Nei giorni scorsi i media hanno dato molto risalto all’accordo firmato dal Ministero del lavoro con i sindacati CGIL CISL e UIL per la gestione dei “rischi da calore” in azienda. Il documento impone alle imprese di considerare il fattore di rischio calore nei DVR aziendali e apre all’utilizzo della cassa integrazione per eventuali riduzioni di orario o chiusure legate alle temperature. Il documento arriva assai in ritardo e non fissa regole minime a livello nazionale, demandando alla contrattazione aziendale e collettiva la ricerca di soluzioni, con tutte le prevedibili controindicazioni, in un paese come l’Italia, dove l’elevata frammentazione produttiva fa sì che le aziende in cui esistono RSU in grado di negoziare con la direzione su questo tema siano ben poche.
In Spagna, Francia e Germania, ci ricorda un recente articolo di Francesco Barbetta su Dinamo Press, esiste una normativa nazionale più vincolante, che, ad esempio, individua dei valori soglia della temperatura per le diverse attività, oltre il quale è sconsigliato lavorare senza adeguate contromisure. Anche perché, sottolinea Barbetta, il caldo, oltre a influire negativamente sulla produttività e sul numero di ore lavorate, è all’origine di una quota significativa degli incidenti sul lavoro, già numerosi, soprattutto in Italia.
Negli anni passati l’inerzia dei governi ha lasciato alle regioni – tanto per cambiare! –, competenti in materia sanitaria, l’onere di emettere delle ordinanze, ad esempio per vietare l’attività lavorativa oltre una certa tenperatura in alcuni settori più esposti – agricoltura ed edilizia, oggi anche logistica e food delivery – ma la cronaca attesta che tali ordinanze perlopiù restano lettera morta, perché non ci sono controlli. L’approccio, come sempre, è emergenziale: ogni anno si scopre che nei mesi estivi le temperature salgono oltre il tollerabile e si interviene in modo estemporaneo, siglando accordi per i rischi da calore improvvisati, col rischio di mettere in difficoltà gli stessi lavoratori: come conciliare, ad esempio, l’esigenza di spostare alcune lavorazioni di prima mattina o nelle ore serali/notturne con la gestione di figli minorenni, in particolare quando le scuole sono chiuse?
Un breve giro di testimonianze che abbiamo raccolto da delegati sindacali di differenti settori produttivi ci conferma i limiti di questo approccio, dietro al quale si cela l’inveterata abitudine della politica a fare non per risolvere i problemi, ma semplicemente per far vedere che sta facendo qualcosa. Mentre il sindacato, invece di organizzare delle azioni di protesta nei posti di lavoro, pratica perlopiù lo sterile sport del piagnisteo.
“Qui da noi devo riconoscere che l’azienda si è mossa già dall’anno scorso” mi spiega Paolo Petrosino, RSU dell’USB all’AMIU, aziende pubblica di igiene ambientale del genovesato, quasi 2.000 dipendenti. Qui il caldo colpisce soprattutto chi lavora all’aperto: addetti alla raccolta (soprattutto chi deve scendere dai mezzi) e allo spazzamento, piazzalisti, personale delle isole ecologiche e degli ecovan. Azienda e sindacato sono passati attraverso un protocollo elaborato col medico aziendale, che prevede lo spostamento di alcune lavorazioni dalle ore più calde, tra le 11 e le 17, di prima mattina o in fascia serale/notturna; la distribuzione di sali minerali e la fornitura di condizionatori mobili negli spogliatoi; la possibilità di fermarsi durante il turno per fare la doccia. Un’eccezione legata anche al fatto che si tratta di un’azienda partecipata dove il sindacato ha una presenza consolidata. “Poi naturalmente ci sono i problemi di gestione quotidiana”, aggiunge Petrosino, “perché se come me stai nel piazzale di un grosso deposito, fare un salto negli spogliatoi per farti una doccia non è un problema, ma se lavori in strada o giri sui mezzi e decidi di rientrare in sezione per rinfrescarti, allora il preposto che ti fa storie lo trovi”. Il problema è l’approccio costantemente emergenziale della politica e dell’azienda. “Che faccia sempre più caldo ormai è risaputo. E questo significa che oggi dovremmo pensare già all’anno prossimo, ad esempio pianificando dei cambiamenti di orario strutturali, invece di aspettare a muoversi quando il problema è già scoppiato” conclude Petrosino.
