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Rivoluzionerò le società benefit, perché un giorno un giudice antimafia mi spiegò: «Funzionano solo i patti fra buoni»


Intervista a Marco Morganti, neopresidente di Assobenefit e già fondatore di Banca Prossima. Una conversazione a tutto tondo su come far crescere il mondo delle benefit corporation italiane: creando disciplinari e distretti, collaborando con Confindustria e altre associazioni imprenditoriali ma anche con il Terzo settore. E sul futuro dello sviluppo sostenibile sfoggia ottimismo, ricordando come dal Dopoguerra a oggi, «il mondo s’è messo a funzionare in un certo modo positivo». È tranchant sulla controrivoluzione trumpiana: «Pensare che tutto ciò possa essere compromesso dal signore biondastro, con idee da svalvolato è ridicolo»

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Dove va la sostenibilità? Ce lo stiamo chiedendo in tanti, in questa temperie che parrebbe tutto ribaltare, ricacciando indietro ciò che molte coscienze davano per acquisito: che ci possa essere uno sviluppo rispettoso degli uomini e delle donne e della Terra in cui vivono.
Per rispondere a questa domanda, siamo andati in cerca di persone che questo rispetto lo vivono: in aziende, percorsi associativi, impegni pubblici, scelte personali. E chiedendo di raccontarci quelle attività, anzi, chiedendoneglie l’attualità, si arriva ogni volta alla domanda iniziale. Primo articolo di una serie.

Marco Morganti (Macerata, 1959) è una sorta di ircocervo: un intellettuale – un filologo rinascimentale che poi ha lavorato nell’editoria – ma anche un manager, avendo progettato la nascita di Banca Prossima, la prima dedicata al Terzo settore, poi rientrata in seno a Intesa Sanpaolo, con il nome di Direzione Impact.

Per la prima banca italiana, Morganti lavora ancora (da consulente) e in uno dei palazzi milanesi di Intesa lo abbiamo incontrato, in una giornata torrida di questa estate anticipata. L’ufficio ha la sua impronta: un grande tavolo circolare in mezzo, libri ovunque, il pc adagiato su un tavolino, da una parte. E tante curiose sculture di legno: «Quelle? Sono il frutto di un’attività di team building che facemmo molto tempo fa, con alcuni colleghi: anziché fare rafting giù per i torrenti – ha presente? – andammo tutti nell’atelier di Michele De Lucchi, che ci fece fare queste bellissime torri in legno ispirate a Banca Prossima. Io le ho battezzate: Stabilità, Invenzione, Accoglienza e Perseveranza».

Da poco, Assobenefit, l’associazione che raccoglie le società benefit italiane, lo ha chiamato alla presidenza. è Morganti l’uomo giusto per capire dove va la sostenibilità, in questo tempo di grandi ripensamenti.

Morganti, le società benefit entrarono nell’ordinamento italiano quasi 10 anni fa; quando l’allora senatore Mauro Del Barba, con un blitz, le aveva inserite in Finanziaria, avevano suscitato grandi entusiasmi. Lo sviluppo che ne è seguito, seppure con alcune migliaia di aziende che ne hanno abbracciato lo statuto, è sembrato forse deludere un po’ le aspettative.

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Sì grandi entusiasmi e grandi attese. D’altra parte anche le Bcorp, che sono partite con il vento in poppa e con grandi squilli di tromba, in Italia si sono fermate a un numero esiguo. Mentre il numero delle società benefit aumenta: sono quasi 5mila. E poi…

E poi?

E poi è interessante il campione, perché non sono tutte grandi, ce ne sono anche di piccole, e in ogni parte d’Italia. Ci sono anche dei soggetti che sono quasi controintuitivi: nessuno si aspettava, per esempio, che ci fossero studi professionali e invece ci sono, o anche municipalizzate, che hanno già un evidente scopo di bene comune. E poi tutti i tipi di attività: servizi, manifatturiero, produzione, trasformazione. Tutti segni buoni. Certo poi hai ragione lei, perché una cosa così buona, invece che a 5mila, bisogna portarla a numeri più grandi. E qui si apre il discorso di come fare.

Raccontiamolo.

La soluzione più semplice sembrerebbe quella di incentivarle fiscalmente. Sappiamo che è difficilissimo, solleverebbe più che un problema. Però è anche vero che, come si dice a Firenze (dove l’intervistato ha studiato e lavorato e l’intervistatore è nato e ha vissuto, ndr), che il “morto è nella bara”.

