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La finanza corre indisturbata sui soliti sentieri


Nel testo che segue riportiamo alcune notizie recenti relative al mondo della finanza mondiale, come reperibili in alcuni rapporti di ricerca e nella stampa quotidiana e settimanale. Il quadro che ne risulta non appare particolarmente entusiasmante: si tratta di un’attività che non sembra voler cambiare per niente nelle sue logiche perverse di lunga data.

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Le banche continuano a finanziare le energie fossili. Secondo quanto ci informa sulla questione il Rapporto annuale “Banking on climate caos” pubblicato di recente da una coalizione di organizzazioni non governative, nel 2024 le principali banche del mondo hanno aumentato del 23% rispetto all’anno precedente i finanziamenti ai produttori di energie fossili, portandoli a 869 miliardi di dollari; e questo dopo che nei due anni precedenti si era assistito invece a una certa riduzione degli stessi e mentre la domanda di petrolio e gas tende a diminuire nel mondo (Angrand, 2025). Sul podio di questa pessima classifica si collocano ovviamente tre grandi banche americane. L’inversione di tendenza recente sembra debba essere attribuita principalmente all’evoluzione in peggio del contesto politico e regolamentare occidentale e contrasta con le ripetute dichiarazioni di molte banche in proposito. Mentre l’UE annacqua il suo cosiddetto green deal, l’arrivo di Trump alla presidenza degli Stati Uniti non contribusce certo a migliorare la situazione. Comunque la notizia non sorprende.

I paesi poveri e la finanza. Dati recenti della Unctad indicano che ormai 54 paesi spendono più del 10% delle loro entrate fiscali ogni anno soltanto per il pagamento degli interessi sul debito, mentre il peso del carico degli stessi interessi è sostanzialmente raddoppiato dal 2011 ad oggi. Più di 3,3 miliardi di persone vivono in paesi che spendono più per il servizio del debito che per la sanità, mentre 2,1 miliardi in paesi che vi spendono più che nell’istruzione. Intanto i costi dello stesso debito stanno aumentando fortemente e stanno diventando proibitivi per i paesi più poveri. Le politiche del debito attuali in molti paesi sottosviluppati sono utili ai mercati finanziari, non alla gente. Questo minaccia di condannare intere nazioni a un decennio perduto o ancora peggio (Stiglitz, 2025). Per altro verso i dazi di Trump rallenteranno lo sviluppo dell’economia e così essi porteranno meno entrate ai governi. I paesi citati hanno bisogno una nuova fase di alleggerimento del carico dei debiti per evitare che i soldi che servirebbero per la salute e l’istruzione siano invece versati ai creditori. Una Commissione Giubilare nominata a suo tempo da Papa Francesco e presieduta da Joseph Stiglitz ha presentato un rapporto nel giugno 2025 con delle proposte per intervenire sul tema. Si tratta fondamentalmente di ridurre in debito a favore degli Stati fortemente indebitati, come già si fece nel 2000, quando furono cancellati oltre cento miliardi di dollari di debito internazionale (Alfieri, 2025). Dal 30 giugno al 3 luglio si è tenuto a Siviglia il quarto vertice dell’Onu sul finanziamento per lo sviluppo. Non viene proposta una nuova agenda, ma si ribadiscono gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 approvati nelle precedenti convenzioni. Erano assenti dal vertice gli Stati Uniti. Comunque il documento, di fronte alla situazione di povertà estrema e alla crisi climatica, quantifica in 4.000 miliardi di dollari le necessità ulteriori che sarebbero richieste per affrontare tali problemi nel Sud del mondo. Ma il documento non fissa impegni vincolanti in proposito per i vari paesi ricchi. Peraltro gli obiettivi fissati nel documento possono essere raggiunti solo con una volontà politica che attualmente manca. Si sta cercando di pensare a fonti ulteriori di finanziamento cui attingere. La Spagna e il Brasile, poi raggiunti da altri paesi, hanno proposto un’imposta globale del 2% annuo sulle fortune dei super ricchi del pianeta. Tale imposta frutterebbe 250 miliardi di dollari l’anno (Alfieri, 2025).

Lo scandalo di Singapore. Era un poco di tempo che non si sentiva parlare di scandali bancari. Ma ecco che abbiamo notizie recenti sulle conclusioni giudiziarie di un episodio accaduto a Singapore nel 2023 e che riguardava un caso di riciclaggio di denaro sporco per circa un miliardo di dollari da parte di alcuni cittadini cinesi (Alim, 2025). La città, come è noto, è, tra l’altro, un grande centro finanziario, tra i maggiori in Asia. Sono stati così sequestrati molti beni, tra cui lingotti d’oro e auto di lusso. La Monetary Authority di Singapore ha condannato nove istituzioni finanziarie al pagamento di una penalità totale di 27,5 miliardi di dollari per non aver controllato adeguatamente tali movimenti. Tra le istituzioni condannate figurano Il Credit Suisse, l’UBS, la Citibank. Le banche multate hanno promesso di migliorare i loro sistemi di controllo di politiche e procedure.

