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Crisi silenziosa, perché sempre più PMI italiane stanno chiudendo


Mentre l’attenzione pubblica si concentra su grandi crisi internazionali e dinamiche politiche complesse, un’altra emergenza – più silenziosa ma non meno drammatica – attraversa il tessuto produttivo del nostro Paese: quella dei fallimenti aziendali.

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Gli eventi che hanno caratterizzato gli ultimi 2 anni, tra tensioni geopolitiche internazionali, aumento dei tassi d’interesse, rincaro dell’energia e fine dei sussidi pandemici, hanno sferrato un duro colpo a migliaia di imprese, in particolare le più piccole e meno strutturate, già provate dagli strascichi della pandemia. A tutto questo si aggiungono criticità strutturali come burocrazia soffocante, difficoltà nell’accesso al credito, carenze manageriali e ritardi nell’adozione di tecnologie digitali. Il risultato è un ecosistema imprenditoriale sotto pressione, dove la sopravvivenza spesso non dipende più solo dalla qualità dell’offerta o dalla visione strategica, ma dalla capacità di navigare un contesto sempre più incerto e sfavorevole.

In questo scenario, il concetto di “crisi d’impresa” ha smesso di essere un evento straordinario ed è diventato una condizione diffusa, spesso silenziosa, che attraversa gran parte del tessuto produttivo italiano. Allo stesso tempo, il legislatore ha avviato un percorso di riforma profonda del diritto fallimentare. Con l’entrata in vigore del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019), è stato introdotto un nuovo approccio: non più solo repressione della crisi, ma prevenzione, responsabilizzazione degli amministratori e monitoraggio costante degli equilibri aziendali.

Ma qual è, oggi, lo stato reale delle imprese italiane? Dove si concentra la fragilità? Chi ha chiuso? Chi rischia di chiudere? E soprattutto: quante imprese attive oggi stanno già mostrando segnali di sofferenza, pur non essendo ancora formalmente in crisi?

Per iniziare a rispondere a queste domande, occorre partire da un dato oggettivo: quante imprese hanno cessato l’attività nel primo semestre dell’anno.

Chiusure aziendali in Italia

Secondo i dati Creditsafe, nel primo semestre del 2025, migliaia di imprese italiane hanno chiuso i battenti. A parlare sono i numeri: 2.876 aziende sono state oggetto di procedure concorsuali nei primi sei mesi dell’anno, tra fallimenti e liquidazioni giudiziali. Un dato in crescita rispetto al 2024 (+8%) e ancora più marcato rispetto al 2023 (+25%). Ma il dato più interessante non è tanto nella quantità delle chiusure, quanto la modalità con cui stanno cambiando.

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Rispetto ai “fallimenti classici” stiamo assistendo inermi al proliferare delle liquidazioni giudiziali, poiché introdotte nel nostro ordinamento dal nuovo Codice della Crisi. Si tratta di una procedura che spesso interviene quando l’insolvenza è già irreversibile, e proprio per questo rappresenta un indicatore chiave della fragilità latente delle imprese. In tre anni le liquidazioni giudiziali sono più che raddoppiate: da 1.778 nel 2023 a 2.854 nel primo semestre 2025.

Sud e Centro: dove la crisi pesa di più

Se guardiamo alla mappa geografica del fenomeno, è evidente come la crisi non sia distribuita in modo omogeneo. Al contrario, si concentra laddove esistevano già segnali di debolezza economica e strutturale. Il Sud Italia raccoglie oltre un quarto di tutte le nuove procedure concorsuali (26%), segnando un aumento del +9% rispetto al 2024 e addirittura del +45% rispetto al 2023. Il Centro Italia non è da meno: +12% in un solo anno e il 23% del totale delle liquidazioni di questo primo semestre 2025. In queste aree, il tessuto produttivo (fatto in gran parte di microimprese, spesso a conduzione familiare ) si mostra particolarmente vulnerabile agli shock.

Nel Nord, invece, i segnali sono più misti: se il Nord-Ovest cresce ancora (+13%), il Nord-Est registra un lieve calo (-6% rispetto al 2024), segno che alcune aree potrebbero aver trovato un nuovo equilibrio.







