Come interpretare l’incertezza che sta investendo i primi mesi della seconda presidenza di Donald Trump? Il punto da cui partire è che l’”era” di Trump è decisamente l’era della sicurezza economica, ovvero del principio per il quale l’economia possa essere utilizzata come un’arma per raggiungere obiettivi politici (weaponization).
L’attuale presidente è stato in qualche modo il precursore di questo approccio – che ha molto a che fare con l’ascesa tecnologica della Cina degli anni ’10 – per via del lancio della Guerra commerciale nel 2018 e ha, allo stesso tempo, ereditato una razionalizzazione della pratica politica della sicurezza economica da parte dell’amministrazione Biden. Il termine, infatti, è finito sui tavoli di tutte le cancellerie più importanti nel maggio 2023, dopo che il Giappone lo fece inserire in un comunicato del G7, e già nel mese di giugno la Commissione europea era in grado di presentare la sua “Strategia per la sicurezza economica”. Dal lato statunitense, i princìpi di fondo sono stati però definiti tra aprile e maggio attraverso i discorsi del National Security Advisor Jake Sullivan al the Brookings Institute il 27 aprile e del segretario di Stato Anthony Blinken il 22 maggio alla George Washington University. In particolare, Blinken definì l’approccio del governo USA attraverso tre parole: “invest, align, compete”. Lo stesso modello verrà poi assunto dalla Commissione europea con una leggera flessione semantica, ovvero “promote, partner, protect”. L’idea di fondo è che in un contesto definito dal valore politico della dipendenza nei settori critici sia fondamentale aumentare la capacità industriale domestica (invest), creare network di alleanze per ridurre e condividere il costo della ristrutturazione delle catene del valore (align) e limitare l’avanzamento del competitor politico, in questo caso la Cina, con limitazioni all’export di tecnologia (compete).
In tutti i tre pilastri della strategia di sicurezza economica dell’amministrazione Biden la presidenza Trump ha fatto dei passi in direzione diversa. Il primo caso è quello di “invest”, ovvero delle politiche industriali che hanno avuto come politica bandiera l’Inflation Reduction Act (IRA) del 2022. La revisione di alcune sezioni dell’Inflation Reduction Act (IRA), come parte dell’One Big Beautiful Bill Act (OBBBA), porta così gli Stati Uniti a una netta inversione di tendenza rispetto alla politica energetica e industriale dell’amministrazione Biden. Non c’è mai stato alcun dubbio sulla totale incompatibilità di Trump con la svolta “green” del suo predecessore, nonostante gli Stati Uniti già con Biden fossero al picco della produzione ed esportazione di combustibili fossili. Tuttavia, la virata imposta dal presidente repubblicano va letta attraverso la duplice lente della sua politica commerciale ed energetica. Da una parte, rimuovendo o rivedendo i sussidi e gli incentivi federali per l’installazione e la produzione domestica di tecnologie rinnovabili come solare, batterie ed eolico, oltre alla vendita di veicoli elettrici – settori che, grazie all’IRA, hanno mobilitato oltre $320 miliardi di investimenti privati in oltre 4.500 progetti dall’agosto del 2022 – Trump vuole impedire che le “nuove forze produttive” cinesi possano trovare troppo terreno fertile nel mercato statunitense, perlopiù se sussidiate dai contribuenti americani (secondo le stime dell’Office of Tax Analysis del dipartimento del Tesoro, sarebbero oltre $830 miliardi le spese federali attraverso le varie sezioni dell’IRA entro il 2033), ampliando magari lo squilibrio commerciale o ricreando una nuova forma di dipendenza. Non è un caso che nel suo discorso al Congresso, lo scorso 4 marzo, le parole “solare”, “eolico”, “rinnovabili” o “crediti fiscali” non siano mai state menzionate, a differenza di “tariffe” comparsa ben 18 volte. Dall’altra, vi è la convinzione che l’emergenza energetica nazionale dichiarata dal presidente non si concili con i tempi e i costi della decarbonizzazione (e reindustrializzazione) nel solco di Biden, ma piuttosto debba allinearsi all’urgenza di dare sempre più energia agli Stati Uniti per settori emergenti (come IA e data center) ritenuti strategici nella competizione proprio con la Cina, oltre a voler abbassare i prezzi dell’energia per i consumatori statunitensi. Da qui il rinnovato focus sui permessi per estrarre gas (seppur vi siano potenziali colli di bottiglia sulla disponibilità di turbine) e petrolio (dentro l’OBBB, attraverso le raccomandazioni dell’House Committee on Natural Resouces, è previsto l’aumento delle concessioni per le attività esplorative e la riduzione delle royalties statali), bruciare carbone e in futuro rivitalizzare il nucleare.
