Rispetto dell’integrità territoriale, fine delle ostilità, disarmo, integrazione dei gruppi armati non statali e ritorno di rifugiati e sfollati. Sono i punti chiave dell’accordo di pace firmato il 27 giugno dalla Repubblica Democratica del Congo (Rdc) e il Ruanda, grazie alla mediazione degli Stati Uniti e del Qatar. Un accordo che arriva dopo un lungo conflitto nel Kiwu, nell’Est della Rdc, un’area controllata dal gruppo armato non statale Movimento 23 marzo (M23) che, secondo le Nazioni Unite, è sostenuto finanziariamente e militarmente dal Ruanda.
La mediazione degli Stati Uniti si inserisce nel rinnovato interesse delle potenze globali per l’Africa subsahariana, e in particolare per le materie prime presenti nel territorio, e riflette l’intenzione del presidente statunitense Donald Trump di accreditarsi come mediatore globale, dalla guerra in Ucraina al conflitto tra Israele e Palestina. “Oggi siamo qui a celebrare un risultato grandioso” ha dichiarato Trump. Ma il successo di questo accordo è tutto da vedere. L’M23, infatti, non ha partecipato ai negoziati (anche se ha portato avanti altre trattative mediate solo dal Qatar) e non ha ufficialmente approvato il disarmo e l’integrazione del gruppo nell’esercito regolare.
In cambio della garanzia di sicurezza gli Stati Uniti hanno ottenuto la possibilità di accedere alle risorse minerarie, assicurandosi l’approvvigionamento di materie critiche fondamentali per la transizione digitale ed ecologica e scalfendo l’enorme potere della Cina. La Rdc possiede infatti circa la metà delle riserve accertate di cobalto a livello mondiale e copre oltre il 70% della produzione. Nelle aree controllate dall’M23, i ribelli hanno stabilito “un’amministrazione para-statale, che emette permessi per i minatori e i commercianti” spiega la Bbc. Una situazione da cui ha tratto beneficio anche il Ruanda, importando illegalmente cobalto da quell’area.
Tra Stati Uniti, Cina e Russia
Nell’ambito di questo rinnovato interesse per l’Africa, la Repubblica popolare cinese è stato sicuramente uno dei Paesi più attivi negli ultimi anni: nel 2003 solo 18 Paesi commerciavano più con la Cina che con gli Stati Uniti. Vent’anni dopo il numero è salito a 52. Dopo aver stanziato ingenti finanziamenti per la costruzione di infrastrutture, come ferrovie e autostrade, attraverso la Belt and road initiative, la Cina sta ora ridimensionando il suo impegno finanziario a causa dei conflitti interni e della crisi del debito di alcuni Stati.
Tuttavia, non è intenzionata ad arretrare completamente: il 12 giugno ha annunciato di voler annullare i dazi per i prodotti provenienti da tutti i Paesi africani, a eccezione dell’Eswatini (ex Swaziland) che mantiene rapporti diplomatici con Taiwan. L’impatto di questa misura sull’economia del continente potrebbe essere limitato poiché i Paesi africani esportano soprattutto materie prime che sono già escluse dai dazi. La misura, tuttavia, ha un’enorme importanza geopolitica: alla fine di settembre, infatti, scadrà l’African growth and opportunity act, l’accordo con cui gli Stati Uniti garantiscono un accesso preferenziale al mercato americano ai Paesi africani.
Per questo i Paesi africani stanno cercando di attrarre l’interesse degli Stati Uniti, aprendo i propri mercati alle imprese americane o concedendo diritti per l’estrazione delle materie prime. “Dopo aver trascorso anni a criticare, giustamente, la Cina per lo sfruttamento delle risorse naturali e per l’uso del suo potere per ottenere concessioni, ora l’America sta facendo esattamente la stessa cosa. Questo consente alla Cina, seppur cinicamente, di presentarsi come il partner benevolo” scrive l’Economist.
Il terzo grande attore nell’Africa subsahariana è la Russia che negli ultimi anni ha esteso la sua influenza in particolare attraverso il gruppo aramilitare privato Wagner. Dopo la morte del suo fondatore nel 2023, la milizia ha subito quello che Foreign policy ha definito un “rebranding”, cambiando nome (da Wagner ad Africa Corps) e passando sotto il controllo del ministero della difesa russo. Questi contingenti offrono protezione e sicurezza ai governi in cambio di accesso alle materie prime: la giunta militare del Mali, ad esempio, ha autorizzato la costruzione di una raffineria d’oro in cui il gruppo russo Yadran avrà una quota di minoranza.
