Sul finire della giornata lavorativa di un afoso martedì di inizio luglio, capita allo scrivente di imbattersi in una intervista di Bloomberg TV a Jack Mallers, faccia da bravo ragazzo e occhio vispo. Durante l’intervista, il CEO di Strike parla del suo nuovo ruolo in Twenty One. Direte: cosa? chi? Bene, andiamo con ordine e partiamo dall’inizio.
Nel mondo delle criptovalute, negli ultimi anni, abbiamo assistito all’emergere di un fenomeno che potrebbe, in teoria, portare bitcoin e altre monete digitali all’interno della gestione finanziaria delle aziende. Il fenomeno in questione ha un nome: Crypto Treasury Firms. Si tratta di società che non solo accettano Bitcoin, ma lo acquistano attivamente come parte della propria strategia patrimoniale facendolo diventare una vera e propria riserva aziendale di valore.
Le due aziende simbolo di questo approccio sono MicroStrategy e la più recente ed appena citata Twenty One.
La prima è stata fondata nel 1989 da Michael Saylor come software company, ma dal 2020 ha fatto notizia per una scelta radicale: investire miliardi di dollari in Bitcoin. Oggi detiene oltre 200.000 BTC, e Saylor ha ribadito più volte che considera Bitcoin “il bene più sicuro mai inventato” per proteggersi dall’inflazione monetaria. La sua fiducia nella principale criptovaluta è talmente elevata da emettere debito e strumenti convertibili per acquistarla. Una strategia talmente dominante nel core business aziendale che la performance sono ormai più legate al prezzo del BTC che ai risultati operativi.
Twenty One è l’ultima arrivata. Si definisce una Bitcoin Operating Company, cioè un veicolo che integra Bitcoin nei processi, nei prodotti e nel bilancio (ah!). Tra i suoi investitori figurano Tether, Bitfinex e SoftBank (con le prime due che hanno depositato nelle casse 37.229,69 BTC) e al momento si configura come una sorta di holding in Bitcoin, senza attività core specifiche.
Sarà stata l’afa, o forse la stanchezza delle sei della sera, ma allo scrivente queste scatole ripiene di bitcoin hanno fatto salire qualche domanda.
Bitcoin nasce con una promessa: decentralizzare la finanza. Una rete peer-to-peer, senza intermediari, dove nessuna entità può esercitare un controllo centralizzato. Ma a quindici anni dalla sua nascita, il volto della rivoluzione crypto sta cambiando. E alcune realtà — come MicroStrategy, Twenty One, e presto forse anche ETF e fondi sovrani — stanno accumulando enormi quantità di Bitcoin in bilancio.
Altro punto. Bitcoin è scarso per definizione, visto che c’è un limite di emissione fissato a 21 milioni. E già oggi, alcune aziende detengono centinaia di migliaia di BTC. Secondo stime aggiornate, l’1% degli indirizzi controlla oltre il 50% dell’offerta. A questo si aggiungono wallet aziendali, fondi di investimento e custodi centralizzati. Qui nasce la prima domanda: come può essere davvero “decentralizzata” un’economia in cui pochi attori — pubblici o privati — possono condizionare la liquidità, la volatilità e perfino la governance implicita della rete?
Le Crypto Treasury Firms (almeno per il momento) non producono beni, non offrono servizi tradizionali e non finanziano l’economia reale nel senso classico. Non fanno credito a imprese, non costruiscono infrastrutture, non innovano prodotti. In molti casi, acquistano Bitcoin e lo mettono in cassaforte. Ma allora siamo per caso di fronte a un nuovo “asset manager globale” mascherato da rivoluzione tecnologica?
Dietro la narrativa libertaria si sta formando una nuova architettura finanziaria, fatta di soggetti iper-liquidi, deregolamentati, con accesso privilegiato al capitale. Se prima erano banche e fondi hedge a guadagnare sull’accumulazione e la speculazione, oggi rischiamo di replicare la stessa logica con un’altra infrastruttura, senza averla davvero cambiata. Se si propone una gestione “capital-efficient” e senza debito, ma ci si rivolge a investitori istituzionali, non si sta forse replicando lo schema delle grandi banche d’affari che tengono i fili dei mercati finanziari da decenni?
Il mondo crypto ha ancora un enorme potenziale trasformativo. Ma la nascita delle Crypto Treasury Firms solleva una questione etica e strutturale:
stiamo decentralizzando il potere, creando dei presidi per difenderlo, o stiamo solo sostituendo i vecchi centri con nuovi nomi?
Finché queste aziende non genereranno valore reale — non investiranno in innovazione, non sosterranno l’economia produttiva, non condivideranno la ricchezza creata — il rischio di costruire un nuovo sistema centralizzato, meno trasparente e meno regolato di quello che abbiamo cercato di superare, rimarrà elevato.
In questo senso, e allargando l’orizzonte della riflessione, la vera sfida non è se il Bitcoin salirà a 1 milione di dollari, ma chi lo controllerà — e con quali conseguenze per l’economia reale e per la promessa originaria di libertà finanziaria.
Tante domande e tanti dubbi ma anche un grande assente. Si, perchè in tutto questo, c’è un attore che fatica a tenere il passo: il legislatore. Le Crypto Treasury Firms, e più in generale le innovazioni finanziarie basate su criptoasset, si muovono in un terreno ancora poco regolato, opaco, e spesso volutamente ambiguo, cosa normale per un mondo totalmente nuovo. La velocità con cui queste strutture si stanno evolvendo — con nuove forme di custodia, credito on-chain, strumenti derivati decentralizzati — è tale da lasciare la politica sempre un passo indietro (due o tre se guardiamo a quella nostrana).
Il risultato? Un rischio di asimmetria informativa fortissimo. Chi ha accesso alle informazioni, agli strumenti finanziari sofisticati, ai contatti giusti nel mondo crypto e fintech, riesce a proteggersi. Ma il piccolo investitore, attirato dalla promessa di “libertà finanziaria” e rendimenti elevati, si ritrova spesso esposto a prodotti ad altissima volatilità, senza alcuna tutela. È lo stesso copione visto nel 2022 con i crolli di FTX, Celsius e Terra/Luna: a perdere tutto non sono stati i fondatori o gli investitori istituzionali, ma i risparmiatori comuni.
Ecco perché la lentezza normativa non è un dettaglio tecnico, ma una questione di giustizia economica. Finché non si definiscono regole chiare su trasparenza, governance, riserve, accesso al mercato e tutela dell’investitore, queste “nuove élite” continueranno a prosperare in un vuoto di responsabilità, scaricando i rischi sulla base della piramide.
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