C’è poco da discutere, cioè.

È chiaro che c’è da una parte un soggetto che non assisti fiscalmente, l’impresa for profit; poi ce n’è uno che aiuti fiscalmente, che è l’impresa non profit. Allora perché il soggetto benefit, che sta nel mezzo, deve per forza aderire al modello del non aiutato?

Che incentivi immagina?

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Troverei molto intelligente l’incentivo introdotto all’inizio, con la possibilità di considerare l’essere benefit, in una gara d’appalto pubblica, come un titolo di merito: era una buona idea ma è sparita dal Codice degli appalti, cancellata da un giorno all’altro. Senza nemmeno molta grazia formale. Del Barba ha fatto due interrogazioni parlamentari molto ben costruite, l’ultima forse un mese fa.

Lei che spiegazione s’è dato?

C’è un’antipatia per il cosiddetto favoritismo verso i soggetti che hanno impatto sociale. Perché c’è anche un contropensiero, non dimentichiamocelo. Si ricorda i tempi di Silvio Berlusconi, la polemica sulle cooperative-che-avevano-tutti-i-vantaggi, si ricorda Falce e carrello

Sì, il libro del cavalier Caprotti.

La buonanima di Caprotti. Qualcosa residua ancora di questo pensiero: un atteggiamento un po’ livoroso nei confronti di chi non lavora per l’obiettivo del profitto: secondo alcuni o è un illuso o è un furbo o uno indebitamente favorito. Quanto alle benefit… Ecco, arrivo a dirle una cosa.

Prego.

Che forse il nome benefit andrebbe cambiato.

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Addirittura?

Perché è generatore di una certa confusione: benefit fa pensare a beneficenza, che non c’entra nulla, siamo nel ramo sbagliato. Ci sono due errori nel concetto di società benefit. Il primo che è la traduzione italiana di B Corp. Due cose diversissime con lo stesso nome. E questo non è il massimo della chiarezza, no?

Secondo?

Che se diciamo  bene-fit, stiamo quasi dicendo bene fiat “beneficenza” per il 99% degli italiani. E quindi il proprietario dell’officina di autoriparazioni che magari vorrebbe fare qualcosa in direzione bene comune, di fronte all’etichetta benefit si immagina di dover tirar fuori dei soldi obbligatoriamente, per aiutare questo e quello. E non che magari può essere benefit impegnandosi perché i giovani facciano un tirocinio nella sua officina, cosa che farebbe molto volentieri perché non è beneficenza. Mentre all’accezione “beneficenza”, semmai, la reazione è: se la faccio, la faccio io, a titolo personale ecomunque come voglio io. Chi è uno che mi viene a dire che la devo fare? Questo è un grande equivoco.

Soluzioni?

Mi appassiona la definizione francese: entreprise à mission. Vale a dire un’impresa che ha una missione, che dichiara una missione.

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In effetti, sarebbe più calzante.

Molto più calzante. Però adesso non picconiamo il terrazzino sul quale siamo, ché il cemento  è ancora molto fresco.

Senta, rispetto al passato c’è stata qualche polemica sul il fatto che questa legislazione avesse consentito anche a dei soggetti dichiaratamente opportunistici di insinuarsi. Ci fu il caso famoso di Campione d’Italia, del comune che fece registrare la società che gestiva il Casino.

Prima di risponderle, torno sul tema del far crescere le benefit e dell’incentivazione. L’incentivazione magari il pubblico in questo momento ritiene di non doverla fare ma il privato potrebbe farla.

E come, Morganti?

Lei ha un soggetto, che fa scarpe. Per produrre scarpe ha bisogno di suole e di tomaie e le compra dal signor Rossi e dal signor Bianchi. Per esempio potrebbe dire: “Caro signor Rossi, caro signor Bianchi, gradirei che foste benefit. Anzi, siccome sono un privato, sappiate che se siete benefit compro da voi, se no compro da un altro,”. E questo è un concetto di “filiera benefit” che è molto espansivo, se ci pensa.  Tutto questo però lo si fa a cominciare da una ridefinizione del concetto di benefit, che escluda gli opportunisti e aiuti i disinformati.

Chi sono gli opportunisti e chi i disinformati?

