, ma che non ha una prospettiva strategica neppure èper gli Stati Uniti. L’attacco alle politiche europee sul digitale fa parte della strategia di ridurre a brandelli l’Europa, per poter trattare da posizioni di forza con i singoli governi. Ma la politica Trumpiana incontrerà ostacoli anche all’interno degli Stati Uniti: assecondarla per ottenere piccole concessioni, sulla difesa e soprattutto sul digitale, sarebbe, da parte europea, un grave eroore. Sarebbe un posso decisivo nella cupio dissolvi che caratterizza il sentire attuale delle istituzioni europee.

Dazi, clima e industria: tutte le contraddizioni di Trump

Gli effetti perversi delle politiche di Trump, si accumulano in barba al racconto su Truth delle versioni trumpiane della realtà. Può bastare il camuffamento? E fino a quando? L’elettorato di Trump sembra concentrato tra i blue collar e tra i molto ricchi. Non sembra che il ceto medio, fino ad oggi chiave del successo elettorale dei partiti di centro, sia preso in considerazione dalle politiche di Trump, salvo forse per la liberalizzazione delle attività estrattive, il cui obiettivo è di ridurre il prezzo dei trasporti affidato alle inefficienti auto e ai camion made in USA, ma le famiglie si accorgeranno che il costo delle auto made in USA per effetto dei dazi è destinato ad aumentare.

E il disprezzo per le politiche ambientali e per gli accordi internazionali sul clima dovrà fare i conti con le inondazioni e la totale impreparazione degli Stati americani a far fronte agli effetti del cambiamento climatico. Anche qui la politica dell’amministrazione sta mettendo in difficoltà l’unica azienda americana di successo, e per di più nell’area di punta dell’auto elettrica, Tesla.

Il sogno trumpiano di rilanciare l’auto made in USA, quella dei tempi gloriosi di Ford, GM, Chrysler, giganti incontrastati dell’auto mondiale, è finito da decenni. In larga misura per effetto della innovazione tecnologica e della maggiore sicurezza ed economicità nei consumi dei prodotti dei nuovi concorrenti che si sono affacciati nell’ultimo mezzo secolo: prima il Giappone, poi la Germania, poi la Corea etc. Penalizzare Tesla vuol dire penalizzare l’unico produttore competitivo che gli Stati uniti hanno in campo per confrontarsi con l’eccellenza cinese nell’auto elettrica.

Il vero impatto dei dazi sulle economie transatlantiche

Il Wall Street Journal, certamente attento agli interessi imprenditoriali, ha segnalato con forza che la politica dei dazi di Trump sta mettendo in ginocchio le piccole e medie aziende americane “Gli imprenditori stanno licenziando il personale e attingendo ai risparmi personali, sperando di resistere fino a un accordo commerciale con la Cina; una commissione di $ 8.752 su un ordine di $ 5.649 “.[3]

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Le stime sull’impatto dei dazi di Trump dimostrano come il gioco non sia affatto favorevole agli Stati Uniti. Confrontando una serie di stime sull’impatto di diverse ipotesi di conclusioni della vicenda, diversi studi giungono a conclusioni simili.

Figura 1. Impatto di lungo termine di diversi scenari di accordo sulle tariffe[4]

Sulle esportazioni (variazione %) Sul PIL (variazione %)

Fonte: Bruegel sulla base di Felbermayr et al (2024), Bouët et al (2024), Goldman Sachs (2024), Du e Shepotylo (2025) e McKibbin e Noland (2025). Nota: i colori rappresentano gli scenari: verde = accordo USA-UE su industria manifatturiera o agricoltura; arancione = dazi unilaterali statunitensi; rosso = ritorsione da parte dei partner statunitensi.

La variazione dei risultati sugli Stati Uniti dipende dal livello dei dazi che decideranno unilateralmente, mentre le stime per l’Europa e i principali paesi europei non varia in modo significativo a seconda degli scenari. L’impatto, quindi, potrebbe essere assai minore per l’Europa rispetto agli Stati Uniti. Le esportazioni US verso l’Europa potrebbero cadere tra l’8% e il 66% se non si raggiunge l’accordo, rispetto ad una caduta tra lo 0,6% e l’1,1% delle esportazioni europee negli Stati Uniti. La spiegazione è che tutti i paesi colpiti dai dazi effettuano ritorsioni, e quindi per gli Stati Uniti questo significa ridurre gli scambi con tutti i paesi, ma per tutti gli altri paesi significherebbe ridurre gli scambi solo con gli Stati Uniti.

