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il rischio di una coesione incompiuta


L’Unione Europea ha inserito la transizione digitale e la coesione territoriale tra le sue priorità strategiche, riconoscendo la digitalizzazione come leva trasversale di sviluppo economico, inclusione sociale e rafforzamento democratico.

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Digitalizzazione e coesione: un equilibrio ancora fragile

Tuttavia, l’attuazione concreta delle politiche digitali, in particolare nei territori più fragili, evidenzia una tensione crescente tra ambizione strategica e capacità amministrativa.

Il nodo della governance multilivello riemerge con forza. Serve infatti un nuovo modello di coordinamento tra istituzioni europee, nazionali e locali per evitare che la digitalizzazione diventi un ulteriore fattore di polarizzazione. Le politiche pubbliche inoltre prevedono una messa a terra i cui destinatari finali sono, da un lato, i privati cittadini – lavoratori, studenti e famiglie – dall’altro, le forze produttive.

Il Pnrr italiano, come gli altri Recovery Plan, ha stanziato risorse significative per la digitalizzazione della Pubblica amministrazione, delle imprese e dei servizi ai cittadini. Secondo i dati della Corte dei Conti europea, tuttavia, il rischio principale rimane quello di una frammentazione progettuale: troppi interventi scollegati, governance deboli a livello locale e scarsa capacità di monitoraggio. Non è solo un problema di efficienza tecnica, ma di equità territoriale: laddove le regioni più sviluppate riescono a integrare meglio innovazione e servizi digitali, le aree interne e rurali continuano a scontare ritardi strutturali in termini di infrastrutture, competenze e accesso.

Governance multilivello e regionalismo differenziato

Sempre nel contesto italiano, il problema si intreccia con quello del regionalismo differenziato. Alcune regioni rivendicano maggior autonomia anche su temi come l’innovazione digitale e la formazione professionale, ma senza un quadro nazionale armonizzato e senza standard minimi condivisi, si rischia di accentuare la disomogeneità. La digitalizzazione, per sua natura, richiede interoperabilità, scalabilità e standard comuni. Una governance multilivello deve quindi bilanciare il principio di sussidiarietà con quello di integrazione.

Partecipazione e trasparenza nella governance digitale

La questione riguarda anche la partecipazione democratica. Una governance digitale efficace non può prescindere dal coinvolgimento attivo dei cittadini e degli attori locali. Iniziative come le “case delle tecnologie emergenti” o i “poli europei per l’innovazione digitale” rappresentano tentativi interessanti di portare l’innovazione nei territori, ma hanno bisogno di essere inseriti in una strategia coerente, accompagnata da meccanismi di ascolto, valutazione d’impatto e trasparenza decisionale.

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La crisi del Fondo sviluppo e coesione

A questo si lega una criticità economica. Il Fondo Sviluppo e Coesione (Fsc) per il periodo 2021-2027 è ormai prossimo all’esaurimento. Secondo uno studio del Servizio Studi della Camera dei deputati, dei 78,1 miliardi previsti restano disponibili appena 3,8 miliardi. Finora ne sono stati assegnati 28,8 con specifiche disposizioni di legge, altri 45,5 miliardi con delibere del Cipess, tra cui 30,6 miliardi per le amministrazioni regionali e 13,8 miliardi per quelle centrali. Solo una minima parte delle risorse è stata spesa: i pagamenti si attestano al 4% e gli impegni al 12,4%. La quota effettivamente utilizzata per gli Accordi di Coesione, firmati dal governo Meloni con le Regioni, è inferiore a quanto inizialmente previsto, anche per via di impieghi legati a emergenze territoriali e a grandi opere.

Criticità emergono anche nella distribuzione territoriale: metà delle Regioni ha speso meno del 5%, con Sicilia e Lombardia ferme allo 0,4%. Solo Bolzano, Liguria, Piemonte, Umbria e Lazio superano il 10%. Lo studio solleva dubbi sull’uso dell’Fsc per coprire interventi ordinari, mettendo in discussione la sua funzione originaria di strumento aggiuntivo per ridurre i divari territoriali.

