Dal 1978 a oggi, l’Italia continua a credere che lo sviluppo si possa progettare a tavolino. Ma ogni piano centralizzato indebolisce ciò che dovrebbe sostenere: l’iniziativa, la cooperazione, la libertà.
Nel 1978 l’Italia si trovava in bilico, sospesa tra stagnazione economica e tensioni sociali sempre più acute. La crisi petrolifera aveva fiaccato la produzione, mentre il Paese sprofondava negli anni di piombo, segnati da una sequenza inquietante di attentati e violenze culminata nel rapimento e nell’uccisione di Aldo Moro. L’intero sistema istituzionale era messo alla prova: non si trattava più solo di tenere in equilibrio i conti pubblici, ma di preservare la tenuta democratica. Maturò allora una forma inedita di coesione politica, fondata sulla solidarietà nazionale. I governi si reggevano su un’alleanza implicita: la Democrazia Cristiana al centro, sostenuta dall’appoggio esterno del Partito Comunista, in un patto non detto che cercava di contenere l’instabilità e offrire una risposta condivisa alla crisi.
In questo quadro, prese forma il Programma economico triennale 1979–81, promosso dal ministro Filippo Maria Pandolfi. Il documento, che avrebbe costituito la base della Legge finanziaria per il 1979, delineava una strategia economica fondata su pianificazione centralizzata e interventismo, con l’obiettivo di affrontare l’inflazione, la crisi produttiva e la stagnazione. La stampa dell’epoca ne sottolineava il valore come svolta politica ed economica, coerente con il modello di “economia mista” e con l’accordo Dc–Pci nella cornice della maggioranza parlamentare.
In concreto, più che una manovra contabile, il Piano Pandolfi rappresentava l’apice della pianificazione economica italiana. Lo Stato ampliava il proprio perimetro d’azione, trasformando la gestione economica in un atto politico esplicito: salari, prezzi, credito, investimenti e occupazione venivano inseriti in una logica di coordinamento centrale, nella convinzione che la stabilità potesse essere garantita non dalla spontaneità del mercato, ma da un ordine imposto dall’alto.
L’intervento pubblico si estendeva sempre più in profondità. Il governo agiva direttamente sui segnali economici, orientando l’allocazione delle risorse secondo priorità politiche. Le grandi imprese pubbliche — Iri, Eni, Efim — dominavano il panorama industriale, assorbendo oltre il 70 per cento del settore manifatturiero e drenando ingenti capitali. Il credito non veniva distribuito secondo criteri di efficienza o rischio, ma in base alla rilevanza politica dei settori beneficiari. L’amministrazione statale si faceva garante di comparti ritenuti strategici, anche in assenza di prospettive industriali solide. Il linguaggio della programmazione si caricava di toni emergenziali: “strategie nazionali”, “interventi mirati”, “comparti sensibili”, mentre l’apparato normativo si faceva più complesso e vincolante.
Si era in presenza di un modello che si fondava su un’idea tipica dell’economia cosiddetta mista, secondo cui sarebbe stato possibile coordinare tecnicamente le decisioni pubbliche e quelle private. Si presupponeva in buona sostanza che lo Stato potesse correggere le inefficienze del mercato e colmarne le carenze. Ma tale convinzione ignorava la lezione di Friedrich A. von Hayek: nessun centro decisionale può gestire efficacemente le informazioni frammentate tra milioni di attori economici. Ne derivava una cultura della dipendenza. L’impresa non investiva, aspettava il contributo. Il lavoratore non cercava opportunità, ma sicurezza. L’amministrazione non semplificava, moltiplicava vincoli. Dal punto fiscale, l’Iva ordinaria era già salita al 14 per cento, dopo il 12 per cento dell’anno precedente, e avrebbe raggiunto il 18 per cento nel 1982: una traiettoria che segnalava la pressione crescente sull’economia.
Siffatta impostazione, tuttavia, non era un’originalità italiana. Al contrario, si inseriva in una tendenza comune alle principali economie occidentali. In Gran Bretagna, nello stesso anno, il governo laburista prorogava il Price Code e affidava alla Price Commission il compito di vigilare sui margini di profitto. In Francia, Giscard d’Estaing e Raymond Barre perseguivano politiche di austerità, mentre Jacques Chirac, all’opposizione, criticava la nazionalizzazione dei settori strategici e rivendicava una visione liberista. Negli Stati Uniti, l’amministrazione Carter, dopo il fallimento del piano Whip Inflation Now, lasciava alla Federal Reserve — prima con Miller, poi con Volcker — l’onere di contenere l’inflazione, ma la fiducia nella capacità dello Stato di regolare i mercati era in evidente declino.
La convergenza di detti approcci mostra che il dirigismo non era una deviazione del nostro Paese, ma l’espressione di una concezione condivisa: i governi dovevano guidare l’economia dall’alto, attraverso strumenti pianificati e logiche di intervento. Ed è su questo terreno che si può riconoscere l’affinità profonda tra il Piano Pandolfi e l’attuale Pnrr. Se allora la regia era nazionale, oggi è comunitaria. Ma il principio è rimasto immutato: è il potere pubblico — su impulso europeo — a decidere cosa è “strategico”, “sostenibile”, “prioritario”, sostituendo i segnali del mercato con direttive politiche.
Sotto la veste della transizione ecologica e digitale, il nuovo paradigma pianificatore si propone come motore dello sviluppo. In realtà, ripropone le stesse dinamiche di centralizzazione, burocratizzazione e allocazione verticale che avevano già mostrato i loro limiti. Le strutture si moltiplicano, i fondi si distribuiscono, ma la società non si rafforza: si irrigidisce. L’adattamento spontaneo viene soppiantato dalla gestione centralizzata. L’individuo non sceglie: esegue. L’impresa non innova: attende. L’amministrazione non semplifica: regolamenta.
Il quadro è mutato, ma il meccanismo resta identico. Dove un tempo si operava attraverso il bilancio dello Stato, oggi si agisce nel quadro del bilancio europeo. E il risultato rischia di replicare quello del passato: una società meno autonoma, più dipendente, incapace di competere liberamente.
Una deriva che Ludwig von Mises aveva colto con chiarezza: “L’interventismo vuole sostituire il mercato con il potere coercitivo dello Stato. I suoi sostenitori, inconsapevoli, non si accorgono che questo porta alla distruzione dell’economia di mercato”. È il paradosso di ogni ingegneria pubblica: intervenire per correggere il preteso e presunto fallimento del mercato, finendo per generare nuove distorsioni che richiedono ulteriori interventi, in un circolo vizioso di inefficienza e controllo. Dove l’intervento politico si sovrappone alla cooperazione spontanea, si indebolisce la libertà economica, si frena la crescita, si restringono gli spazi dell’iniziativa.
Per questo, chi non ha compreso il fallimento del Piano Pandolfi rischia di non vedere — e quindi di non capire — quello, già evidente, del Pnrr.
Aggiornato il 16 luglio 2025 alle ore 09:52
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