Una previdenza complementare più diffusa, equa ed efficace, capace di affrontare l’attuale contesto demografico ed economico dell’Italia. È l’obiettivo rilanciato dal ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, che nel suo intervento all’assemblea dell’Ania (l’Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici) ha sottolineato la necessità di modernizzare la regolamentazione delle pensioni integrative, “ancora basata sul quadro normativo definito nel 2005”. L’ampliamento della previdenza complementare appare particolarmente urgente alla luce della crisi di sostenibilità del sistema pensionistico tradizionale, messo a dura prova da calo delle nascite, invecchiamento della popolazione e nuove forme di lavoro, meno stabili e remunerative rispetto al passato. In quest’ottica, gli importi che i futuri pensionati percepiranno saranno sempre più bassi, rendendo l’integrazione fondamentale per garantire un tenore di vita adeguato. “Il sistema può e deve essere riformato, ma servono idee su come farlo”, spiega ad Huffpost Mario Padula, professore di Economia all’Università Ca’ Foscari di Venezia e già presidente della Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione (Covip).
In partenza, secondo Padula, è sbagliato affermare che la normativa sulla previdenza complementare sia ferma a vent’anni fa. “È in continua evoluzione, anche per effetto delle norme europee che incidono direttamente sul nostro sistema. Quella del 2005 è stata l’ultima grande riforma, dopo quella del 1993, ma da allora molte cose sono cambiate”, sottolinea il professore. Ciò non toglie che sia necessario intervenire sulla materia, a partire da una riforma del mercato delle rendite, che attualmente non funziona. “La posizione maturata in un fondo pensione può essere riscossa per metà in capitale e per metà in rendita, ma la maggior parte degli iscritti sceglie di incassare tutto in capitale, perché sotto determinate soglie le posizioni possono essere liquidate interamente. Questo problema non riguarda solo l’Italia, ma anche altri paesi europei”. Per affrontare questo ostacolo, secondo Padula, bisognerebbe sviluppare prodotti non completamente assicurativi, ma comunque in grado di rateizzare il capitale. “Qualcosa è già stato fatto con la Rita, la rendita integrativa temporanea anticipata: da questa base si può partire, anche guardando le esperienze nel resto d’Europa”.
Un altro nodo centrale riguarda gli incentivi, soprattutto per chi ha carriere lavorative frammentate o intermittenti. “Il nostro sistema pensionistico si basa ancora sull’idea di un lavoratore con carriera stabile e continua, ma oggi esistono molte forme di lavoro non standard, discontinue, con vuoti contributivi. Bisogna pensare a incentivi fiscali e finanziari per questi soggetti”, spiega Padula. L’attuale normativa prevede una deducibilità fiscale fino a circa 5mila euro l’anno per chi versa ai fondi integrativi, ma il beneficio vale solo per chi ha redditi sufficienti. “Per chi in un determinato anno non ha redditi, il vantaggio fiscale si perde”, sottolinea Padula. “Una soluzione semplice sarebbe permettere di recuperare il beneficio non goduto, spalmandolo in tutto o in parte sugli anni successivi”.
Per l’ex presidente della Covip, però, gli sgravi fiscali non sono di per sé sufficienti. “Servirebbero incentivi finanziari veri e propri per i contribuenti con carriere discontinue o in particolari situazioni di vulnerabilità. Non parliamo di misure indiscriminate, ma di strumenti mirati, legati alla prova dei mezzi, per aiutare chi davvero ne ha bisogno”, prosegue Padula. Tuttavia, queste proposte si scontrano con le parole del ministro dell’Economia, che nel suo intervento all’Ania ha sostenuto che gli incentivi alla contribuzione non dovrebbero comportare nuovi oneri per la finanza pubblica. “Giorgetti è il custode dei conti, e questa è la formula rituale di chi ha quel ruolo. Dopodiché, non è possibile adottare misure efficaci senza ulteriori oneri per la finanza pubblica”.
Uno strumento che si potrebbe realizzare senza grandi costi per lo Stato, invece, è la cosiddetta pension dashboard: un sistema capace di offrire al cittadino un quadro completo della propria situazione previdenziale, integrando le informazioni relative al “primo” e al “secondo pilastro”. “In altri paesi esistono già portali web, gestiti da autorità indipendenti, che permettono di consultare dati, effettuare confronti e simulazioni per prendere decisioni più adeguate e consapevoli”, spiega Padula. Se da questo punto di vista è auspicabile una comunicazione tra l’Inps e i gestori dei fondi integrativi, secondo il professore non bisognerebbe però coinvolgere direttamente l’Istituto nazionale di previdenza nella gestione delle pensioni complementari. “Il primo e il secondo pilastro devono restare separati. I fondi pensione devono essere indipendenti, soprattutto nelle scelte di investimento, e non devono subire pressioni politiche come quelle che inevitabilmente gravitano intorno alla governance dell’Inps”, sottolinea Padula.
Nel frattempo, il sistema pensionistico italiano si trova ad affrontare un’ulteriore incognita: la Corte Costituzionale potrebbe pronunciarsi a breve sulla legittimità del meccanismo di adeguamento delle pensioni rispetto all’inflazione, introdotto dal governo Meloni nel 2022-2023. Il taglio alla rivalutazione, che penalizza gli assegni superiori a quattro volte il minimo, è stato contestato dai sindacati, che propongono invece un meccanismo “a scaglioni”, simile a quello dell’Irpef, in luogo dell’attuale sistema “a blocchi”. Se la Corte costituzionale bocciasse la decisione del governo, per i conti pubblici si aprirebbe un buco da circa 10 miliardi di euro, da aggiungere ai circa 350 miliardi già destinati alle pensioni nel bilancio statale. Ma al di là delle vicende contingenti, il fattore più preoccupante secondo Padula resta comunque la demografia: l’invecchiamento della popolazione e, soprattutto, il calo delle nascite. “Il nostro è un sistema a ripartizione: chi lavora oggi paga le pensioni di chi è in pensione. Ma se i lavoratori diminuiscono e i pensionati aumentano, la sostenibilità dei conti pensionistici entra in crisi”.
Di fronte a questo scenario, avverte Padula, “la previdenza complementare può contribuire a risolvere alcuni problemi, ma non tutti. Anche perché il primo pilastro assorbe già il 33% del reddito da lavoro, quindi lo spazio per aumentare ulteriormente i contributi è limitato”. La riforma della previdenza integrativa dovrà quindi procedere di pari passo con una strategia sulle pensioni tradizionali che non penalizzi le generazioni future. “Evidentemente va evitato di mandare in pensione una generazione un po’ prima solo per accontentarla. Al contrario, bisognerà continuare ad adeguare l’età pensionabile all’aspettativa di vita e, più in generale, fare ciò che è necessario per tenere in ordine il sistema. E poi riflettere seriamente sulle ragioni del declino demografico, intervenendo su di esse in modo strutturale”.
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