Per rafforzare il suo ruolo, nel settembre del 2023 la Russia ha creato l’African initiative. Presentata ufficialmente come un’agenzia di stampa russa per raccontare la “lotta decennale dei Paesi africani con il retaggio neocoloniale” e le attività di medici, soldati, giornalisti e imprenditori russi nel continente, l’iniziativa è di fatto uno strumento di propaganda. Le due organizzazioni formano “il nuovo ecosistema dell’influenza russa in Africa”, ha spiegato il ricercatore francese Maxime Audet a Le Monde, perché “l’African initiative si occupa degli imprenditori e delle campagne di disinformazione già in atto, mentre gli Africa corps cercano di assorbire i mercenari della Wagner”.
La Russia sta colmando il vuoto militare lasciato dalla Francia. Dopo decenni di ingerenza più o meno esplicita (la cosiddetta Françafrique), complice anche un crescente sentimento antifrancese, la Francia ha iniziato a ritirare le proprie truppe da alcune ex-colonie, tra cui Niger, Burkina Faso, Mali, Ciad, Senegal e Costa d’Avorio. Nonostante questo disimpegno militare, è difficile che l’influenza francese si riduca drasticamente: il francese è la lingua ufficiale in 9 ex-colonie, mentre 14 Paesi continuano a utilizzare il franco Cfa. Istituito nel 1945 con il nome di “franco delle colonie francesi d’Africa”, il franco Cfa è una moneta a cambio fisso ancorata all’euro. Per molti è una garanzia di stabilità, per altri si tratta di un retaggio del passato coloniale francese. Per questo la riforma del franco Cfa, che ad esempio ha annullato l’obbligo di depositare una quota di valuta estera presso il Tesoro francese, è stata una delle misure più rilevanti all’interno del nuovo approccio francese verso il continente.
La nuova corsa all’Africa
“L’Africa di solito non è una priorità nelle agende diplomatiche mondiali, in particolare in un periodo di conflitti in Medio Oriente e in Europa. Ma gli esperti sostengono che molti Paesi ora sentono il bisogno di sviluppare o rinnovare la loro ‘strategia per l’Africa’ per via della rapida crescita della popolazione, l’alta concentrazione di minerali critici e i suoi 24 voti all’Onu” spiega il Financial Times. E così nel continente stanno emergendo nuovi attori. Tra questi sono particolarmente attivi gli Emirati Arabi Uniti che tra il 2022 e il 2023 hanno annunciato investimenti per un totale di 97 miliardi di dollari, tre volte il totale degli investimenti cinesi. “Se si osservano i principali punti strategici ed economici dell’Africa – i porti per il commercio, le miniere di metalli critici, i grandi progetti di energia rinnovabile – si trovano gli Emirati Arabi Uniti” ha sintetizzato il New York Times.
Da anni attivi nel Nord Africa, gli Emirati Arabi Uniti stanno ora ampliando la loro area di influenza anche nei Paesi subsahariani grazie alle imprese nazionali con forti legami politici. Amea power, ad esempio, ha già costruito o è in procinto di costruire centrali di energia rinnovabile in Burkina Faso, Etiopia, Costa d’Avorio, Kenya, Togo e Uganda. L’Emirati international holding company ha investito oltre un miliardo di dollari per acquisire il 51% delle miniere di rame di Mopani in Zambia. Accanto alla speranza di finanziamenti per la transizione ecologica, però, l’impegno degli Emirati Arabi Uniti ha sollevato dubbi sui rischi per i diritti dei lavoratori e per l’ambiente.
Il Piano Mattei per l’Africa
Dopo un periodo di relativo disimpegno, anche l’Italia ha rilanciato le relazioni con il continente africano. Un cambio di politica estera culminato con il “Piano Mattei per l’Africa”. Annunciato tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024 dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il Piano Mattei è stato presentato come un’iniziativa volta a promuovere lo sviluppo nei Paesi africani grazie all’avvio di partnership politiche ed economiche basate sulle convergenze degli interessi nazionali e non su un approccio caritatevole.
Si tratta di uno strumento ambizioso con cui il governo italiano spera di portare avanti alcuni interessi per il nostro Paese, tra cui il controllo delle rotte migratorie, l’approvvigionamento energetico, la promozione degli investimenti di grandi aziende pubbliche e private e il rafforzamento del ruolo internazionale del Paese. Ma l’annuncio del Piano ha sollevato alcune critiche, primo fra tutti l’aspetto finanziario. Il Piano prevede un finanziamento iniziale di 5,5 miliardi di euro, di cui 3 miliardi di euro tratti dal Fondo italiano per il clima e 2,5 miliardi di euro dalla cooperazione allo sviluppo. Si tratta quindi di risorse già esistenti e non aggiuntive che verranno “spostate” nel Piano Mattei.
