Avellino – Presso la sala Grasso di palazzo Caracciolo, in piazza della Libertà ad Avellino, si è svolta la presentazione del rapporto Montagne Italia 2025, promosso dall’Uncem (Unione nazionale comuni comunità enti montani), con il sostegno del progetto Italiae e delle green communities. L’iniziativa ha visto la partecipazione di amministratori locali, rappresentanti delle istituzioni e del mondo produttivo, esperti di sviluppo territoriale e giornalisti.
Le sfide dei territori montani
L’evento ha inteso fare il punto sulle sfide e sulle opportunità per le aree montane e interne italiane, attraverso un’analisi aggiornata dei fenomeni sociali, economici e ambientali che interessano questi territori, con uno sguardo rivolto alla nuova strategia nazionale e al ruolo delle green communities nel loro sviluppo.
Tra gli interventi, significativa la riflessione di Veronica Barbati, presidente di Coldiretti Avellino: “Credo che questa sia, tra l’altro, un’occasione importante anche per riflettere alla luce dell’ultima strategia nazionale, che pone un accento sulle aree interne non del tutto in linea con ciò che auspichiamo. Riteniamo invece che si tratti di un’opportunità significativa per ridisegnare il futuro delle nostre aree interne e, soprattutto, per ricalibrare le politiche affinché queste zone possano finalmente godere di una centralità che, tra l’altro, va nella direzione della tutela complessiva del paese”.
“Ricordiamolo: abbandonare le aree interne, abbandonare la montagna, significa generare una serie di problemi che, in parte, già oggi viviamo e che ricadono inevitabilmente sull’intera collettività”.
Infrastrutture e giovani: le parole di De Vizia
Sul tema dello spopolamento e della tenuta demografica dei piccoli centri si è espresso anche Emilio De Vizia, presidente di Confindustria Avellino: “Prima di tutto, mi pare che ci siano alcuni esempi di buoni risultati: questo dimostra che, in certi territori, qualcosa di valido è stato fatto per invertire, almeno in parte, il dramma dello spopolamento, che sta diventando sempre più spesso tema da convegno. Tuttavia, secondo me, occorre trasformarlo in un’azione concreta, in una visione strategica, affinché questo fenomeno venga arrestato. Altrimenti, ci ritroveremo ogni sei mesi o ogni anno a ripetere: ‘Quanti sono i giovani che sono andati via?’, senza che nessuno di noi sia realmente in grado di dire cosa stiamo facendo per trattenerli”.
De Vizia ha poi aggiunto: “A mio parere, molto si può fare, a partire dal garantire servizi dignitosi nei piccoli borghi, perché uno dei motivi principali per cui le persone se ne vanno è proprio la mancanza di servizi. Bisogna riportare qui non solo le infrastrutture, ma anche – e soprattutto – le persone. Senza questo secondo passaggio, anche gli investimenti in infrastrutture rischiano di trasformarsi in cattedrali nel deserto. Credo che molto si possa fare e molto dobbiamo fare noi, smettendola di piangerci addosso e di pensare che qualcun altro debba risolvere i nostri problemi”.
E infine, ha concluso: “Alcune aree interne, come le nostre, e quelle montane, rappresentano, secondo me, una possibile soluzione alle criticità che affliggono le aree metropolitane. È necessario allora pensare a servizi condivisi, a comuni che si uniscono e smettono di litigare tra loro, anche quando sono ormai prossimi allo spopolamento. Occorre invece fare un passo indietro per poterne compiere due in avanti, insieme”.
Lo Bianco: “La montagna non è più una marginalità”
A intervenire anche Luca Lo Bianco, curatore del rapporto “Montagne Italia 2025”, che ha dichiarato: “Sì, devo dire che, quando abbiamo cominciato a preparare questo rapporto, di queste questioni non c’era ancora alcuna traccia. Poi, proprio in questi giorni, è esplosa una polemica sull’area interna – una polemica, peraltro, piuttosto curiosa, perché si basa su un piccolo passaggio del documento rimasto in bozza. Ma al di là di questo, che è marginale, credo sia più importante sottolineare il momento in cui ci troviamo”.