Infine, anche l’impatto sul PIL sarebbe asimmetrico: con gli Stati Uniti colpiti più duramente dell’Europa, in buona misura a causa del ruolo delle importazioni per i beni di consumo finali e per l’industria manifatturiera. Il PIL americano potrebbe contrarsi dello 0,7% contro lo 0,3 dell’Europa, con divari analoghi proposti dalle diverse stime esaminate.

Lunedì 7 giugno dopo gli annunci di dazi su paesi come Giappone, Corea del Sud e Sud Africa, i principali indici dei titoli americani sono caduti con i risultati peggiori delle ultime tre settimane[5]. Il commento del senatore Brian Schatz è il nuovo piano tariffario del presidente causerà l’aumento più cospicuo di tassazione delle famiglie della classe media da una generazione, costringendole a pagare 5.000 dollari in più all’anno.

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Esposizione del lavoro europeo ai rischi protezionistici

Di grande interesse lo studio di Bruegel che valuta l’esposizione delle regioni europee alla riduzione di occupazione determinata dall’aumento delle tariffe.

Figura 2. Esposizione dell’occupazione nelle regioni europee ai dazi

Fonte: dati Bruegel basati sulle statistiche strutturali sulle imprese di Eurostat (SBS) e sul database OCSE sul commercio di valore aggiunto (TiVA). Nota: calcolato moltiplicando, per ciascun settore, il valore aggiunto incorporato nelle esportazioni verso gli Stati Uniti, espresso in percentuale del valore aggiunto totale a livello nazionale, per la quota di occupazione in un settore in ciascuna regione. Un valore più elevato indica una maggiore vulnerabilità ai dazi statunitensi. Esclude i prodotti farmaceutici, che al momento della stesura del presente documento sono per lo più esenti da dazi.

Come si vede subito dopo l’Irlanda, che essendo la testa di ponte dell’economia americana in Europa verrebbe penalizzata in modo significativo, risulta che l’Italia è il paese con maggiore esposizione, in quasi tutte le regioni del Centro-Nord e anche in quelle del Mezzogiorno non insulare. Il tessuto produttivo colpito non è solo quello delle aziende di grandi ma anche quello della aziende di medie dimensioni. Un tema che troviamo anche al centro della riflessione più attenta degli analisti americani.

Regolamentazione digitale tra sovranità e pressioni americane

Lo scontro con l’Europa sui dazi potrebbe trovare qualche forma di compensazione sul tavolo delle regole sul digitale. Qui, come accade spesso, la Commissione ondeggia. Da un lato, come riporta il Wall Street Journal, le parti sarebbero vicine ad un accordo sulle barriere non tariffarie, che includerebbe il Digital Market Act (DMA) e la tassazione del carbonio. Si tratta di bandiere della politica regolatoria europea, quelle che maggiormente esprimono scelte strategiche, cioè concorrenza, tutela dei diritti e rispetto della privacy nel digitale e la sostituzione dei combustibili fossili.

Le norme dell’Unione Europea in materia di moderazione dei contenuti, concorrenza digitale e intelligenza artificiale non sono negoziabili con gli Stati Uniti, sostiene Henna Virkkunen, responsabile della tecnologia della Commissione Europea, poco prima di un round di colloqui tra il Commissario europeo per il Commercio Maroš Šefčovič e il rappresentante statunitense per il Commercio Jamieson Greer[6]. Le due parti si sarebbero avvicinate a un accordo che include il trattamento riservato alle aziende tecnologiche statunitensi ai sensi del Digital Markets Act dell’UE.

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Non mancano neppure le prese di posizione europee con aziende importanti, come Mistral, Airbus e ASML, che chiedono una sospensione o pausa dell’AI Act di almeno un paio dì anni.[7]

La Commissione esprime fermezza e al tempo stesso non esclude di discutere di barriere non-tariffarie, oltre che di dazi. “In generale, i negoziati si concludono solo al momento in cui tutto è negoziato, ma sono molto chiara su alcuni argomenti che riguardano la sovranità del processo decisionale nell’Unione Europea: per noi è assolutamente intoccabile. Siamo molto chiari su questo”, ha affermato Ursula Von Der Leyen nella conferenza stampa sull’andamento dei colloqui. “Certo, discutiamo di linee tariffarie, discutiamo di barriere non tariffarie… Discutiamo di tutti questi argomenti. Ma quando è il processo decisionale sovrano dell’UE e dei suoi Stati membri a essere intaccato, allora siamo troppo oltre”.

