Quando parliamo di cyber security, la mente corre subito a virus, ransomware, malware sofisticati o vulnerabilità nei software. Pensiamo a criminal hacker che violano reti, rubano dati, bloccano sistemi.
Eppure, con il tempo, si sta facendo strada una minaccia diversa, silenziosa e subdola, che non agisce direttamente sul codice o sui dispositivi, ma riesce a minare la sicurezza in modo altrettanto dirompente: la disinformazione.
La disinformazione come vulnerabilità
Nel mondo della sicurezza informatica, il concetto di vulnerabilità è chiaro: è qualsiasi debolezza che un attaccante può sfruttare per compromettere riservatezza, integrità o disponibilità dei sistemi.
Siamo abituati a pensare a bug nei programmi, configurazioni errate, errori di sviluppo, mancanza di aggiornamenti o infrastrutture obsolete.
Ma se allarghiamo lo sguardo oltre la sfera tecnica, scopriamo che la vulnerabilità più grande e pericolosa potrebbe annidarsi altrove: in quelle “certezze errate” che molte persone portano con sé ogni giorno.
La disinformazione, cioè il credere a qualcosa di falso o inesatto, finisce per radicarsi nelle convinzioni e nei comportamenti, diventando una minaccia reale perché capace di orientare e condizionare le azioni. E nella cyber security il comportamento umano resta spesso l’anello debole.
La disinformazione, a tutti gli effetti, rappresenta una vulnerabilità: crea un punto debole nel nostro sistema di difesa cognitivo, una crepa nella capacità di percepire la realtà e di valutare in modo critico le informazioni.
Proprio per questo può essere sfruttata da chi desidera manipolare comportamenti e decisioni.
Un parallelismo tecnico: bug nel sistema e nella mente
Analizzando la disinformazione con lo stesso metro con cui valutiamo le vulnerabilità informatiche, emergono parallelismi importanti.
Nel mondo tecnico, una vulnerabilità è un errore di programmazione, un difetto di progettazione o una configurazione sbagliata che apre una porta agli attaccanti, i quali creano exploit, malware o attacchi mirati per sfruttarla e rubare dati, danneggiare sistemi o ottenere vantaggi economici e strategici.
Allo stesso modo, la disinformazione agisce come un bug nella mente. Sfrutta bias cognitivi, emozioni e mancanza di spirito critico, si manifesta attraverso fake news, deepfake, campagne social costruite per sembrare autentiche.
E mira a indurre comportamenti dannosi: dal divulgare dati sensibili al compiere azioni sbagliate, fino a influenzare decisioni strategiche.
Le conseguenze, in fondo, sono simili. Se una vulnerabilità tecnica può compromettere riservatezza, integrità o disponibilità dei dati, la disinformazione può portare agli stessi effetti in modo indiretto, spingendo le persone a cliccare su link malevoli, installare software dannoso, diffondere contenuti falsi che danneggiano la reputazione di individui o aziende e prendere decisioni basate su informazioni scorrette, con ricadute economiche e geopolitiche.
Contromusure per bug e human vulnerability
Anche le contromisure mostrano analogie: alle vulnerabilità tecniche rispondiamo con patch, aggiornamenti e configurazioni sicure, mentre la disinformazione richiede un hardening della mente, fatto di formazione, verifica delle fonti e fact-checking.
Come agisce la disinformazione nel cyber domain
Gli attacchi informatici moderni integrano sempre più tecniche psicologiche e sociali. La disinformazione diventa un’arma potente.
Un hacker, spesso, non ha bisogno di violare un sistema con exploit tecnici se può convincere un dipendente a consegnare spontaneamente le proprie credenziali attraverso un messaggio costruito su informazioni false ma credibili.
La disinformazione viene utilizzata per colpire utenti con campagne di phishing sempre più sofisticate, danneggiare la reputazione di un’azienda diffondendo notizie false, manipolare i mercati finanziari con fake news su fusioni, acquisizioni o fallimenti, e destabilizzare intere società influenzando l’opinione pubblica su questioni politiche o sociali.
Esempi di disinformazione come human vulnerability
La forma più insidiosa di disinformazione è quella fatta di luoghi comuni, mezze verità o leggende metropolitane, così diffuse da sembrare scontate.
Durante corsi e formazioni emergono spesso convinzioni errate: molte persone credono ancora che dispositivi come Mac e iPhone siano immuni dai virus, inducendole a non installare antivirus o a cliccare senza cautela su link sospetti, ignorando gli aggiornamenti di sicurezza. In realtà, esistono trojan, spyware e phishing anche per macOS e iOS.
Un altro mito diffuso è che la presenza del lucchetto nella barra degli indirizzi del browser garantisca la sicurezza del sito. In verità, il lucchetto indica una connessione criptata, non l’affidabilità del contenuto del sito, e gli attaccanti possono creare siti di phishing con certificati SSL perfettamente validi.
Altri luoghi comuni da sfatare
Si pensa anche che i criminali informatici colpiscano solo top manager e grandi aziende, ma la realtà è che chiunque può diventare vittima, e piccoli furti di dati o frodi da poche centinaia di euro, moltiplicati su migliaia di utenti, generano guadagni enormi per i cybercriminali.
Ancora, la convinzione che la sicurezza informatica sia un problema esclusivo dell’IT è dura a morire, quando in realtà ogni reparto è un potenziale punto di ingresso per gli attacchi. La cultura della sicurezza deve diventare un valore aziendale condiviso, non confinato ai soli tecnici.
Non da ultimo, molte aziende credono che sia sufficiente avere un antivirus e un firewall per essere al sicuro, trascurando formazione del personale e protezione da phishing e social engineering, o che basti una password complessa per proteggere gli account, dimenticando l’importanza dell’autenticazione a più fattori, della gestione sicura delle credenziali e della protezione contro il furto tramite phishing.
Come mitigare la disinformazione e il rischio di human vulnerability
Se la disinformazione è una vulnerabilità a tutti gli effetti, possiamo affrontarla come fronteggiamo le altre debolezze di sicurezza: identificando il rischio, analizzandone l’impatto e mettendo in atto misure di mitigazione.
La formazione resta la contromisura più importante: sensibilizzare utenti, dipendenti e cittadini su come riconoscere messaggi sospetti, fake news e tentativi di manipolazione sviluppa lo spirito critico e riduce la superficie d’attacco.
Fondamentale è anche promuovere un cambiamento profondo nelle convinzioni, sostituendo credenze errate con informazioni corrette e aggiornate, basate sulla realtà delle minacce e delle tecnologie.
La verifica delle fonti e la pratica del fact-checking devono diventare abitudini personali e aziendali, così come l’uso di servizi di threat intelligence, utili non solo per individuare malware o indicatori tecnici di compromissione, ma anche per rilevare campagne di disinformazione mirate a brand o settori strategici.
Infine, è essenziale avere canali di comunicazione istituzionali chiari e credibili, capaci di smentire tempestivamente le notizie false e contenere i danni.
La disinformazione non è soltanto un problema sociale: è ormai una minaccia concreta per la sicurezza informatica. Agisce come una vulnerabilità invisibile, sfruttando le debolezze umane più che quelle tecnologiche.
Comprendere questo parallelismo significa ampliare il concetto di cyber security e includere la protezione delle persone, oltre che dei sistemi.
Perché, in un mondo iperconnesso, un bug nel codice o un bug nella mente possono essere ugualmente pericolosi.
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