“La strategia nazionale per le aree interne è stata una misura importante. Ha svolto una funzione dinamica, ha mobilitato i sindaci. Ve lo ricorderete: si è cominciato a ragionare di sviluppo in una fase in cui neppure i comuni avevano formalmente la delega per occuparsene. La legge sui piccoli comuni, che ha restituito loro questa possibilità, sarebbe arrivata solo qualche anno dopo, con l’articolo 13. Eppure, già allora, gli amministratori locali cominciavano a occuparsi di sviluppo, potremmo dire quasi ‘da fuorilegge’, affrontando un tema che, giuridicamente, non spettava loro”.
“Si iniziava a riflettere sullo spopolamento, e fu subito chiaro che affrontare il tema non poteva significare solo servizi: significava lavoro, significava economia. Si rivendicava, in sostanza, che anche nelle aree interne vive una popolazione con pieni diritti, al pari di quella urbana, che però subisce un vulnus in termini di accesso a sanità, istruzione e mobilità. Occorreva, e occorre ancora, che lo Stato si rendesse presente, che colmasse quel divario”.
“Nel rapporto proponiamo una riflessione sulla montagna, che oggi si trova in un passaggio cruciale: ha abbandonato l’idea di marginalità, dell’essere solo destinataria di misure compensative o ‘perequative’, per iniziare a pensarsi come protagonista dello sviluppo, e dello sviluppo sostenibile”.
“Si è cominciato a considerare la montagna non più come un’appendice debole, ma come un territorio strategico, dove è custodito gran parte del capitale naturale del paese – quel capitale che consente la vita nelle aree urbane: acqua, ossigeno, servizi ecosistemici, flussi di materie prime. È da lì che provengono le risorse fondamentali per la collettività. Basti pensare che il 92% dei prodotti agroalimentari presentati all’Expo provenivano proprio da aree rurali e montane”.
“Le green communities si muovono in questa direzione: non sono più solo difensive, ma giocano ‘all’attacco’, sostenendo che una parte significativa dello sviluppo del paese si gioca proprio nella relazione di sussidiarietà tra le aree montane interne e le città. Ma questa relazione non può prescindere dalle prime. Dobbiamo esserne consapevoli e proporci in questo modo”.
“Il rapporto è ampio, sono 800 pagine, e racconta molte cose, anche attraverso analisi qualitative. C’è un capitolo dedicato, ad esempio, al ritorno alla montagna, fenomeno di cui si è parlato molto anche recentemente sui giornali. Un dato interessante è che oggi si registra un saldo migratorio positivo verso le aree montane: non sono più soltanto i migranti stranieri ad andarci – anche perché l’Italia non è più un paese di approdo stabile, e molti stranieri ormai transitano e proseguono altrove – ma sono soprattutto gli italiani a tornare. Parliamo di circa 60.000 persone che, negli ultimi anni, si sono trasferite in montagna”.
“È importante, però, sottolineare che la pandemia ha accelerato la fine del modello fordista e ha aperto nuovi scenari. Lo smart working, ad esempio, ha reso possibile vivere lontano dalle città. Molti si portano il lavoro con sé, ma c’è anche chi inizia nuove attività: giovani che si trasferiscono in montagna per fare agricoltura biologica, ad esempio. Non è ancora un’economia strutturata, ma è un segnale importante: vuol dire che questi territori tornano ad avere un richiamo, vengono percepiti in modo diverso rispetto al passato”.
“Nel rapporto abbiamo condotto anche un’indagine qualitativa, chiedendo alle persone: a quali condizioni verresti a vivere in montagna? E abbiamo scoperto che non sono gli incentivi economici a motivare la scelta. Chi sceglie la montagna lo fa per il lavoro, per una prospettiva di vita, per un senso, per un modello di esistenza diverso”.
“Dovremmo riflettere di più su cosa significhi davvero ‘vivere’ in montagna, su cosa significhi sviluppo in queste aree”.
“Per dirla in modo sintetico: benessere, sviluppo, qualità della vita non si misurano dalla distanza che separa dalla città. In montagna la realtà è un’altra, e va riconosciuta come tale”.
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