Per la prima volta, la Commissione europea ha manifestato flessibilità su un importante regolamento digitale, cercando di ottenere un sollievo dagli imminenti dazi commerciali di Donald Trump.
Nulla è quindi escluso dai colloqui in corso: un cambiamento rispetto alla sua precedente posizione secondo cui le normative digitali non sono negoziabili con Trump.
Ciò ha suscitato immediate critiche da parte dei legislatori, che temono che Bruxelles si spinga troppo oltre nel tentativo di placare le preoccupazioni degli Stati Uniti con l’avvicinarsi della scadenza.

Una resa regolatoria che minaccia l’identità europea

Se fosse vero che si sta trattando di una qualche forma di esenzione delle compagnie americane dal DMA, sarebbe una soluzione grottesca per due solidi motivi. In primo luogo Big Tech è la ragione d’essere del DMA, tolte quelle aziende cosa resterebbe del DMA? Tanto vale sopprimerlo con buona pace di chi invoca la difesa della sovranità europea. In secondo luogo la lobby big tech, già vincente sul governo e sul Congresso americano conseguirebbe una vittoria decisiva sulla Commissione, con una perdita di credibilità politico-istituzionale di immensa gravità. La cupio dissolvi avrebbe trionfato.

Urge un’autonomia strategica europea nel digitale e nella difesa

Lo studio di Bruegel citato rileva che: “Gli Stati Uniti si stanno ritirando dalle catene globali del valore e si stanno dissociando dalla Cina. I dazi imposti sulle importazioni dall’UE sono esorbitanti, anche a tassi ridotti, ma l’impatto economico sull’UE appare gestibile. I responsabili politici europei dispongono di numerosi strumenti per compensare gli effetti: rafforzare la domanda interna attraverso la politica fiscale, firmare accordi di libero scambio con paesi terzi e attuare riforme del mercato unico”. Altre indicazioni sulla necessità di non cedere alle pressioni americane vengono da un think tank americano di grande prestigio, come Carnegie.

Dopo aver elencato le pressioni lobbistiche di big tech sulla deregulation di AI in materia di privacy e di diritti d’autore, di costo dell’energia e di utilizzo delle risorse naturali, lo studio dimostra che anche le pressioni sulla Commissione per ridurre i vincoli normativi da parte del governo americano, sono farina del sacco, anzi del saccheggio, che big tech intende perpetrare. La rete delle SME europee, con anche giganti quali Airbus e Dassault, ha scritto la lettera aperta alla Commissione, per rafforzare la politica industriale dell’Unione e per ridurre la dipendenza dalle infrastrutture e dalle tecnologie: “occorre maggiore indipendenza tecnologica attraverso tutti i livelli delle sua infrastrutture critiche: dall’infrastruttura logica -applicazioni, piattaforme, media, strutture di AI e modelli- fino alle infrastrutture fisiche -semiconduttori, calcolo, data storage e connettività-”[8]..

La chiarezza delle norme è cruciale, ma la deregulation non è la panacea. Piuttosto, l’Unione ha bisogno di una politica industriale coraggiosa per costruire la sua autonomia strategica nei settori chiave del digitale e dell’intelligenza artificiale, per la sua competitività e per la sua sicurezza.

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Note


[1]) Theodora Ogden, Anna Knack, Mélusine Lebret, James Black and Vasilios Mavroudis, The Role of the Space Domain in the Russia-Ukraine War. The impact of converging space and AI technologies,Center for Emerging technology and security,23 February, 2024.

[2])

Natasha Bertrand, Zachary Cohen, US did not use bunker-buster bombs on one of Iran’s nuclear sites, top general tells lawmakers, citing depth of the target, CNN Politics, June 28, 2025.

[3]) Ruth Simon, How Tariffs Are Crushing Small Businesses: ‘Nobody in Power Seems to Care’, Wall Street Journal, May 11, 2025.

[4]) Madalena Barata da Rocha, Nicolas Boivin, Niclas Poitiers, The economic impact of Trump’s tariffs on Europe: an initial assessment It is likely that Trump’s tariffs will be a limited hit to Europe, though some regions and industries could suffer and may need protective measures, Bruegel analysis, 17 April, 2025.

[5]) John Towfighi, Stocks drop after Trump announces tariffs on countries including Japan and South Korea, CNNstyle, July 7, 2025.

[6])Pieter Haeck, EU won’t negotiate on tech rule books in Trump trade talks, Brussels says, Politico, July 1, 2025.

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[7]) Eliza Gkritsi, Europe’s top CEOs ask EU to pause AI Act, Politico, July 4, 2025.

[8]) Open Letter: European Industry Calls for Strong Commitment to Sovereign Digital infarstructure,

European industry demands Eurostack to power EU competitiveness., 14 March 2025, in: Sebastiano Toffaletti, European industry demands EuroStack to power EU competitiveness



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