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Marco Morganti nel suo ufficio milanese a Intesa Sanpaolo

L’opportunista potrebbe in teoria sapere tutto della benefit e usarla artatamente, per farsi pubblicità. E lì conta che il pubblico lo sappia e gli dica: “non ci raccontare storie, tu sei una benefit di convenienza e quindi per me non lo sei, anzi peggio, sei una ‘malefit’”.

Il disinformato?

La non informazione, si sconfigge facendo campagne con la Camera di Commercio, Confindustria, con Confapi, Confartigianato, per far capire che cos’è il vero concetto di benefit. Quindi per creare ed espandere il modello -in attesa di forme di incentivazione ci vuole un’attività culturale che è quella che Del Barba ha impostato fin dall’inizio. AssoBenefit è un soggetto che deve moltiplicare le awareness intorno al concetto di benefit. E questo farà sì che da 5mila le imprese diventino 500mila. Con l’effetto collaterale sperato che molte si iscriveranno ad Assobenefit. Quindi bisogna lavorare in questa direzione di valorizzazione del concetto. Come quando, di passaggio nella Pianura padana, fermandoci in un paesino, ci capita di mangiare un formaggio molto buono ma senza nome.

E che succede?

Succede che cominciamo a chiederci: come si fa a far sì che di questo formaggio se ne faccia tanto e che nessuno si infili nelle pieghe producendolo magari da un’altra parte o producendolo come capita? Ci vorrebbe un disciplinare. Quindi il disciplinare delle benefit è l’altra sfida che ho in testa. Bisogna costruirlo.

Già ma perché fino adesso non c’era?

Perché Del Barba ha fatto benissimo: in una fase espansiva, da 0 a 5mila, serviva un modello con basse barriere di accesso, basato sull’autocertificazione, in via sostanziale. Poi però arriva una fase di “adultità”, in cui bisogna smettere di autocertificarsi. Oppure ci si autocertifica, ma c’è qualcuno che ti indirizza, ti assiste e ti controlla. Anche oggi sarebbe così, però di fatto io ho visto molti statuti di benefit che valgono poco, che mostrano il fianco, che poi possono screditare l’intero sistema. Non si tratta sempre di persone in malafede, intendiamoci. I disinformati prevalgono sui furbi.

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Quindi, filiera benefit, disciplinare benefit.

Fino arrivare al distretto benefit, cioè al fatto che ci sia in un territorio un insieme di soggetti, le imprese, ma anche  soggetti pubblici, per esempio, che regolino i loro scopi di beneficio comune, in modo che convergano su quel territorio in una maniera complementare.

Si potrebbe dire che funziona già così da parte di molte imprese

Sì, ma le imprese lo fanno scoordinate o quando si ricordano. Ora, e non c’è programmazione possibile se hai un certo numero di soggetti che fanno cose in modo discontinuo e in maniera totalmente autonoma, senza dialogare e programmare. Assobenefit la vorrei proprio candidare a essere un regolatore locale, un co-regista. Penso a una valvola, a un rubinetto di un sistema parallelo a quello di erogazione delle fondazioni. Non è il sistema della spesa pubblica, ma un sistema di privati sensibilizzati al fare una certa cosa con l’efficienza in cui sono maestri, come avviene nei distretti produttivi. Attenzione, l’intervento dell’impresa può anche non voler dire soldi, può essere opportunità, può essere intervento in kind, in tutte le possibili.

Prima citava le grandi organizzazioni di categoria, da sensibilizzare. Quale risposta si immagina? Noto che in Confindustria, la delega agli Esg, ce l’ha Lara Ponti, a capo, col fratello, di una storica industria conserviera tra le primissime a essere società benefit.

Da questi mondi, mi aspetto collaborazione, offrendo collaborazione, nel modo più intenso possibile. Questo non vuol dire che siamo l’associazione di categoria delle benefit. Siamo ancora un soggetto culturale, che cerca di diffondere il modello, farlo conoscere e anche vigilarlo – lo dico sottovoce, perché vigilare è sempre un concetto complesso per un soggetto privato – però anche vigilarlo. O quanto meno indirizzare gli sforzi di un’impresa nel modo più efficace a essere una benefit vera, perché sennò il vantaggio d’immagine dell’essere una benefit si traduce nello svantaggio di essere percepiti come una falsa benefit. Per rispondere alla domanda sulla collaborazione: possiamo prestarci a essere gli accompagnatori di soggetti, che aderiscono a quelle associazioni e categorie, per portarli nella direzione giusta per diventare benefit nel modo più utile a sé e a tutti

Invece nei confronti del Terzo settore, con cui spesso i vostri soci si trovano a collaborare? Ha in mente di contribuire a un dialogo maggiore?