L’euro può diventare più importante? Nell’Unione Europea la Francia in particolare sta spingendo per rafforzare il profilo finanziario della moneta comune come valuta di riserva globale, in relazione al fatto che la politica economica di Trump sta indebolendo di giorno in giorno il ruolo dominante del dollaro, aprendo così gli spazi perché l’euro diventi più attraente sui mercati finanziari, mentre qualcuno spera addirittura che esso diventi la valuta più importante. In effetti, l’euro nel 2025 e sino alla fine di giugno è cresciuto del 14% contro il dollaro, raggiungendo il suo più alto livello degli ultimi quattro anni. La posizione della Francia si appoggia anche sulle dichiarazioni della presidente della BCE, Christine Lagarde, che ha affermato tra l’altro che l’euro potrebbe rivaleggiare con il dollaro. Per i francesi il suo rafforzamento potrebbe avvenire, tra l’altro, attraverso l’emissione da parte della BCE di obbligazioni comuni ai paesi dell’area (Eurobond), arrivando ad assicurare una fornitura abbastanza ampia al mercato finanziario di attività sicure al posto delle emissioni dei singoli Stati. Attualmente le riserve in euro delle banche centrali estere rappresentano il 19% di quelle totali, più o meno lo stesso livello dei primi tempi della creazione dell’euro, collocandosi al secondo posto dopo il dollaro. Ma come al solito la Germania e l’Olanda sono fortemente contrarie a tale proposta (Bounds e altri, 2025), come a tutte quelle che comportano un ruolo più importante per la finanza comune dell’UE. Peraltro va considerato che una valutazione troppo marcata della valuta europea renderebbe più costose le esportazioni, aggiungendosi su questo fronte alle minacce di dazi di Trump. Bisogna infine aggiungere che una valuta come l’euro manca del necessario supporto di un’organizzazione statale forte. Anche questa occasione ovviamente si perderà.

Il debito dei paesi ricchi. A partire dalla grande cisi del 2008 e poi ancora dopo la pandemia del Covid anche il mondo occidentale si sta piegando sotto una montagna di debito pubblico che non finisce mai di crescere. Di più, di recente il Giappone e gli Stati Uniti ma anche la Corea del Sud e l’Australia durante le più recenti emissioni di titoli pubblici hanno dovuto far fronte a un crescente scetticismo degli investitori e così i tassi di interesse sui prestiti stanno crescendo a livelli spettacolari, che non si vedevano da quasi due decenni. Così quelli statunitensi a trenta anni hanno raggiunto il 5%, il livello più alto dal 2007, mentre in Francia si è toccato il 4%, record dal 2012. Qualcuno prevede un crac per il mercato obbligazionario Usa, ritenuto sino a ieri il più sicuro del mondo; si tratta di Jamie Dimon, patron della JP Morgan, la più grande banca degli Stati Uniti. Secondo lui non si può prevedere se sarà fra sei mesi o dieci anni, ma succederà. E questo in particolare a ragione dell’irresponsabilità budgetaria del paese (Albert, 2025). Ormai il carico del debito nei paesi ricchi è di quattro o cinque volte più importante che i budget consacrati alla cultura, all’ambiente o agli alloggi (Ocse). Ci troviamo così in una situazione difficile.

