Il panorama italiano della formazione aziendale mostra una vitalità sorprendente, ma anche profonde crepe che rischiano di allargarsi: mentre le imprese aprono il portafoglio per non perdere terreno, una parte consistente della popolazione attiva continua a restare ai margini dei percorsi di aggiornamento professionale. Una fotografia scattata da Assolavoro DataLab rivela luci e ombre che meritano attenzione.
Autofinanziamento: il peso della formazione sulle imprese
Quando si passa dai proclami ai numeri, emerge un dato che fa riflettere: il 76,8% delle aziende italiane finanzia la crescita delle competenze dei propri dipendenti attingendo esclusivamente al bilancio interno. Nelle microimprese, dove ogni spesa va ponderata con estrema attenzione, la quota sale fino al 81,4%. Significa che l’esigenza di restare competitivi, di fronte a mercati in veloce trasformazione, viene gestita quasi sempre senza ricorrere a sostegni esterni, con un impegno che grava direttamente su margini spesso già assottigliati.
La scelta dell’autofinanziamento non è solo una questione di autonomia imprenditoriale. Molta parte del tessuto produttivo rinuncia a strumenti pubblici e para-pubblici perché li percepisce complicati, lenti, difficili da decifrare. I Fondi interprofessionali entrano in gioco appena nel 15,4% dei casi, i fondi strutturali europei scendono al 6,1%, mentre le agevolazioni fiscali si fermano a un modesto 5%. Basterebbe già quest’elenco a dimostrare quanto la burocrazia, insieme alla scarsa informazione, continui a creare barriere soprattutto per gli operatori di dimensione ridotta, che alla fine preferiscono percorrere la strada più rapida, benché più onerosa.
Partecipazione dei lavoratori: un nodo irrisolto
Se si guarda dal lato della domanda, il quadro non è meno spigoloso. Solo il 35,7% degli adulti compresi fra i 25 e i 64 anni prende parte a percorsi di istruzione o addestramento, con un distacco di undici punti dalla media dell’Unione. Neppure i giovani se la cavano meglio: nella fascia 18-24 la partecipazione si ferma al 70%, quasi dieci punti sotto il 79,8% registrato in Europa. Questi valori raccontano un Paese che fatica a considerare il sapere come un investimento costante, e non un capitolo da aprire solo in caso di emergenza professionale.
Il fenomeno assume contorni ancora più marcati se si isola il dato dei disoccupati: appena il 11,9% si impegna in iniziative formative collegate al lavoro, mentre in Francia la quota raggiunge il 28,9%. Sui circa quindici milioni di lavoratori dipendenti analizzati, ben 11,8 milioni non hanno seguito nemmeno un’ora di corso fra il 2022 e il 2023. Il 78% di chi resta fuori sostiene di non avvertire alcuna necessità , percentuale che sale all’81,7% fra gli uomini. Tra le donne, invece, emergono motivazioni ulteriori, spesso legate a ostacoli di natura familiare o organizzativa. Un ulteriore 20,3% avrebbe voluto partecipare ma è rimasto bloccato da costi, turni o incombenze personali, segno di una cultura che lascia il peso dell’aggiornamento sulle spalle dei singoli.
Un mercato miliardario ma polarizzato
Benché la domanda resti segmentata, l’offerta di corsi per adulti produce cifre di primo piano: nel 2022 il comparto ha generato un giro d’affari superiore a 3,2 miliardi di euro. Tuttavia la ricchezza è concentrata. Poco più del 6% delle imprese, quelle che superano il milione di fatturato annuo, intercetta il 69,2% del valore complessivo. All’estremo opposto il 41,5% degli operatori non arriva a sfiorare i centomila euro, evidenziando un ecosistema spaccato fra grandi player strutturati e una platea di piccoli soggetti con margini risicati.