Tuttavia, in quasi tre anni la spinta dell’IRA si è fatta sentire, con risultati che sembravano incoraggianti. Tra il 2021 e il 2024 sono stati installati negli USA più di 167 GW di impianti eolici e solari (78% solo da solare fotovoltaico) secondo i dati di BloombergNEF. Solo nel 2024 il 90% della nuova capacità agganciata alla rete elettrica statunitense ha riguardato impianti di generazione rinnovabile, superando per la prima volta il carbone con il 17% della domanda americana di elettricità coperta. La scalabilità e i prezzi in picchiata per solare e batterie, combinati a un contesto normativo e di mercato favorevole, avrebbero fatto gioco: le proiezioni al 2035, con gli incentivi dell’IRA ancora in vigore, vedevano gli Stati Uniti installare cumulativamente ulteriori 709 GW di solare, oltre 190 GW di eolico e un impressionante 219 GW di batterie per lo stoccaggio stazionario (BESS). Texas e California sono stati tra i maggiori beneficiari, in un trend che non sembra frenare nonostante la doppia incertezza tra tariffe commerciali (gli USA importano BESS principalmente dalla Cina) e futuro dell’IRA. Tuttavia, queste proiezioni ottimistiche potrebbero contrarsi rispettivamente del 35, 13 e 15% in uno scenario, ormai materializzato, di parziale revisione dell’IRA, con le sezioni 48E e 45Y che verranno progressivamente terminate entro il 2028. In generale, è previsto un phase-out drastico ai crediti per i veicoli puliti (EV), per l’energia pulita e l’efficienza energetica residenziale, per la produzione di idrogeno pulito, con un risparmio complessivo che complessivamente si stima possa arrivare a circa $543 miliardi di tagli al bilancio nel periodo 2025-2034. Particolarmente impattante anche sul piano politico interno (si veda la reazione di Elon Musk e il crollo in borsa di Tesla) la fine degli incentivi alle auto elettriche (sezione 30D) con $7,500 dollari per veicolo, che avrà un impatto anche sulla certezza degli investimenti nella filiera delle batterie elettriche, dall’assemblaggio fino alle attività estrattive su suolo americano e non solo. Se da una parte la sezione 45X (relativa al credito per la manifattura avanzata) non sarà tagliata drasticamente, il linguaggio dell’OBBBA prevede di accorciare significativamente le tempistiche per l’erogazione dei crediti previsti ma soprattutto di complicare l’accesso a quest’ultimi con ulteriori restrizioni tramite la disciplina delle Foreign Entity of Concern (FEOC), resa ancor più intricata per limitare il più possibile il bacino dei potenziali fruitori, che si rivolgeranno ad altri mercati (come Messico, Canada e UE). Caso pratico ed emblematico, quello delle batterie: a partire dal 2026, se più del 40% del costo della componente proviene da una “prohibited foreign entity” (si legga, Cina), nessun credito può essere riscosso, così come l’avvalersi di $35/kWh per la manifattura.
Difficile stimare, ad oggi, gli effetti. Basta registrare che circa il 73% degli impianti rinnovabili previsti nel prossimo biennio sarà in Stati repubblicani, così come la maggior parte degli investimenti privati in capacità industriali in batterie e solare: due settori dove l’incertezza creata con questi drastici tagli potrebbero compromettere gli sforzi di reshoring e de-risking degli Stati Uniti, con ricadute occupazionali (circa 330mila posti di lavoro a rischio) e di ampliamento del gap tecnologico con la Cina.
Il secondo elemento, quello di “align” è, se possibile, ancor più messo in discussione dalle prime decisioni di Trump. Il senso di questa strategia era quella di creare una rete di Paesi che condividessero con gli Stati Uniti la volontà di contenere l’ascesa economica della Cina, ritenuta frutto di sussidi scorretti e motore di pratiche di coercizione economica, come nel caso dell’utilizzo politico del commercio di terre rare e materie prime critiche. Si trattava quindi, nell’idea di Biden, di creare dei canali commerciali preferenziali con Paesi allineati politicamente – i cosiddetti Paesi “like-minded” – in modo da aiutarli a staccarsi dalla dipendenza economica da Pechino. In qualche modo si trattava dell’essenza della politica di de-risking, al centro dell’agenda di Unione europea, Giappone, Australia, Corea del Sud, Regno Unito e Canada. Tuttavia, Trump, ha completamente sovvertito questa impostazione imponendo dazi senza riguardo al grado di vicinanza politica della controparte coinvolta. Anzi, Trump ha raggiunto degli accordi sui dazi sia con la Cina – teoricamente il Paese verso cui la strategia di sicurezza economica è rivolta – che con gli alleati (Regno Unito e si attende ora quello con l’Unione europea). Tra le principali “vittime” di questo approccio ci sono quei Paesi del Sud-est asiatico, ben rappresentati dal Vietnam (con il quale non è chiaro se, ufficialmente, sia stato raggiunto un accordo sulla riduzione delle precedenti tariffe), che erano stati i beneficiari della guerra commerciale del primo Trump e delle politiche di promozione del friend-shoring (ovvero localizzazione delle catene del valore in Stati “like-minded”) promosse da Biden. Si parla, infatti, di “uccisione del friend-shoring” da parte di Trump proprio per aver messo nel mirino quei Paesi che negli scorsi anni hanno fortemente aumentato il proprio surplus verso gli USA perché diventati fornitori alternativi alla Cina, considerata troppo sensibile politicamente. L’attenzione di Trump è proprio rivolta al fatto che in alcuni casi sono gli stessi produttori cinesi ad aver spostato la produzione in quelle aree per evitare le limitazioni imposte al Made in China.