Un digital divide che rischia di ampliarsi

Per assurdo quindi, la digitalizzazione, anziché ridurre questi i divari rischia così di amplificarli. L’indice Desi dell’Ue mostra costantemente gap marcati tra i Paesi del Nord e quelli del Sud Europa, ma anche all’interno degli stessi Stati membri, tra città metropolitane e periferie. In Italia, nello specifico, si assiste a una duplice frattura. Da un lato, un Sud che arranca sul fronte della digitalizzazione amministrativa. Dall’altro, differenze marcate anche tra città capoluogo e piccoli comuni, con questi ultimi spesso privi delle competenze tecniche per accedere efficacemente ai fondi digitali.

Coesione e governance multilivello: quale futuro?

Il concetto stesso di coesione va quindi riletto alla luce della trasformazione digitale. Non si tratta solo di trasferire risorse finanziarie verso i territori più deboli, ma di costruire una capacità amministrativa diffusa e resiliente. Qui entra in gioco la questione della governance: la digitalizzazione pone sfide nuove ai modelli decisionali esistenti. La governance multilivello richiede oggi una revisione profonda, non solo in chiave orizzontale (tra istituzioni parigrado), ma soprattutto verticale, con una redistribuzione intelligente delle competenze tra Bruxelles, Roma e gli enti territoriali.

Tra riforme e risultati: le imprese chiedono chiarezza

I programmi europei come “Digital Europe” o “Connecting Europe Facility” sono progettati per creare sinergie tra attori diversi, ma spesso mancano gli strumenti concreti per garantire coordinamento e accountability a livello subnazionale. A ciò si aggiunge il fatto che molte delle competenze chiave – formazione, istruzione, politiche industriali – sono condivise tra livelli di governo o fortemente regionalizzate. In assenza di una regia solida e partecipata, il rischio è che si moltiplichino progetti “a pioggia”, senza un reale impatto sistemico.

Non a caso, il Comitato europeo delle regioni ha approvato all’unanimità un parere che chiede una politica di coesione più forte, territoriale e strategica dopo il 2027. I leader locali e regionali si oppongono alla proposta della Commissione di un piano nazionale unico per ogni Stato membro, sottolineando l’importanza di mantenere i programmi regionali come strumenti chiave per affrontare le sfide specifiche dei territori. Secondo il Comitato, la politica di coesione deve restare il principale motore delle riforme europee, legandosi in modo più coerente al semestre europeo, che andrebbe trasformato in un processo strategico pluriennale con un reale coinvolgimento degli enti territoriali. Cauto sostegno è stato espresso verso un possibile passaggio a un sistema di pagamento basato sui risultati, simile a quello del Recovery Fund: semplificazione sì, ma solo se accompagnata da una solida raccolta dati a livello locale.

Nel frattempo, le imprese europee guardano con attenzione alle politiche di coesione Ue, riconoscendone il valore strategico ma chiedendo un’evoluzione che le renda più efficaci, semplici e aderenti alle esigenze concrete dei territori. Da un lato, le grandi organizzazioni datoriali – come BusinessEurope – sostengono il principio di collegare l’erogazione dei fondi alle riforme nazionali, secondo una logica di condizionalità che premi gli investimenti strategici e favorisca l’innovazione, la competitività e la modernizzazione delle economie locali. In quest’ottica, i fondi di coesione non devono essere meri strumenti redistributivi, ma leve per riforme strutturali.

Dall’altro, le piccole e medie imprese – che costituiscono l’ossatura produttiva europea – evidenziano con forza i limiti operativi dell’attuale sistema. Tra i principali ostacoli figurano la complessità amministrativa, la distanza tra chi gestisce i fondi e chi dovrebbe beneficiarne, e una progettazione troppo centralizzata. Le Pmi chiedono programmi più snelli, accessibili e radicati nel tessuto regionale, dove meglio si possono individuare bisogni specifici e opportunità di sviluppo.

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