Anche la mappa territoriale riflette la stessa disomogeneità . Il baricentro economico si concentra in Lombardia e Lazio, con Milano e Roma che guidano sia per numero di operatori sia per volume di affari. Alle loro spalle si collocano città come Torino, Bologna, Napoli e Padova. La distribuzione delle occasioni formative, dunque, ricalca il tradizionale divario Nord-Sud e mette in evidenza quanto l’accesso al capitale umano resti legato alla forza dei sistemi produttivi locali e alimenti disparità che si ripercuotono sul lavoro.
Le imprese che investono: un confronto europeo
In termini di propensione a investire, le aziende italiane con più di dieci addetti mostrano un dinamismo non trascurabile: tra il 2022 e il 2023 il 68,9% di esse ha attivato iniziative di formazione continua, un valore che colloca l’Italia leggermente sopra la media europea, fissata al 67,4%. Il numero evidenzia che l’industria nazionale, pur alle prese con costi energetici elevati e compressione dei margini, non ha rinunciato a puntare sulle competenze come leva di competitività in un contesto di mercati sempre più volatili e imprevedibili.
Il raffronto con i partner continentali, tuttavia, invita alla cautela. In Germania la quota di imprese attive supera il 77%, in Francia sfiora il 76% e in Spagna si attesta oltre il 73%. In valori assoluti, più di 804 mila realtà italiane hanno offerto opportunità ai dipendenti; di queste, circa 384 mila hanno strutturato percorsi formali, mentre le altre hanno preferito modalità di apprendimento «on the job» o affiancamenti mirati. La corsa all’intelligenza artificiale, alla transizione green e agli aggiustamenti demografici rende però indispensabile estendere lo sforzo, pena il rischio di restare indietro.
Le voci degli esperti
«La formazione mirata, capace di intercettare i reali bisogni delle imprese e di cavalcare l’evoluzione del lavoro, è l’unico vero motore del futuro» ha osservato Agostino Di Maio, da poco alla guida di Assolavoro Formazione. Secondo il manager, ogni euro speso in programmi ben costruiti raddoppia o triplica il proprio valore e, quando riguarda i più giovani, può moltiplicarsi fino a sette volte. Un ritorno economico e sociale che nessun’altra leva, al momento, riesce a garantire con tanta rapidità .
Dalla stessa platea di addetti ai lavori è arrivato un invito a non disperdere energie. Serve un salto di qualità che passi per standard rigorosi, minori vincoli procedurali e, soprattutto, una regia nazionale capace di armonizzare le differenze regionali. Proprio su questi punti si sono soffermati, fra gli altri, Simone Cappelli, Natale Forlani, Stefano Raia, suor Manuela Robazza e Alessandro Voutcinitch. Il modello sperimentato con il fondo privato Formatemp – che ogni anno coinvolge circa quattrocentomila persone e assicura a oltre un terzo un immediato inserimento lavorativo – è stato indicato come esempio di sinergia tra pubblico e privato destinato a diventare prassi.
La ricerca e il calendario delle prossime sfide
Tutti questi numeri provengono dallo studio «Il mercato dei servizi per la formazione in Italia», elaborato da Assolavoro DataLab sotto la supervisione di Maurizio Del Conte e Mauro Di Giacomo. Il lavoro, presentato nell’aula magna dell’Università di Roma Tre davanti a rappresentanti istituzionali, docenti e operatori del settore, si propone di offrire uno sguardo sistemico su un comparto spesso raccontato a spizzichi. L’obiettivo dichiarato è fornire indicazioni utili alle politiche attive e alle imprese che, ogni giorno, tentano di coniugare competitività e tenuta occupazionale.
Il prossimo banco di prova sarà la nuova programmazione dei fondi europei e delle misure nazionali, che dovrà trasformare le criticità oggi fotografate in opportunità concrete per lavoratori e imprese. L’esito di questa sfida dipenderà dalla capacità di semplificare l’accesso, diffondere la cultura dell’apprendimento permanente e sostenere i soggetti più vulnerabili del mercato del lavoro. In gioco non c’è solo la modernizzazione dei processi produttivi, ma la tenuta di un tessuto sociale che, senza competenze adeguate, rischia di perdere terreno nel confronto internazionale.
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