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La nuova finanza Usa. Nell’ultimo decennio la finanza statunitense ha subito una radicale trasformazione. Al tradizionale dominio delle banche, delle assicurazioni e dei fondi tradizionali si è sostituita al centro della scena un mix di asset manager, hedge fund, società di private equity e così via. La loro affermazione presenta intanto delle innovazioni di regolamentazione; esse non sono soggette alle imposizioni di alti livelli di mezzi propri come richiesto alle banche ed evitano anche gli stretti controlli sulle attività di trading delle stesse. I nuovi soggetti hanno occupato tutti gli angoli del sistema finanziario, compresi quelli prima territorio esclusivo degli intermediari tradizionali, hanno guadagnato molto denaro e hanno anche indirizzato il capitale verso gli impieghi più produttivi e l’innovazione tecnologica, aiutando l’economia a migliorare le sue prestazioni e a mantenere la leadership mondiale (The Economist, 2025, a). Purtroppo, d’altra parte, la nuova finanza contiene in sé dei rischi molto importanti. Bisogna considerare nel quadro intanto la variabile Trump, che nel suo secondo periodo come Presidente sta provando di essere un agente del caos per i mercati finanziari. Lo stato della finanza statunitense è vulnerabile alla politica del paese che si va corrodendo (The Economist, 2025, a). Tra l’altro, una crescita ulteriore delle preoccupazioni relative al livello del debito governativo, mercato nel quale giocano un ruolo critico gli hedge fund ad alto livello di indebitamento, potrebbe scatenare un collasso a Wall Street. Del resto lo stesso James Powell, presidente della Fed, afferma che nelle attuali condizioni il debito pubblico Usa è insostenibile. Ma uno shock potrebbe venire, oltre che dalle politiche di Trump, dalla caduta dei prezzi dell’immobiliare commerciale, dalle fragili banche regionali, nonché dalla troppo elevata valutazione delle azioni delle imprese tecnologiche (The Economist, 2025, b). Come ci ricorda Martin Wolf (Wolf, 2025), tradizionalmente le banche e le altre istituzioni finanziarie si indebitavano a breve termine e investivano a lungo termine. Questo alla fine ha, tra l’altro, portato alla crisi del 2008. Oggi abbiamo un grande numero di imprese finanziarie non regolate, come invece le banche e le assicurazioni, che anch’esse si indebitano fortemente a breve termine ed investono in attività a lungo termine. Le differenze rispetto al passato sono che 1) prestiti e impieghi si svolgono per la gran parte non nella stessa valuta (ora il sistema appare molto più connesso internazionalmente; questo significa, tra l’alto, che un collasso a Wall Street significherebbe un collasso in tutto il mondo (The Economist, 2025, b)), 2) dominano il mercato delle entità finanziarie scarsamente regolate e infine 3) ora prevalgono le operazioni sui titoli pubblici rispetto ad un passato concentrato su quelli privati. Certo per governare tale situazione (chiediamoci ad esempio cosa succederebbe se il mercato dei prestiti a breve termine si prosciugasse) ci vuole un prestatore di ultima istanza con la volontà di sostenere la situazione in una possibile crisi e di impegnarsi in una profonda cooperazione internazionale (Wolf, 2025). Trump seguirebbe? Un grande punto interrogativo.

Gli Stati Uniti, la UE e la regolamentazione dei mercati finanziari. Intanto il nuovo presidente della SEC statunitense, Paul Atkins, nominato da Trump, mostra un quasi totale voltafaccia per quanto riguarda la regolamentazione dei mercati finanziari rispetto al suo predecessore Gary Gensler, che era in carica ai tempi di Biden. Il nuovo dirigente ha ritirato 14 regole che il predecessore non aveva fatto in tempo a varare e che riguardavano informazioni da parte degli operatori sul clima, l’intelligenza artificiale, i movimenti di criptovalute e i derivati. La mossa appare parte di un più largo sforzo del Governo per ridurre la regolamentazione sulle imprese e la protezione degli investitori (Palma e altri, 2025). D’altro canto Trump sembra interessato più a guadagni personali estraibili del casinò finanziario che a tutelare gli investitori con un’adeguata regolamentazione. Ma l’UE non vuole certo essere da meno. Dopo la crisi finanziaria del 2008 sono stati presi dei provvedimenti per ridurre il rischio del ripetersi di tali situazioni. Così nel 2010 sono state varate delle misure, dette di Basilea II, per rinforzare i mezzi propri delle banche. Doveva poi seguire Basilea III, decise nel 2017 e che dovevano entrare in vigore nel 2022. Ci dovrebbe essere poi anche una Basilea IV, la cui entrata in funzione sarebbe prevista nel 2033. Ma Gli Stati Uniti non hanno sino ad oggi annunciato un calendario di messa in opera delle norme e presumibilmente Trump potrebbe non volerne sentire parlare ed allora l’Unione Europea, per evitare di trovarsi a dover gravare le proprie banche di un onere da cui gli Stati Uniti vogliono rifuggire, sembra anch’essa ferma, mentre la Gran Bretagna ha deciso di rimandare il tutto al 2027 (Albert, Angrand, 2025).

Conclusioni. Tutto normale, tutto as usual.

Testi citati
– Albert E., L’inquiétante fringale de dette des grands pays, Le Monde, 7 giugno 2025
– Albert E., Angrand M., Banques: coup de frein sur la régulation, Le Monde, 6 giugno 2025
– Alfieri P. M., La crisi del debito un abisso per i fragili…, Avvenire, 21 giugno 2025
– Alim A. N., UBS and Citi among nine banks fined $27.4mn in Singapore money-laundering case, www.ft.com, 4 luglio 2025
– Angrand M., Les financements bancaires aux énergies fossiles repartent à la hausse, Le Monde, 18 giugno 2025
– Bounds A. ed altri, France pushes for joint debt to bolster international role of euro, www.ft.com, 20 giugno 2025
– Stewart H., Developing countries ‘need more debt relief’ to fund education and health, www.theguardian.com, 20 giugno 2025
– Palma S., Trump SEC chair scraps proposed market rules as he charts new path, www.ft.com, 20 giugno 2025
– Stiglitz J., Debt is crushing the developing world, www.ft.com, 2 giugno 2025
The Economist, New and untested, 31 maggio 2025, a
The Economist, A new financial order, Special Report, 31 maggio 2025, b
– Wolf M., The risks of funding State via casinos, www.ft.com, 1 luglio 2025

 



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