Forma giuridica e dimensioni: la fragilità delle microimprese

Ma chi sono le imprese che chiudono? I dati parlano chiaro: nell’82% dei casi si tratta di società di capitali, che pure sono considerate – almeno formalmente – le più strutturate. Segue un 11% di imprese individuali e un 7% di società di persone. Se la forma giuridica non basta più a proteggere dal rischio di insolvenza, lo stesso si può dire per la dimensione.

Le micro imprese rappresentano il 75% dei casi di crisi nel 2025. È una cifra che conferma una dinamica nota, ma non per questo meno urgente: la piccola dimensione, in Italia, resta spesso sinonimo di difficoltà di accesso al credito e bassa propensione all’innovazione. E quindi, di esposizione strutturale. Curiosamente, anche le medie imprese, pur rappresentando solo il 2% del totale, mostrano un incremento significativo: +50% rispetto all’anno precedente. Un segnale che la fragilità inizia a toccare anche aziende più consolidate, forse colpite dal rialzo dei tassi, dall’aumento dei costi o dal rallentamento degli investimenti.

Settori in affanno: costruzioni, commercio, ristorazione

Nel panorama delle chiusure, emergono con chiarezza tre settori particolarmente colpiti: commercio, costruzioni e manifattura. Il commercio, con 649 procedure concorsuali nel solo primo semestre del 2025, rimane in cima alla classifica, testimoniando un malessere profondo legato all’evoluzione dei consumi e alla difficoltà di competere con i canali digitali. Subito dopo, c’è l’edilizia, con 551 procedure: il settore sembra risentire di costi crescenti e rallentamenti nei lavori, come confermato dall’aumento del +15% delle liquidazioni rispetto al 2024. Tra i più esposti c’è anche il comparto manifatturiero, con 493 casi (calo del 6% rispetto al 2024, ma ancora su livelli importanti), condizionato forse dal costo dell’energia e dalla debolezza della domanda interna ed estera.

Imprese “giovani”: appena nate ma già in crisi

Uno degli aspetti più preoccupanti è l’aumento delle crisi tra le imprese più giovani. Oltre il 50% delle aziende coinvolte nel 2025 ha meno di 10 anni di attività. Le imprese tra i 2 e i 5 anni sono cresciute del +52% in termini di chiusure rispetto al 2024. Quelle nella fascia 6–10 anni invece sono aumentate del +8%. Questo trend racconta una realtà che spesso sfugge alle statistiche aggregate: molte nuove imprese si ritrovano a chiudere prima di aver consolidato processi, struttura e capitalizzazione.

La crisi silenziosa delle imprese attive

Il dato sulle chiusure è solo la punta dell’iceberg. Sotto la superficie, ci sono centinaia di migliaia di aziende che non hanno ancora chiuso, ma che si trovano in uno stato di rischio latente. A rafforzare questa idea è lo stesso Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, che ha cambiato il paradigma: non più solo “gestire” la crisi, ma prevenirla. Dal 2022, tutte le imprese hanno l’obbligo di dotarsi di adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili, capaci di rilevare tempestivamente segnali di squilibrio economico-finanziario. È ciò che accade prima della chiusura a determinare la reale esposizione del sistema. Il tema non è solo quante imprese abbiano già chiuso, ma quante continuino ad operare pur mostrando segnali concreti di squilibrio.

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Per studiare questa fragilità latente, l’Osservatorio Credistafe ha analizzato i bilanci 2024 di un campione di oltre 42.000 imprese attive, selezionate sulla base di caratteristiche comuni alle aziende che hanno già affrontato procedure concorsuali: stesso settore, territorio, classe dimensionale ed età. L’obiettivo è misurare la diffusione di alcuni dei più significativi squilibri economici, finanziari e patrimoniali, secondo i parametri stabiliti dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza.