La seconda critica riguarda la natura dei progetti inseriti nel Piano poiché alcuni sono programmi già attivi da anni o in fase di realizzazione, sostenuti da associazioni o da grandi imprese italiane, prima fra tutte Eni. Al momento non è facile capire lo stato di avanzamento del Piano Mattei: finora è stata presentata solo la prima relazione, mentre non è ancora stata pubblicata la seconda (sebbene il termine previsto fosse il 30 giugno). L’impegno del governo italiano però non è fermo: a maggio è stato annunciato un ampliamento dei Paesi coinvolti (da 9 a 14 Stati), mentre a giugno è stata rilanciata la collaborazione tra il Piano Mattei e il Global gateway, il progetto di sviluppo infrastrutturale dell’Unione europea. Durante il vertice del 20 giugno, copresieduto dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, sono stati sottoscritti accordi per un valore complessivo di 1,2 miliardi di euro per finanziare iniziative strategiche, tra cui il “Corridoio di Lobito” che ha l’obiettivo di collegare l’Africa occidentale con quella orientale, unendo l’Angola allo Zambia, attraverso la Repubblica Democratica del Congo.
Un’area in bilico
L’interesse crescente di molti Paesi per l’Africa subsahariana dimostra le potenzialità di quest’area. Come sottolinea il Fondo monetario internazionale, l’Africa subsahariana possiede circa il 30% delle riserve di minerali critici. Oltre alle già citate riserve di cobalto della Repubblica Democratica del Congo, in Sudafrica, Gabon e Ghana si concentra il 60% della produzione globale di manganese. Molti giacimenti, inoltre, sono ancora inesplorati, come quelli di litio in Zimbabwe, Repubblica Democratica del Congo e Mali. Nei prossimi 25 anni la domanda di rame, nichel, cobalto e litio genererà ricavi globali per circa 16mila miliardi di dollari. L’Africa subsahariana potrebbe ottenere il 10% di questi guadagni, con un potenziale aumento del Pil della regione del 12% entro il 2050.
Oltre alle materie prime, l’altro capitale della regione è quello umano. Secondo le stime delle Nazioni Unite, la popolazione dell’Africa subsahariana potrebbe superare i due miliardi entro metà secolo. Nove Paesi, inclusi l’Angola, la Repubblica Democratica del Congo e il Niger, potrebbero raddoppiare la propria popolazione nei prossimi 30 anni. Anche la piramide demografica può giocare a favore della regione: il 70% della popolazione oggi ha meno di 30 anni e i giovani, se adeguatamente formati e inseriti nel mercato del lavoro, possono diventare un motore straordinario di crescita e sviluppo.
Tuttavia, la crescita economica è ostacolata da alcuni problemi strutturali. Come riporta l’Ispi, il 60% delle persone che vivono in condizioni di povertà estrema a livello globale (con meno di 2,15 dollari al giorno) abita nell’Africa subsahariana (di cui un terzo in Nigeria e Repubblica Democratica del Congo). Il cambiamento climatico aggraverà la situazione, esponendo milioni di persone a insicurezza alimentare ed eventi estremi e i costi per l’adattamento ai cambiamenti climatici nel prossimo decennio saranno pari al 2,3% del Pil.
L’Africa subsahariana, inoltre, continua a essere la regione più colpita dai conflitti armati: secondo l’Armed conflict survey 2024 dell’International institute for strategic studies, nel 2023 14 Paesi dell’area su 49 erano in guerra e sono stati registrati 28 conflitti interni, il numero più alto dal 1991. Il rapporto “Conflict intensity index” ha individuato un “corridoio dei conflitti” che si estende dal Sahel al Corno d’Africa, dove gli episodi di violenza sono raddoppiati negli ultimi tre anni. I conflitti e l’instabilità politica sono sfruttati da gruppi terroristici che, anche attraverso attacchi terroristici e radicalizzazione, stanno consolidando il loro potere.
La conseguenza più drammatica di questo clima di violenza riguarda il numero degli sfollati che, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), nel continente ha raggiunto i 35,4 milioni di persone nel 2024, un numero triplicato rispetto al 2015. Il 45% degli spostamenti forzati causati dai conflitti è stato registrato in soli due Paesi: Repubblica Democratica del Congo e Sudan, dove è in corso la più grave crisi umanitaria al mondo. Nell’Africa subsahariana sono aumentate anche le violenze commesse nei confronti dei bambini, come denuncia il Rapporto del Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres: a livello globale si registrano oltre 41mila violazioni gravi, di cui 4mila nella Repubblica Democratica del Congo e 2500 sia in Somalia sia in Nigeria.
L’Africa subsahariana si trova al centro di una nuova “corsa” internazionale che riflette l’interesse delle grandi economie per le materie prime e che dimostra il potenziale di sviluppo della regione. Il futuro però rischia di essere ostacolato da fragilità strutturali e da politiche di Paesi terzi attenti solo ai propri interessi nazionali.
Copertina: Ansa
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