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Allora, noi ci troviamo in questa terra di mezzo, di attenzione strutturata alla creazione di impatto – perché questo è il concetto di benefit – e non possiamo in ogni modo ignorare quelli che lo fanno come unica attività. E quindi per forza ci vuole dialogo, lo stesso dialogo che si è creato, ma finora in maniera un po’ zoppa, un po’ discontinua, con il mondo del profit. Me lo faccia sottolineare.

Avanti.

Penso a un non profit che dialoga con il profit in una maniera costruttiva e volta al futuro, invece che all’immediato e alle emergenze, del tipo “non ho soldi per questo, regalameli”. Sarebbe un cocktail fantastico, stravincente, che in Italia funzionerebbe benissimo, e che sta già succedendo in modo disordinato.

Che cosa ci vuole?

Una impostazione che valorizzasse le combinazioni di privato, profit e non, e di pubblico, per esempio nella appaltistica pubblica, sarebbe stata tanto utile. Esemplifico: sono il comune di Vattelappésca, devo pavimentare la strada, sono interessato a ricevere proposte dai migliori pavimentatori. Se mi arriva un pavimentatore che dice: per questo progetto impegno 10 ex detenuti, grazie alla mia relazione con la cooperativa sociale XY.. C’è bisogno di sperimentare tutte le collaborazioni possibili, tutte le mescolanze possibili. Per questo ho voluto che in consiglio ci fosse Serena Porcari, consigliere delegato di Fondazione Dynamo Camp e non solo perché è un’amica da sempre.

Tira un vento freddo. E anche maleodorante, secondo me. Come in tutti questi casi, credo, la crisi può essere positiva, se serve a distinguere i free riders (gli scrocconi, ndr) da quelli che ci credono veramente. Chi ci crede veramente rivendica, rilancia.

Marco Morganti

Questo suo nuovo impegno, Morganti, coincide con la fase storica e politica in cui, per quel che riguarda la sostenibilità e la responsabilità di impresa, c’è il rischio che si torni indietro a grandi balzi. Qual è la sua percezione?

Tira un vento freddo. E anche maleodorante, secondo me. Come in tutti questi casi, credo, la crisi può essere positiva, se serve a distinguere i free riders (gli scrocconi,ndr) da quelli che ci credono veramente. Chi ci crede veramente rivendica, rilancia.

Perché?

Glielo spiego raccontandole un episodio strano, che mi è rimasto in testa, che ha modificato la mia vita, lo posso dire. Ero ragazzo, avrò avuto 20 anni, e andavo all’ Elba. E il traghetto, mi ricordo, che partiva a tarda sera era anche in ritardo, per cui era notte fonda quando facemmo la traversataC’era una Luna bellissima. Salgo sul ponte e c’è un signore che guarda la luna, da solo. Mi metto proprio vicino a lui.

Avendo studiato lei i poeti del Rinascimento…

Eh sì (ride) e non potevo non essere incuriosito da una figura così. Il quale mi racconta, a un certo punto d’essere un magistrato antimafia  prossimo alla pensione. Non so nemmeno se mi disse il suo nome. E allora gli ho detto: “Mi dica una cosa, ma la mafia – allora era dura con la mafia, 40 anni fa – uccidevano un commissario dentro l’altro –  la mafia vincerà o perderà?”.

E lui?

Un giorno, un magistrato antimafia mi disse: “Il male soccombe al bene, perché i basa su un patto tra cattivi. E il concetto stesso di patto è pieno, autentico, soltanto se tra buoni. Negli altri casi è un patto falso, che può essere tradito in qualunque momento”.

Marco Morganti

Lui mi ha guardato e mi ha detto: “Perderà sicuramente: il male soccombe al bene, perché il male si basa su un patto tra cattivi. E il concetto stesso di patto è pieno, autentico, soltanto se tra buoni. Negli altri casi è un patto falso, che può essere tradito in qualunque momento”.

Che immagine!