Assai diversa la situazione negli appalti di Amazon. dove di accordi per i rischi da calore non si vede neanche l’ombra. Le immagini inviateci da alcuni driver parlano chiaro: i display sul cruscotto dei furgoni registrano temperature fino a 45 gradi e alcuni degli smartphone aziendali con cui i lavoratori si loggano all’app Amazon Flex, che indica loro rotte e consegne, vanno in tilt: “Il dispositivo deve raffreddarsi. Il tema scuro verrà attivato automaticamente per continuare a usare Maps” si legge su un display. Un messaggio sulla chat dei dipendenti di un’azienda che consegna per Amazon comunica: “Abbiamo chiesto ad Amazon la possibilità di poter prelevare fino a 3 bottiglie a testa, ma al momento non abbiamo ancora ottenuto conferma. Proprio per questo è fondamentale che ci sia rispetto da parte di tutti”. E va avanti citando il caso di un driver che è stato visto dal personale Amazon prendere mezza cassa d’acqua, precisando che “gesti del genere danneggiano l’immagine di tutti noi”. “È il classico atteggiamento di Amazon.”, osserva un driver toscano del sindacato Multi, “Da una parte ti dicono di lavorare in sicurezza, di idratarti quando fa caldo”, dall’altra vige la legge ferrea della produttività: “Altro che accordo governo-sindacati per proteggere i lavoratori della logistica. Qui nei giorni scorsi, quando le temperature raggiungevano livelli eccezionali, non solo i ritmi di lavoro non sono diminuiti, ma siamo arrivati al record di 198 consegne in un turno”.
E in fabbrica, come va la gestione dei rischi da calore che dovrebbero essere tutelati dagli accordi coi sindacati? “Qui in Veneto non c’è un’ordinanza regionale che riguardi i luoghi chiusi. Quella emessa nei giorni scorsi riguarda solo il lavoro all’aperto e non mi risulta che sia applicata, perché non ci sono i controlli”, mi racconta Augustin Breda, RSU FIOM alla Electrolux di Susegana (TV), azienda leader nel settore degli elettrodomestici. Una settimana fa i lavoratori di un altro stabilimento Electrolux, a Forlì, di fronte al rifiuto della direzione di adottare le misure richieste dai delegati FIOM e UGL, avevano abbandonato il posto di lavoro verso mezzogiorno, cinque ore prima della fine del turno, perché le temperature sfioravano i 40 gradi, invocando la sacrosanta tutela della propria salute. “Succederà sempre più spesso” è la previsione di Breda. “Perché a parte qualche eccezione, ad esempio DeLonghi, che ha installato dei climatizzatori, si continua a ignorare che il caldo è un fenomeno strutturale e che quindi si debbano ripensare complessivamente i posti di lavoro. E i manager rifiutano pervicacemente di intervenire sulle condizioni di lavoro: stessi ritmi, stesse pause, stessi orari e nessun investimento in impianti che tutelino la salute dei loro dipendenti”.
A Forlì, però, alla fine l’iniziativa dei lavoratori ha sortito degli effetti. Come riportava due giorni fa il Corriere Romagna “l’azienda fornirà ai dipendenti acqua di frigo gratis in più punti ristoro con anche i sali minerali. Inoltre saranno allestite stanze climatizzate dedicate alle pause, come sarà climatizzata la mensa, in ogni postazione di lavoro arriveranno uno o due ventilatori e un tecnico si occuperà di controllare che gli impianti funzionino e in caso di guasti li sostituirà”. I fatti pesano sempre più delle parole.
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