Il quadro che emerge è chiaro: il 90% delle imprese analizzate presenta almeno uno squilibrio. Solo il 10% non mostra anomalie evidenti. E nella maggior parte dei casi, i segnali sono molteplici:

  • il 47% presenta un solo squilibrio;
  • il 24% ne ha due;
  • il 17% ne ha tre;
  • oltre 4.500 imprese evidenziano quattro o più squilibri contemporaneamente.

Un dato che restituisce l’immagine di un sistema imprenditoriale ancora formalmente attivo, ma che opera spesso su basi instabili.







Le tre tipologie di squilibrio

I segnali raccolti possono essere ricondotti a tre categorie principali, ciascuna con implicazioni specifiche:

  • Squilibrio economico: si verifica quando l’impresa non è in grado di generare ricavi sufficienti a coprire i propri costi, ovvero lavora in perdita. Nel campione analizzato riguarda circa il 40% delle imprese, che presentano un risultato operativo o un EBITDA negativo. È un sintomo di difficoltà strutturali nel modello di business.
  • Squilibrio finanziario: emerge quando l’azienda fatica a far fronte alle uscite monetarie, come fornitori, imposte o interessi passivi. Colpisce oltre l’85% delle imprese analizzate, con indicatori come margine di tesoreria negativo, EBIT/Oneri finanziari sbilanciato o capitale circolante insufficiente. È spesso il primo campanello d’allarme in situazioni di tensione di cassa o eccessivo indebitamento.
  • Squilibrio patrimoniale: si manifesta quando il patrimonio netto diventa negativo, ovvero quando le perdite superano il capitale. Riguarda circa 1 impresa su 14 e rappresenta una condizione di deterioramento profondo della struttura aziendale.

Questi squilibri raramente si presentano da soli. Nella maggior parte dei casi si sovrappongono, creando dinamiche cumulative. Un esempio su tutti: oltre 1.300 aziende mostrano contemporaneamente un EBITDA negativo e una posizione finanziaria netta positiva, ovvero perdono denaro e al tempo stesso si stanno indebitando. Una condizione particolarmente rischiosa, che tende ad aggravarsi nel tempo.

Il peso della finanza

Tra tutti gli indicatori rilevati, quelli finanziari risultano i più diffusi e incisivi. Il dato più ricorrente riguarda la sostenibilità del debito: l’81% delle imprese presenta un rapporto EBIT/Oneri Finanziari inferiore a 1,5, il che significa che gli utili operativi non bastano a coprire gli interessi sul debito. Un segnale particolarmente rilevante in una fase di tassi in rialzo.

Segue, con il 43% dei casi, un margine di tesoreria negativo, che evidenzia difficoltà nella gestione della liquidità a breve termine. A questi si aggiungono altri segnali significativi: in molti casi si riscontrano margini operativi negativi (21%), EBITDA negativo (19%) e capitale circolante netto insufficiente (17%). In quasi un’impresa su dieci, infine, il rapporto PFN/EBITDA supera quota 6, evidenziando un livello di indebitamento non sostenibile rispetto alla capacità di generare cassa.

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Una crisi già in atto

I dati evidenziano che la crisi d’impresa non coincide con l’apertura di una procedura concorsuale, ma si manifesta ben prima, attraverso segnali misurabili: margini operativi ridotti, tensioni di liquidità, squilibri patrimoniali. Nonostante la piena operatività, una parte consistente del tessuto produttivo mostra già elementi di fragilità economico-finanziaria. Questo rende evidente la necessità di attuare strumenti di prevenzione e monitoraggio, come previsto dal Codice della Crisi.

Intervenire in questa fase non è un esercizio teorico, ma una misura concreta per contenere il rischio sistemico. Adeguarsi tempestivamente al Codice e dotarsi di assetti organizzativi adeguati consente non solo di rilevare per tempo i segnali di difficoltà, ma anche di proteggere il valore dell’impresa, facilitare l’accesso al credito, migliorare la trasparenza verso gli stakeholder e rafforzare la governance aziendale. In molti casi, anticipare l’emersione della crisi significa avere il tempo e gli strumenti per intervenire in modo efficace, evitando danni irreversibili.

In collaborazione con Creditsafe Italia



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