Infine, con i tre round negoziali avvenuti tra maggio e giugno, Trump ha messo in discussione anche il pilastro del “compete”, quello che prescriveva il tentativo di limitare l’avanzamento tecnologico cinese nei settori in cui era la Cina a essere dipendente. Si tratta in questo caso dei semiconduttori, e l’iniziativa di riferimento è l’Executive Order del 7 ottobre 2022 con cui Biden ha limitato l’export di tecnologie abilitanti nel settore dei semiconduttori avanzati. Un’iniziativa che ha poi coinvolto aziende in Stati alleati, come Paesi Bassi e Giappone, nel restringere l’interscambio con la Cina per ragioni di sicurezza nazionale. Ebbene, il rilancio della guerra commerciale con il ritorno di Trump ha indotto Pechino e Washington a portare sul tavolo delle trattative anche dossier che appartenevano a questo ambito.
Uno degli obiettivi è stato quello di ottenere dalla Cina il rilascio di specifiche licenze per l’esportazione di specifici elementi delle terre rare e magneti verso industrie civili e militari americane. Per contestualizzare, gli USA importano dalla Cina volumi considerevoli solo di lantanio (tra le ‘terre rare leggere’ e più comuni) per circa il 64% (dato al 2024), usato perlopiù dall’industria petrolifera e senza il quale si avrebbe un aumento dei costi della benzina/gasolio. La dipendenza che riguarda le ‘terre rare pesanti’ e magnetiche (per capirci, quelle sottoposte a regime di controllo sull’export come disprosio-Dy e samario-Sm, e su cui la Cina detiene un monopolio tra estrazione e raffinazione) è sostanzialmente irrilevante per la ridotta scala produttiva negli Stati Uniti: nel 2024 gli USA hanno contato per circa il 13% dell’export di magneti permanenti di terre rare della Cina (molti dei quali contenenti proprio Dy e Sm, quindi ristretti all’export se non a seguito di licenza concessa dal ministero del Commercio cinese). In quest’ottica, e per dare respiro alle industrie statunitensi colpite, Trump ha acconsentito di alleggerire il blocco all’impiego di software americani (Electronic Design Automation – EDA) per il design di semiconduttori avanzati da parte dei chipmakers cinesi, che era in vigore da agosto 2022. Un esempio plastico di come l’interdipendenza tecnologica tra i due Paesi sia diventata un elemento centrale delle relazioni bilaterali, ma anche un’ammissione da parte degli USA di non poter vincere facilmente il braccio di ferro tecnologico con la Cina.
In conclusione, se la strategia di sicurezza economica di Biden puntava a creare un cordone di sicurezza attorno alla Cina, Trump ha fatto suo il modello di coercizione economica per raggiungere obiettivi politici senza tenere in considerazione l’esistenza di un gruppo di Paesi che condividono obiettivi politici e valoriali in ambito internazionale. Per queste ragioni, eventuali appelli successivi da parte di Trump a limitare le relazioni economiche con la Cina – anche nel contesto dei BRICS – cadono nel vuoto. Infatti, il senso politico dell’azione di Trump mette in discussione tutto l’impianto della sicurezza economica di Biden che puntava a ridurre la dipendenza dove in svantaggio e a mantenere un vantaggio nei settori in cui gli Stati Uniti erano invece meglio posizionati motivandolo politicamente come solidarietà in funzione anti-cinese. Dopo il Liberation Day, però, non ci sono più differenze in ambito commerciale tra amici e rivali e sarà difficile ricostruire una visione politica condivisa che giustifichi l’allineamento delle politiche verso la Cina.
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