Facendo mio quel concetto, che mi accompagna da allora sempre, le dico che c’è una direzione sola ed è proprio quella: patti tra buoni per costruire un nondo migliore, come l’idea europea di Welfare, la difesa dei diritti di chi lavora, la transizione dal fossile. Pensare che tutto questo possa essere compromesso dal signore biondastro con idee da svalvolato (Donald Trump, ndr), lui e i suoi amici, è ridicolo. Le imprese saranno pure opportuniste però…

Però?

Però ricordo che qualche volta ognuno può rovesciare le cose, attraverso il non-opportunismo, l’essere di frontiera, oppure oltre la frontiera, di guadagnare così un’immagine vincente, un’immagine riconosciuta. Le faccio il caso di Benetton, si ricorda gli inizi delle campagne pubblicitarie con le immagini di Oliviero Toscani?

Combattuti assai.

C’era chi diceva: “Un’impresa non si occupa di questo, un’impresa non mette certe immagini sulle cantonate delle strade, perché è una cosa diseducativa, non è il suo ruolo, ci sono altri” ecc. Però la gente l’ha percepito positivamente. Si è creata un’idea molto positiva di quell’impegno. Quindi per tornare a quel vento freddo e maleodorante…

Torniamoci.

Produrrà una specie di separazione tra acqua e olio, tra quelli che ci credono per davvero e che si guadagnano con merito una posizione verso l’opinione pubblica, che continueranno a fare oggi –  e dichiarandolo! – quello che sembrerebbe non più il tempo di fare e quegli altri, gli opportunisti, che si riposizionano: quando la nuttata sarà passata, quando l’aria sarà un pochino più respirabile, questi opportunisti si troveranno indietro. E, guardi, questa cosa l’abbiamo già vista succedere, questo è un fenomeno che si ripete: l’opportunismo e poi il momento in cui gli opportunisti sono smascherati. Sarà una visione, se vuole, ottimistica, o forse un po’ illuminista, però a me piace e sono convinto che sia il segno prevalente dal dopoguerra oggi.

Dagli archivi di VITA, una foto di Morganti in visita alla redazione di Via Marco D’Agrate, 20 anni fa circa

Ricordiamolo.

È dal 1945 che il mondo si è messo a funzionare in un certo modo positivo, migliorandosi seppure con cadute. Questa caduta non cambia il trend.. E se lei confronta – giusto così per darle un’idea – da una parte il signor Trump e soci e dall’altra 80 anni di questo progresso,  capisce che stiamo parlando del nulla. E così la signora Von der Leyen, che appare in pubblico e dice: “È finita l’epoca delle illusioni, adesso ci riarmiamo tutti”, oltre a dire una cosa in sé sbagliata si prende la responsabilità di dire una cosa opposta a quanto pensavano Spinelli, Schumann, Brandt. Sarebbero questi gli illusi?. Ma chi sei per dirlo? E come mi convinci che il tuo senso della realtà risolverà davvero i problemi?

Lei che risposte si dà?

Che viviamo un’epoca di annunci: e non lo scopro io, guardi. E quindi gli annunci possono fare un gran danno nell’immediato, ma non nel lungo periodo. Ce ne vuole, prima di tornare indietro veramente.

C’è un aspetto non filosofico, come il patto dell’anziano magistrato, che la fa essere ottimista, su questi temi?

Penso che, nonostante tutto, nonostante gli enormi problemi che si porta dietro, l’elemento più forte in cui credere sia l’evoluzione tecnologica, la possibilità di fare cose che , ai tempi miei, e anche ai suoi non si potevano fare – e oggi sono fattibilissime per chiunque. Invece che farne una minaccia alla libertà individuale e una fonte di ulteriori diseguaglianze dobbiamo trasformarla  in uno strumento di bene comune, democraticamente vigilato, e il mondo cambierà. .

E perché?

Perché la base della natura umana è positiva, aveva ragione il giudice antimafia. E se io metto nelle mani dell’uomo dei mezzi straordinariamente più potenti che in passato, il risultato non potrà che essere positivo. Suonerà come un articolo di fede, ma diventando vecchio ne vedo  conferme ovunque.

Le foto di questo articolo sono dell’autore dell’articolo, tranne quella degli archvi di VITA che è di Antonio Mola. Nella foto di apertura, sulla destra, si intravede una delle torri costruite nell‘atelieri dell’architetto De Lucchi.

1^ articolo di una serie.

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